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2022-01-10
La piaga italiana delle bambine costrette al matrimonio islamico
Il primo caso giudiziario su una sposa bambina di cui si trova traccia sulla stampa risale al 1993: a Treviso una bimba di 14 anni nel mercato del popolo zingaro all’epoca valeva 50 milioni di lire. E per quel prezzo fu venduta dalla famiglia a un uomo che non aveva mai visto prima. La storia però ha un lieto fine, perché, raccontano le cronache dell’epoca, la bimba riuscì a fuggire e a far arrestare gli zii. Poi, ogni anno, qualche caso isolato, che resta impigliato nella cronaca locale, ricorda che il fenomeno resiste ancora in Italia.
Negli ultimi mesi una bambina kosovara di origine rom di 12 anni è fuggita dalla sua abitazione di Palermo, perché le volevano far sposare un parente in Francia; una marocchina appena diciottenne che viveva a Ferrara è riuscita a tornare in Italia dopo essere stata costretta dal padre a sposare il cugino in Marocco e ha denunciato i parenti; l’1 giugno 2021 una pattuglia di polizia di Reggio Emilia ha salvato una minorenne facendo irruzione a casa di una donna indiana nella quale sarebbe dovuto arrivare il fratello che l’avrebbe portata via contro la sua volontà, perché in India l’aspettava il futuro sposo che non aveva ancora conosciuto.
L’elenco è lungo. A Brescia il 10 giugno salta fuori che due genitori pakistani minacciano la figlia, che non vuole sposare l’uomo scelto per lei dai familiari, di fare «la fine di Sana», la ragazza uccisa in Pakistan dai parenti per essersi opposta alle nozze. Ma nel 99 per cento dei casi storie come queste restano sommerse. Una statistica ufficiale non esiste ancora. Le associazioni Non c’è pace senza giustizia e The circle Italia onlus, però, il 10 dicembre, data che coincide con la ricorrenza della Giornata mondiale dei diritti umani, in cui fu proclamata da parte dell’assemblea generale dell’Onu la Dichiarazione universale dei diritti umani (era il 10 dicembre 1948), hanno presentato in Senato una ricerca sui matrimoni minorili in Italia.
Pandemia e lockdown, è emerso durante l’incontro, avrebbero «esposto maggiormente le ragazze più vulnerabili al rischio di matrimonio precoce». Le unioni non verrebbero registrate e quando sono celebrate all’estero non giunge nessuna comunicazione alle autorità italiane. Stando ai dati presentati in Senato, il 41 per cento delle vittime di matrimonio forzato ha cittadinanza italiana; il 59 per cento, invece, è straniero. Ma tutto è demandato a un monitoraggio dei volontari. L’unico studio di natura quantitativa e qualitativa esistente sarebbe una ricerca dell’Associazione 21 luglio condotta nelle baraccopoli di Roma, dalla quale risulta una grande prevalenza di matrimoni precoci nelle comunità rom residenti in Italia, che ammonta al 77 per cento.
In realtà, la Direzione centrale della polizia criminale, che fa capo al Dipartimento di pubblica sicurezza, un dossier l’ha prodotto, proprio all’indomani dell’approvazione della legge numero 69 del 2019, il cosiddetto Codice rosso, che ha introdotto uno specifico reato nel codice penale con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno dei matrimoni forzati e delle spose bambine. E, così, ora l’articolo 558 bis del codice penale sanziona con pene da 1 a 5 anni «chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile, e, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile».
I dati classificati dal servizio di analisi criminale (struttura interforze nella quale opera personale della polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza e della polizia penitenziaria) riguardano l’arco temporale compreso tra l’entrata in vigore del Codice rosso (9 agosto 2019) e il 31 maggio 2021. E si contano 24 casi, l’85 per cento dei quali commessi in danno di persone di sesso femminile. Un terzo, poi, sono minorenni (il 9 per cento entro i 14 anni e il 27 per cento tra i 14 e i 17 anni). Il 59 per cento delle vittime sono straniere, in maggioranza pakistane, seguite dalle albanesi. Nel 73 per cento dei casi gli autori del reato sono uomini, anche in questo caso di nazionalità prevalentemente pakistana, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci.
«Il report», spiegano gli autori, «aiuta ad analizzare il fenomeno, che ha radici storiche, culturali e talvolta religiose, e, individuando i contesti di riferimento, ha l’obiettivo di migliorare le strategie di contrasto». Ma ammettono: «I dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale. L’emersione di questo reato, infatti, non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, nate in famiglie connotate da forte cultura patriarcale, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare, anche per paura di ritorsioni».
Si è scoperto che, stranamente, i casi sono più diffusi tra Lombardia ed Emilia Romagna. Mentre al Sud, tolte Calabria e Sicilia (che contano meno di 5 casi complessivamente), il fenomeno non è presente. Al rifiuto del matrimonio, inoltre, spesso consegue lo sfregio del volto per chi si ribella: i casi nell’anno appena trascorso sono stati 65. Alcuni procedimenti penali hanno già prodotto delle condanne. Anche se non tutte, per la verità, riportano quanto introdotto dal Codice rosso. A Torino, per esempio, una donna egiziana è stata condannata in primo grado a 1 anno e 4 mesi di carcere perché aveva promesso la figlia di 15 anni in sposa a un uomo molto più grande di lei e l’aveva segregata in casa fino a quando non avesse accettato il matrimonio.
A Firenze, invece, la mano dei giudici è stata molto più pesante: un capofamiglia serbo di etnia rom è stato condannato a 13 anni di carcere con l’accusa di aver ridotto in schiavitù una delle sue figlie. Al serbo è stata anche tolta la responsabilità genitoriale. La ragazza sarebbe stata promessa in sposa dal padre all’età di 13 anni a un giovane rom serbo residente in Francia al prezzo di 15.000 euro. E, secondo quanto ricostruito dall’inchiesta, ad alcune condizioni poste dalla famiglia del promesso sposo, pena la rottura dell’accordo: doveva arrivare vergine al matrimonio, doveva dimagrire, curare la pelle del viso e imparare a dovere i lavori domestici. La segregazione sarebbe durata quattro anni.
A Milano, invece, un padre del Bangladesh è stato condannato a 3 anni e 9 mesi per aver combinato il matrimonio della figlia di 9 anni nel Paese d’origine con un cugino di 22 anni. La madre della piccola, però, per impedirlo, aveva distrutto il suo passaporto e quello della bimba, scongiurando così la partenza per Dakka. Poi ha denunciato il marito. E, infine, ci sono le ragazze che non ce l’hanno fatta. Come Saman Abbas, scomparsa da Novellara, in provincia di Reggio Emilia, la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 e, probabilmente, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, uccisa e fatta a pezzi da uno zio con la complicità dei genitori.
Tiziana Dal Pra, attivista dei diritti delle donne e fondatrice di Trama di Terre, associazione che ha gestito il primo rifugio in Italia per le ragazze fuggite da nozze forzate, in un’intervista al Quotidiano nazionale ha stimato «un migliaio di casi all’anno». E ha ricordato: «È un problema di patriarcato che avevamo anche noi anni fa». Finché la storia di Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare un matrimonio forzato nel 1966, non avviò un cambio di passo culturale in Italia. Dove, però, a distanza di oltre 50 anni il fenomeno, in contesti di particolare arretratezza culturale legati all’immigrazione, persiste. E di fronte al quale, al di là di qualche vuoto slogan sbandierato dall’ultrasinistra, si continua a chiudere gli occhi.
«A sinistra ripetono ancora che bisogna rispettare la cultura dei loro genitori»

Souad Sbai (Ansa)
«Le femministe di una certa sinistra radical chic continuano a ripetere che è la loro cultura, che bisogna rispettare le loro tradizioni. Ma quali tradizioni? Alcune comunità di immigrati non permettono alle figlie di andare a scuola, di emanciparsi, e quello è il primo passo verso un matrimonio forzato». Souad Sbai, origini marocchine, già deputata di centrodestra, presidente di Acmid-Donna onlus, associazione che tutela i diritti delle musulmane in Italia, e responsabile del Dipartimento integrazione e rapporti con le comunità straniere presenti in Italia, promosso dalla Lega, ha le idee chiare sulle spose bambine.
Quanto è esteso il fenomeno?
«È impressionante, soprattutto nelle comunità di Bangladesh e Pakistan. Negli ultimi tempi è meno diffuso tra chi proviene dai Paesi dell’Africa del Nord, fatta eccezione per le aree rurali. Il disinteresse e un certo buonismo esasperato di sinistra, che continua a giustificare alcuni atteggiamenti di quelle comunità di immigrati, non ne favorisce l’emersione. Con questo atteggiamento ci stiamo giocando la possibilità di inclusione delle seconde generazioni».
Da più parti si afferma che non ci sono dati.
«Non si è voluto fare nulla per questa problematica. Quando Laura Boldrini era presidente della Camera e chiedevamo di essere ascoltati per far conoscere cosa accadeva, non nei Paesi d’origine di questi cittadini ma in Italia, non siamo neppure stati ricevuti».
Cosa avreste voluto rappresentare alle istituzioni?
«Che i matrimoni forzati sono all’ordine del giorno e che ci sono ambienti in cui, purtroppo, è ancora una prassi. E non si tratta soltanto di bambine che vivono in Italia e che vengono affidate come mogli a parenti o amici. Molte vittime fanno il percorso inverso: partono dal Pakistan o dal Bangladesh e vengono a sposarsi in Italia. L’età è sempre molto bassa, parliamo di ragazzine».
Ma questi matrimoni vengono registrati in Italia? Sono ufficiali?
«Di queste ragazze non si sa più nulla. Finiscono chiuse in casa a fare da sguattere ai loro mariti, coperte dal velo. E solo in poche riescono a ribellarsi. Impedendo loro di andare a scuola, le famiglie patriarcali riescono a ottenere il risultato del matrimonio forzato più facilmente. Parliamo di 60 bambine musulmane su 100, costrette dai genitori ad abbandonare la scuola dell’obbligo tra la quinta elementare e la prima media. E non è stata la pandemia. Un aumento del 300 per cento si è verificato già tra il 2016 e il 2017. Chi lo permette, però, poi pontifica sull’integrazione».
Sembra che per questi temi alcuni ambienti abbiano l’esclusiva.
«Ci sono salotti in cui la chiamano accoglienza. Ma non basta dare una casa e il reddito di cittadinanza a una famiglia di immigrati per usare questa parola. Bisogna intervenire sull’integrazione, con la cultura. Cosa si fa per una donna musulmana che rifiuta un matrimonio forzato o che è vittima di violenza? Nulla. Non le si offre neppure un posto in cui stare per difenderla dalla famiglia o dal marito. Se ha dei figli, poi, il tutto diventa ancora più difficile. E spesso sono proprio le istituzioni a fregarsene. La recente richiesta di archiviazione di una denuncia per maltrattamenti presentata da una ragazza marocchina nei confronti del marito che la costringeva a indossare il velo integrale ne è la prova».
Anche il velo integrale viene giustificato con il rispetto delle tradizioni?
«Questo ha scritto il giudice di Perugia, sostenendo che la condotta di costringerla a tenere il velo integrale rientra nel quadro culturale dei soggetti interessati. Ma sono parole che offendono. E offendono anche la nostra cultura di origine».
Perché?
«Sono una minoranza i musulmani che indossano il velo integrale. Con questo atteggiamento arriveremo a giustificare anche la lapidazione. La realtà è che mentre una certa cultura buonista è concentrata su come far passare per tradizione i matrimoni forzati, la segregazione, le mutilazioni genitali, la poligamia, ci sono ragazze delle seconde generazioni che, abbandonata la scuola, sprofondano in un buco nero».
Che intende?
«Tempo fa avevo diffuso uno studio che dimostrava come l’Italia era seconda in Europa, dopo la Grecia, tra le nazioni con le percentuali più alte di popolazione immigrata con livello minimo di studio. Rispetto all’abbandono scolastico, invece, aveva il primato negativo, con il 35 per cento di abbandono tra i giovani stranieri».
Insomma, meno istruita è la fanciulla, più facile sarà imporle il marito?
«Le bambine vengono allontanate dai banchi prima dell’inizio dell’adolescenza, al massimo a 12 anni, perché le famiglie ritengono che una volta introdotte ulteriormente negli studi saranno più portate a ribellarsi. Chi denuncia e si oppone alle scelte della famiglia, infatti, di solito è anche ben inserito in società e ha un buon livello di istruzione».
Invece, quando sarebbe il caso di intervenire?
«A mio avviso, intervenire nel momento in cui le piccole lasciano la scuola potrebbe invertire la rotta. Una maggiore consapevolezza produrrebbe subito il rifiuto della terribile pratica dei matrimoni combinati e, automaticamente, l’emersione del fenomeno».
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In meno di due anni scoperti dalla polizia 24 casi di minorenni costrette a dire «sì» a un matrimonio combinato. Le vittime sono musulmane straniere, soprattutto pakistane, bangladesi e rom. Ma è la punta di un iceberg di cui nessuno parla mai.L’ex parlamentare italo-marocchina Souad Sbai: «A molte ragazzine è impedito di andare a scuola, primo passo verso la sottomissione. Ma la Boldrini non volle riceverci».Lo speciale contiene due articoliIl primo caso giudiziario su una sposa bambina di cui si trova traccia sulla stampa risale al 1993: a Treviso una bimba di 14 anni nel mercato del popolo zingaro all’epoca valeva 50 milioni di lire. E per quel prezzo fu venduta dalla famiglia a un uomo che non aveva mai visto prima. La storia però ha un lieto fine, perché, raccontano le cronache dell’epoca, la bimba riuscì a fuggire e a far arrestare gli zii. Poi, ogni anno, qualche caso isolato, che resta impigliato nella cronaca locale, ricorda che il fenomeno resiste ancora in Italia.Negli ultimi mesi una bambina kosovara di origine rom di 12 anni è fuggita dalla sua abitazione di Palermo, perché le volevano far sposare un parente in Francia; una marocchina appena diciottenne che viveva a Ferrara è riuscita a tornare in Italia dopo essere stata costretta dal padre a sposare il cugino in Marocco e ha denunciato i parenti; l’1 giugno 2021 una pattuglia di polizia di Reggio Emilia ha salvato una minorenne facendo irruzione a casa di una donna indiana nella quale sarebbe dovuto arrivare il fratello che l’avrebbe portata via contro la sua volontà, perché in India l’aspettava il futuro sposo che non aveva ancora conosciuto.L’elenco è lungo. A Brescia il 10 giugno salta fuori che due genitori pakistani minacciano la figlia, che non vuole sposare l’uomo scelto per lei dai familiari, di fare «la fine di Sana», la ragazza uccisa in Pakistan dai parenti per essersi opposta alle nozze. Ma nel 99 per cento dei casi storie come queste restano sommerse. Una statistica ufficiale non esiste ancora. Le associazioni Non c’è pace senza giustizia e The circle Italia onlus, però, il 10 dicembre, data che coincide con la ricorrenza della Giornata mondiale dei diritti umani, in cui fu proclamata da parte dell’assemblea generale dell’Onu la Dichiarazione universale dei diritti umani (era il 10 dicembre 1948), hanno presentato in Senato una ricerca sui matrimoni minorili in Italia. Pandemia e lockdown, è emerso durante l’incontro, avrebbero «esposto maggiormente le ragazze più vulnerabili al rischio di matrimonio precoce». Le unioni non verrebbero registrate e quando sono celebrate all’estero non giunge nessuna comunicazione alle autorità italiane. Stando ai dati presentati in Senato, il 41 per cento delle vittime di matrimonio forzato ha cittadinanza italiana; il 59 per cento, invece, è straniero. Ma tutto è demandato a un monitoraggio dei volontari. L’unico studio di natura quantitativa e qualitativa esistente sarebbe una ricerca dell’Associazione 21 luglio condotta nelle baraccopoli di Roma, dalla quale risulta una grande prevalenza di matrimoni precoci nelle comunità rom residenti in Italia, che ammonta al 77 per cento. In realtà, la Direzione centrale della polizia criminale, che fa capo al Dipartimento di pubblica sicurezza, un dossier l’ha prodotto, proprio all’indomani dell’approvazione della legge numero 69 del 2019, il cosiddetto Codice rosso, che ha introdotto uno specifico reato nel codice penale con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno dei matrimoni forzati e delle spose bambine. E, così, ora l’articolo 558 bis del codice penale sanziona con pene da 1 a 5 anni «chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile, e, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile».I dati classificati dal servizio di analisi criminale (struttura interforze nella quale opera personale della polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza e della polizia penitenziaria) riguardano l’arco temporale compreso tra l’entrata in vigore del Codice rosso (9 agosto 2019) e il 31 maggio 2021. E si contano 24 casi, l’85 per cento dei quali commessi in danno di persone di sesso femminile. Un terzo, poi, sono minorenni (il 9 per cento entro i 14 anni e il 27 per cento tra i 14 e i 17 anni). Il 59 per cento delle vittime sono straniere, in maggioranza pakistane, seguite dalle albanesi. Nel 73 per cento dei casi gli autori del reato sono uomini, anche in questo caso di nazionalità prevalentemente pakistana, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci. «Il report», spiegano gli autori, «aiuta ad analizzare il fenomeno, che ha radici storiche, culturali e talvolta religiose, e, individuando i contesti di riferimento, ha l’obiettivo di migliorare le strategie di contrasto». Ma ammettono: «I dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale. L’emersione di questo reato, infatti, non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, nate in famiglie connotate da forte cultura patriarcale, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare, anche per paura di ritorsioni».Si è scoperto che, stranamente, i casi sono più diffusi tra Lombardia ed Emilia Romagna. Mentre al Sud, tolte Calabria e Sicilia (che contano meno di 5 casi complessivamente), il fenomeno non è presente. Al rifiuto del matrimonio, inoltre, spesso consegue lo sfregio del volto per chi si ribella: i casi nell’anno appena trascorso sono stati 65. Alcuni procedimenti penali hanno già prodotto delle condanne. Anche se non tutte, per la verità, riportano quanto introdotto dal Codice rosso. A Torino, per esempio, una donna egiziana è stata condannata in primo grado a 1 anno e 4 mesi di carcere perché aveva promesso la figlia di 15 anni in sposa a un uomo molto più grande di lei e l’aveva segregata in casa fino a quando non avesse accettato il matrimonio. A Firenze, invece, la mano dei giudici è stata molto più pesante: un capofamiglia serbo di etnia rom è stato condannato a 13 anni di carcere con l’accusa di aver ridotto in schiavitù una delle sue figlie. Al serbo è stata anche tolta la responsabilità genitoriale. La ragazza sarebbe stata promessa in sposa dal padre all’età di 13 anni a un giovane rom serbo residente in Francia al prezzo di 15.000 euro. E, secondo quanto ricostruito dall’inchiesta, ad alcune condizioni poste dalla famiglia del promesso sposo, pena la rottura dell’accordo: doveva arrivare vergine al matrimonio, doveva dimagrire, curare la pelle del viso e imparare a dovere i lavori domestici. La segregazione sarebbe durata quattro anni.A Milano, invece, un padre del Bangladesh è stato condannato a 3 anni e 9 mesi per aver combinato il matrimonio della figlia di 9 anni nel Paese d’origine con un cugino di 22 anni. La madre della piccola, però, per impedirlo, aveva distrutto il suo passaporto e quello della bimba, scongiurando così la partenza per Dakka. Poi ha denunciato il marito. E, infine, ci sono le ragazze che non ce l’hanno fatta. Come Saman Abbas, scomparsa da Novellara, in provincia di Reggio Emilia, la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 e, probabilmente, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, uccisa e fatta a pezzi da uno zio con la complicità dei genitori. Tiziana Dal Pra, attivista dei diritti delle donne e fondatrice di Trama di Terre, associazione che ha gestito il primo rifugio in Italia per le ragazze fuggite da nozze forzate, in un’intervista al Quotidiano nazionale ha stimato «un migliaio di casi all’anno». E ha ricordato: «È un problema di patriarcato che avevamo anche noi anni fa». Finché la storia di Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare un matrimonio forzato nel 1966, non avviò un cambio di passo culturale in Italia. Dove, però, a distanza di oltre 50 anni il fenomeno, in contesti di particolare arretratezza culturale legati all’immigrazione, persiste. 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Souad Sbai, origini marocchine, già deputata di centrodestra, presidente di Acmid-Donna onlus, associazione che tutela i diritti delle musulmane in Italia, e responsabile del Dipartimento integrazione e rapporti con le comunità straniere presenti in Italia, promosso dalla Lega, ha le idee chiare sulle spose bambine. Quanto è esteso il fenomeno? «È impressionante, soprattutto nelle comunità di Bangladesh e Pakistan. Negli ultimi tempi è meno diffuso tra chi proviene dai Paesi dell’Africa del Nord, fatta eccezione per le aree rurali. Il disinteresse e un certo buonismo esasperato di sinistra, che continua a giustificare alcuni atteggiamenti di quelle comunità di immigrati, non ne favorisce l’emersione. Con questo atteggiamento ci stiamo giocando la possibilità di inclusione delle seconde generazioni». Da più parti si afferma che non ci sono dati. «Non si è voluto fare nulla per questa problematica. Quando Laura Boldrini era presidente della Camera e chiedevamo di essere ascoltati per far conoscere cosa accadeva, non nei Paesi d’origine di questi cittadini ma in Italia, non siamo neppure stati ricevuti». Cosa avreste voluto rappresentare alle istituzioni? «Che i matrimoni forzati sono all’ordine del giorno e che ci sono ambienti in cui, purtroppo, è ancora una prassi. E non si tratta soltanto di bambine che vivono in Italia e che vengono affidate come mogli a parenti o amici. Molte vittime fanno il percorso inverso: partono dal Pakistan o dal Bangladesh e vengono a sposarsi in Italia. L’età è sempre molto bassa, parliamo di ragazzine». Ma questi matrimoni vengono registrati in Italia? Sono ufficiali? «Di queste ragazze non si sa più nulla. Finiscono chiuse in casa a fare da sguattere ai loro mariti, coperte dal velo. E solo in poche riescono a ribellarsi. Impedendo loro di andare a scuola, le famiglie patriarcali riescono a ottenere il risultato del matrimonio forzato più facilmente. Parliamo di 60 bambine musulmane su 100, costrette dai genitori ad abbandonare la scuola dell’obbligo tra la quinta elementare e la prima media. E non è stata la pandemia. Un aumento del 300 per cento si è verificato già tra il 2016 e il 2017. Chi lo permette, però, poi pontifica sull’integrazione». Sembra che per questi temi alcuni ambienti abbiano l’esclusiva. «Ci sono salotti in cui la chiamano accoglienza. Ma non basta dare una casa e il reddito di cittadinanza a una famiglia di immigrati per usare questa parola. Bisogna intervenire sull’integrazione, con la cultura. Cosa si fa per una donna musulmana che rifiuta un matrimonio forzato o che è vittima di violenza? Nulla. Non le si offre neppure un posto in cui stare per difenderla dalla famiglia o dal marito. Se ha dei figli, poi, il tutto diventa ancora più difficile. E spesso sono proprio le istituzioni a fregarsene. La recente richiesta di archiviazione di una denuncia per maltrattamenti presentata da una ragazza marocchina nei confronti del marito che la costringeva a indossare il velo integrale ne è la prova». Anche il velo integrale viene giustificato con il rispetto delle tradizioni? «Questo ha scritto il giudice di Perugia, sostenendo che la condotta di costringerla a tenere il velo integrale rientra nel quadro culturale dei soggetti interessati. Ma sono parole che offendono. E offendono anche la nostra cultura di origine». Perché? «Sono una minoranza i musulmani che indossano il velo integrale. Con questo atteggiamento arriveremo a giustificare anche la lapidazione. La realtà è che mentre una certa cultura buonista è concentrata su come far passare per tradizione i matrimoni forzati, la segregazione, le mutilazioni genitali, la poligamia, ci sono ragazze delle seconde generazioni che, abbandonata la scuola, sprofondano in un buco nero». Che intende? «Tempo fa avevo diffuso uno studio che dimostrava come l’Italia era seconda in Europa, dopo la Grecia, tra le nazioni con le percentuali più alte di popolazione immigrata con livello minimo di studio. Rispetto all’abbandono scolastico, invece, aveva il primato negativo, con il 35 per cento di abbandono tra i giovani stranieri». Insomma, meno istruita è la fanciulla, più facile sarà imporle il marito? «Le bambine vengono allontanate dai banchi prima dell’inizio dell’adolescenza, al massimo a 12 anni, perché le famiglie ritengono che una volta introdotte ulteriormente negli studi saranno più portate a ribellarsi. Chi denuncia e si oppone alle scelte della famiglia, infatti, di solito è anche ben inserito in società e ha un buon livello di istruzione». Invece, quando sarebbe il caso di intervenire? «A mio avviso, intervenire nel momento in cui le piccole lasciano la scuola potrebbe invertire la rotta. Una maggiore consapevolezza produrrebbe subito il rifiuto della terribile pratica dei matrimoni combinati e, automaticamente, l’emersione del fenomeno».
Steve Witkoff (Ansa)
Il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov, ha, sì, definito l’incontro «utile, costruttivo e molto concreto», ma ha anche precisato che resta «molto lavoro da fare». «Non siamo certo più lontani dalla pace», ha poi specificato. «Siamo riusciti a concordare alcuni punti, altri hanno suscitato critiche, ma l’essenziale è che si sia svolta una discussione costruttiva e che le parti abbiano dichiarato la loro volontà di proseguire negli sforzi», ha continuato, pur sottolineando che sulla questione dei territori «non è ancora stata scelta alcuna soluzione di compromesso», nonostante «alcune proposte americane possano essere discusse». «Apprezziamo la volontà politica del presidente Trump di continuare a cercare soluzioni. Siamo tutti pronti a incontrarci tutte le volte che sarà necessario per raggiungere una soluzione pacifica», ha dichiarato, dal canto suo, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha anche accusato gli europei di «rifiutare» il dialogo con Mosca, per poi sostenere che Putin non avrebbe respinto in toto il piano di pace americano.
«Quello che stiamo cercando di capire è se è possibile porre fine alla guerra in un modo che protegga il futuro dell’Ucraina e che entrambe le parti possano accettare», ha affermato, martedì sera, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, commentando il colloquio svoltosi al Cremlino. «Penso che abbiamo fatto qualche progresso, ma non siamo ancora arrivati al traguardo», ha aggiunto, per poi specificare: «Solo Putin può porre fine a questa guerra da parte russa». Ricordiamo che, ieri, Rubio, oltre a parlarsi telefonicamente con Antonio Tajani sulla mediazione statunitense in Ucraina, non ha preso parte alla riunione dei ministri degli Esteri della Nato, facendosi rappresentare dal suo vice. Un’assenza a suo modo significativa che il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, ha comunque cercato di minimizzare, affermando: «Non leggiamo più di quanto non ci sia». «C’è solo una persona al mondo che è in grado di sbloccare la situazione quando si tratta della guerra in Ucraina, ed è il presidente americano Donald J. Trump» ha anche detto, puntando così a rinsaldare le relazioni transatlantiche. Relazioni tuttavia un po’ scricchiolanti: secondo Politico, ieri, al vertice Nato, il vicesegretario di Stato americano, Christopher Landau, ha criticato gli europei per aver allentato i loro legami con l’industria della difesa statunitense.
Nel frattempo, sempre ieri, è saltato l’incontro che avrebbe dovuto tenersi a Bruxelles tra Witkoff e Volodymyr Zelensky. «Dopo Bruxelles, Rustem Umerov e Andrii Hnatov inizieranno i preparativi per un incontro con gli inviati del presidente Trump negli Stati Uniti», ha dichiarato, poco dopo la notizia, il presidente ucraino. «I rappresentanti ucraini informeranno i loro colleghi in Europa su quanto emerso dai contatti avvenuti ieri a Mosca da parte americana e discuteranno anche della componente europea della necessaria architettura di sicurezza», ha aggiunto. Una doccia fredda sull’Ucraina è frattanto arrivata dal presidente finlandese, Alexander Stubb. «La realtà è che anche noi finlandesi dobbiamo prepararci al momento in cui la pace sarà ristabilita e che tutte le condizioni per una pace giusta di cui abbiamo tanto parlato negli ultimi quattro anni hanno poche possibilità di essere soddisfatte», ha affermato.
È in questo quadro ingarbugliato che Emmanuel Macron continua a cercare di ritagliarsi il ruolo di anti-Trump. Il presidente francese si è recato a Pechino, dove, secondo la Bbc, ha intenzione di discutere della crisi ucraina con Xi Jinping, per cercare di convincerlo a fare pressione su Putin. Si tratta, in sostanza, della stessa strategia portata avanti per anni dall’amministrazione Biden, che però non ha avuto alcun effetto concreto. È d’altronde tutto da dimostrare che Pechino auspichi realmente una conclusione del conflitto ucraino. Se all’inizio dell’invasione si era presentato come l’uomo del dialogo con Mosca, dal 2024 l’inquilino dell’Eliseo si è riscoperto falco antirusso (pur non disdegnando di mandare, lo scorso maggio, l’ambasciatore francese all’insediamento presidenziale di Putin). Adesso, nel suo iperattivismo inconcludente, Macron sta tentando di aprire un non meglio precisato percorso diplomatico parallelo a quello della Casa Bianca, tenendo la mano al rivale sistemico degli Usa: il che rischia di portare indirettamente a nuove fibrillazioni tra Washington e Bruxelles.
In tutto questo, ieri, al vertice della Nato, il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha discusso con gli omologhi di Bulgaria e Romania dei recenti attacchi ucraini nel Mar Nero. Attacchi che, lunedì, Tayyip Erdogan aveva severamente criticato, affermando: «Non possiamo in nessun caso accettare questi attacchi, che minacciano la sicurezza della navigazione, dell’ambiente e della vita nella nostra zona economica esclusiva». Un’irritazione, quella di Ankara, che potrebbe avere impatti negativi sulla posizione negoziale di Zelensky, che già deve gestire le difficoltà legate al caso Yermak. Fidan ha inoltre reso noto che il presidente turco continua a essere in contatto con Putin. «La cosa principale è che i negoziati continuino e che si trovi una via di mezzo. Credo che Witkoff, che attualmente sta mediando, possa svolgere un ruolo positivo. Ha sufficienti competenze», ha affermato.
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Giuseppe Cavo Dragone (Ansa)
Al di là del merito delle dichiarazioni, che si riferivano esplicitamente alla cybersicurezza, rimane un fatto che Cavo Dragone - accostando le tre parole «Nato», «Russia» e «attacco preventivo» - ha finito per generare un vespaio di polemiche. Mosca, naturalmente, non l’ha presa bene: «Riteniamo che la dichiarazione di Giuseppe Cavo Dragone sui potenziali attacchi preventivi contro la Russia sia un passo estremamente irresponsabile, che dimostra la volontà dell’Alleanza di continuare a muoversi verso un’escalation», ha dichiarato Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo. Che poi ha definito le parole dell’ammiraglio «un tentativo deliberato di minare gli sforzi volti a trovare una via d’uscita alla crisi ucraina».
Anche in Italia, del resto, l’intervista di Cavo Dragone ha suscitato malumori bipartisan: dalle forze di maggioranza a quelle di opposizione, tutti i partiti hanno espresso perplessità sull’opportunità di rilasciare dichiarazioni tanto forti, o comunque fraintendibili. Lo stesso Antonio Tajani, atlantista doc, interpellato a caldo sulle parole del presidente del comitato militare della Nato, aveva detto: «Quello che conta non sono le dichiarazioni, ma il lavoro». Non esattamente una difesa a spada tratta.
Sarà anche per questo che Cavo Dragone, sentito ieri dall’Ansa, ha provato ad aggiustare il tiro: «Nell’intervista al Financial Times, così come in altre dichiarazioni, ho fatto riferimento specificamente alle minacce ibride di cui siamo quotidianamente oggetto, evidenziando come sia importante e necessario mantenere un approccio flessibile e assertivo, senza alimentare ovviamente processi escalatori», ha detto l’ammiraglio. Che poi ha aggiunto: «La Nato, come sempre ribadito, rimane infatti un’alleanza difensiva».
Queste dichiarazioni, peraltro, sono seguite all’incontro che Cavo Dragone ha avuto con Tajani a margine della ministeriale Nato: «Gli ho ribadito il mio giudizio, credo di aver ben interpretato le sue parole senza strumentalizzarle», ha sottolineato il ministro degli Esteri. «Non ci ho trovato nulla di strano, nulla di anomalo, nulla in contrasto con i principi della Nato. Mi pare che sia tutto concluso. Gli ho ribadito la mia stima, la mia solidarietà, perché mi pare che stia svolgendo molto bene il suo ruolo».
Più piccato è stato, invece, il commento di Giorgia Meloni: «È una fase in cui bisogna misurare molto bene le parole», ha detto ieri il premier a margine di un vertice in Bahrein. «Bisogna evitare tutto quello che può far surriscaldare gli animi. L’ammiraglio Cavo Dragone stava parlando di cybersicurezza. Io l’ho letta così: la Nato è un’organizzazione difensiva, oltre a difenderci dobbiamo fare anche meglio prevenzione. Attenzione anche a come si leggono parole che bisogna anche essere molto attenti a pronunciare», ha concluso la leader di Fratelli d’Italia.
Insomma, va bene essere «proattivi», come sostiene l’ammiraglio, ma certe strategie sarebbe opportuno non sbandierarle ai quattro venti. Del resto, così la pensa anche Baiba Braze, il ministro degli Esteri lettone: «Certe cose è meglio farle, e non dirle. Gli Alleati hanno capacità di attacco informatico e, se necessario, possono essere impiegate, ma nessuno ne parlerà ad alta voce».
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