La storica Anna Bono smonta le fake news sui migranti: «Solo il 5% di chi viene in Italia è veramente un profugo. Non sono gli “ultimi degli ultimi", visto che pagano migliaia di dollari per il viaggio e i documenti falsi».Anna Bono (Università di Torino, Storia e istituzioni dell'Africa) si è assunta da anni - in pressoché totale solitudine accademica - un compito tanto arduo quanto meritorio. Armata solo di numeri e di onestà intellettuale, ha smontato pezzo per pezzo le fake news in materia di immigrazione e la relativa «narrazione» politicamente corretta. Lo ha fatto a partire da un libro (Migranti!? Migranti!? Migranti!?, Edizioni Segno), in cui già la sequenza dei punti esclamativi e interrogativi accanto alla parola migranti ci fa capire che per la professoressa non tutto è come ci è stato raccontato. Professoressa, fake news numero 1. Sono tutti profughi.«Profughi? Quasi nessuno. Il ministero dell'Interno aggiorna mese per mese i dati dei richiedenti asilo. Tutti quelli che arrivano fanno domanda, perché è l'unico espediente per non essere respinti subito. Di tutta quella massa di domande, nel 2015 ne sono andate a buon fine 3.500 circa, nel 2016 meno di 5.000, l'anno scorso poco più di 6.000. Percentuali tra il 5% e l'8%. Tutti gli altri sono migranti economici».Fake news numero 2. Sono tutti in una condizione di estrema e assoluta povertà.«Non sono “gli ultimi degli ultimi". Trattandosi di viaggi clandestini, il 90% si affida a organizzazioni criminali, e quindi chi si imbarca deve essere in grado di raccogliere migliaia di dollari per garantirsi i servizi dei contrabbandieri. Non tutti possono permettersi quelle cifre, quindi non sono necessariamente così poveri».Come ha detto? «Servizi»?«Eh certo. Trasporto, eventuali soste, documenti falsi, aiuto per nascondersi. C'è addirittura l'opzione di partire con un giubbotto di salvataggio, cosa che può da sola costare altri 100 dollari... Le organizzazioni criminali organizzano nel dettaglio questo genere di “servizi", appunto».Fake news numero 3. Bisogna aiutare di più i governi africani.«Ma li si aiuta già tanto, c'è di fatto una sorta di piano Marshall ogni anno. L'Africa è il continente più assistito sia in termini di aiuti umanitari che di cooperazione allo sviluppo. Ma il problema è che una parte significativa di quel denaro non va a buon fine, tra corruzione dei governi e tribalismo che si alimentano reciprocamente».Quindi serve un cambio di paradigma.«Ma certo. Lo sviluppo l'Africa non lo può importare. Deve sempre di più produrlo da sé stessa. L'Africa ha già tanti Paesi in forte crescita economica, ma poi, per le ragioni che dicevo (il mix di malgoverno e lotte tribali) questo non si traduce in sviluppo umano e sociale».Meno denaro, allora? «Certo, e più buongoverno. I mezzi li avrebbero. Prenda la Nigeria: è il primo produttore di petrolio del continente ed esporta dagli anni Sessanta... Hanno anche immense risorse umane: la metà della popolazione africana è giovane».Fake news numero 4. I governi africani già si attivano per limitare le partenze.«In parte è vero il contrario. Spesso i governi sono i primi responsabili delle partenze, specie se, come abbiamo detto, non si tratta di disperati o di persone che vengono da villaggi remoti, ma di gente che ha qualche mezzo. Il grosso della responsabilità poi sta proprio nello scoraggiamento indotto da clientelismo e corruzione, che inducono molti a vedere la partenza come l'ultima speranza. Poi c'è chi proprio incentiva...».Tipo?«Tipo il Ghana, che suggerisce anche di portarsi il giubbotto di salvataggio... Insomma, le istruzioni per la partenza. Per fortuna molti agiscono diversamente».Facciamo esempi più positivi.«Nigeria, Mali, Costa d'Avorio, Sierra Leone, Senegal stanno avviando campagne di controinformazione per scoraggiare le partenze. Spiegando la verità: che in Europa non ci sono prospettive. Chi parte rischia di appartenere a una generazione senza futuro. Una di queste campagne è anche efficace, si tratta di affissioni con la scritta “Il nostro Eldorado è il Mali". Anche diverse conferenze episcopali stanno lavorando bene per invertire la tendenza».Fake news numero 5. Il terrorismo non c'entra niente.«C'entra, eccome. Da almeno due anni le reti terroristiche si sono inserite nel contrabbando di persone, da cui traggono risorse essenzialmente per acquistare armi. E poi c'è la cosa peggiore».Cioè?«L'esistenza di queste rotte migratorie può facilitare lo spostamento prima verso l'Africa e poi verso l'Europa anche di terroristi. I militanti dello Stato islamico sconfitto in Siria e Iraq dove finiscono?».Le diverse reti islamiste sono in competizione tra loro?«Ci sono due realtà contrapposte: Al Qaeda, e gruppi satelliti, e Isis. Poi gli uni e gli altri collaborano con contrabbandieri di armi, di droga, e anche con le reti criminali legate al bracconaggio. In Somalia ci sono gruppi criminali che ancora nel 2011-12 ricavavano il 40% delle loro entrate dal traffico illegale di avorio».Ma, considerando tutto questo sfacelo, perché così tanti politici ed «esperti» in Italia e in Europa hanno negato l'evidenza per anni?«Per ideologia, e anche per interesse. Se aderivi alla visione ideologica tradizionale, quella che negava il problema immigrazione, per anni avevi porte aperte, nei media come nell'accademia».Che dobbiamo fare anche nel quotidiano per aprire una pagina culturalmente nuova?«Opporci a una campagna di demoralizzazione e di svalutazione dell'Occidente. Ci autocolpevolizziamo, come se tutto il male del mondo dipendesse da noi: problemi ambientali, femminicidio, sfruttamento dei Paesi poveri. Tutte campagne ideologiche spesso costruite per colpevolizzare l'Occidente a prescindere. È ora di iniziare a contrastarle».
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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