
I quotidiani come Repubblica continuano a fare paragoni impropri tra il leader leghista e la marcia su Roma di Mussolini. Ma è piuttosto la sinistra che sfrutta la piazza e vuole impedire il voto nazionale con l'appoggio dei media e del capo dello Stato.L'equazione rilanciata di continuo, esplicitamente o implicitamente, è questa: Matteo Salvini è un nuovo Benito Mussolini. Anche Giorgia Meloni, a ben vedere, è un gerarca fascista in gonnella. Vediamo di analizzare storicamente questa equazione, non prima di aver ricordato che l'allarme, «Ecco il nuovo duce!», accompagna la storia italiana da troppi anni. È Eugenio Scalfari con il suo quotidiano Repubblica ad accusare di ducismo, a partire dal 1976, prima Bettino Craxi, poi Silvio Berlusconi, ripetendo in tempi diversi e per personalità differenti, la medesima campagna denigratoria. Lo ha raccontato molto bene Giampaolo Pansa, per anni vicedirettore di Repubblica, nel suo La Repubblica di Barbapapà. Storia irriverente di un potere invisibile. Nel capitolo intitolato Il club dei giacobini Pansa riportava una riflessione di Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera: «Il gruppo che fa capo a Repubblica, salvo poche eccezioni, è portatore di uno stile polemico inconfondibile. Consiste nella sistematica criminalizzazione di chi non la pensa come loro. I repubblicani non conoscono avversari con cui è possibile polemizzare, ma rispettandoli. Conoscono solo nemici da abbattere». Indignarsi, accusare, demonizzare, serve infatti, tra le altre cose, a «serrare le fila di quella che loro chiamano la comunità dei lettori», a creare una comunità militante, e a potersi presentare come quelli che stanno dalla parte della ragione e del bene. Un metodo che il giornalista Benito Mussolini, prima a l'Avanti e poi a Il popolo d'Italia, conosceva e praticava bene! Sempre Pansa, ricostruendo la fascistizzazione di Craxi, ricordava: «Per cominciare Bettino venne presentato ai lettori nei panni di un nuovo Mussolini. Non pericoloso come il defunto, ma con tutti i numeri per diventarlo. Era un pregiudizio, o un'opinione, che fece subito breccia nella satira politica. Persino Giorgio Forattini, di certo non amico dei comunisti, cominciò a ritrarre Craxi in divisa da gerarca fascista. Alfredo Chiappori lo presentava in panni mussoliniani. Emilio Giannelli lo raffigurava identico al capo del regime nero… Dall'accusa di fascismo si passò poi a quella di capeggiare una banda di malviventi». Così insomma Repubblica: cioè un giornale fondato da un uomo, lo stesso Scalfari, che aveva esordito scrivendo sulle riviste universitarie fasciste, e dotato di collaboratori come Giorgio Bocca, che aveva applaudito le leggi razziali del 1938 e Corrado Augias, recentemente accusato di aver collaborare con i servizi segreti comunisti! Ma veniamo alla storia. Nel 1922 Benito Mussolini progetta la marcia su Roma, soffiando l'idea allo squadrismo agrario: sa bene, infatti, che la via elettorale gli è preclusa. Il partito fascista, di per sé, ha pochi voti, e non può minimamente competere, sul piano elettorale, con il Partito popolare di don Luigi Sturzo e con il Partito socialista italiano. Per questo non mira alle elezioni, ma alla piazza. Oggi cosa succede? Salvini, Meloni, e il resto del centrodestra, non meditano una nuova marcia sulla capitale e non hanno paura del voto popolare, anzi, lo desiderano. A puntare sulla piazza, ripiena di sardine o altro, non sono i presunti «fascisti», ma gli esponenti del Partito democratico, guidato da un uomo, Nicola Zingaretti, che ha militato nel Partito comunista italiano all'epoca in cui esisteva ancora il muro di Berlino e il dittatore Nicolae Ceaușescu era considerato, dal suo partito, un amico degno di stima.Oggi è dunque la sinistra a soffiare sul fuoco del movimentismo, sono i presunti antifascisti a temere la via democratica del voto. Il che, si badi bene, è anche ciò che accade, mutatis mutandis, nel 1922: i socialisti astensionisti di allora, così come i comunisti, predicano la rivoluzione violenta, al pari dei fascisti, e disprezzano profondamente la «democrazia borghese» e il Parlamento! È proprio questo atteggiamento violento e irriducibile, contrario ad ogni collaborazione con gli altri partiti antifascisti, a favorire il trionfo di un movimento minoritario come quello di Mussolini. Ma analizziamo ora un secondo aspetto. Benito Mussolini può contare sulla forza delle squadre di camicie nere. Picchiatori di professione abituati a rispondere colpo su colpo, ripagando 3 per 1, alle violenze dei socialisti. Stime attendibili parlano, per gli scontri tra rossi e neri, di 3.000 morti tra i rossi e di 400 tra i neri, tra il 1919 e il 1922. Oggi non si vede all'orizzonte nulla di simile. L'aspetto più visibile e decisivo del fascismo, la sua forza paramilitare, è del tutto assente. Se proprio vogliamo cercare dei violenti, possiamo trovarli tra i «pacifisti» dei centri sociali tanto coccolati dalla sinistra. Proseguiamo ora nella ricerca di qualcosa di fascista nell'attuale centrodestra italiano, evitando accuratamente di fare altrettanto, cioè di cercare qualcosa di comunista, nello schieramento avverso. Mussolini nel 1922 può contare sulla simpatia dell'esercito, sull'appoggio di molti giornali, sull'indulgenza, sino al 1924, di corazzate come il Corriere della Sera di Luigi Albertini, e di quanti temevano una rivoluzione bolscevica in Italia. Inoltre sa anche conquistare, se non l'amicizia, almeno una qualche benevolenza dell'uomo che lo nominerà presidente del Consiglio: il re Vittorio Emanuele. Oggi nessuno teme un intervento dell'esercito al fianco di Salvini, Meloni e Berlusconi; i grandi giornali, compreso il Corriere, sono per lo più schierati a sinistra; quanto all'uomo che ha, al posto del re, il potere di eleggere il presidente del consiglio, si chiama Mattarella: è un uomo di sinistra, eletto dal Partito democratico. A Salvini e Meloni mancano dunque la marcia su Roma, le squadre violente, i giornali, l'esercito e il placet del re: in altre parole, tutto ciò che rese possibile l'ascesa del fascismo. Anche idealmente le distanze sono assolute: come non percepire la lontananza tra un movimento, quello fascista, che nacque guerrafondaio, centralista e statalista e uno, la Lega, regionalista e avverso a qualsiasi avventura bellica (dalla guerra del Kosovo a quella di Libia)? Tra uno che auspicava la realizzazione dell'Impero, e uno che teme proprio l'imperialismo occulto, economico e politico, di Germania e Francia? Tra il fascismo che voleva l'Etiopia per fare della bella abissina una camicia nera, e uno che condanna l'immigrazione incontrollata non solo come un atto di irresponsabilità verso l'Italia, ma anche come una nuova forma di colonialismo occulto?Se vogliamo brevemente toccare la questione religiosa, anche qui le differenze tra il fascismo e l'attuale centrodestra sono siderali. Mussolini, infatti, nel 1922 è un ateo anticlericale, circondato da laicisti violenti come Roberto Farinacci e Italo Balbo, che non rivendica mai una sua appartenenza religiosa tradizionale, ma che, per opportunismo, cerca il placet delle gerarchie per scalzare il Partito popolare, laddove oggi a ricercare e ad ottenere l'appoggio di quelle stesse gerarchie post Benedetto XVI e post Ruini, sono coloro che sino a ieri attaccavano ogni giorno la Chiesa e le sue presunte «ingerenze» (esattamente come il duce sino al 1921) e che però, nel contempo, lottano per aborto, utero in affitto, droga libera, cancellazione della tradizione religiosa popolare ecc… Per concludere, se proprio vogliamo trovare, nei tempi recenti, una qualche lontana somiglianza con i fatti del 1922, bisogna riandare ai governi Monti e Renzi. Partiamo dal primo. Mussolini nel 1922 ricevette l'incarico dal re, pur essendo appena entrato in Parlamento e pur avendo solo una micropattuglia di 35 deputati: ciò avvenne soprattutto a causa della debolezza dei partiti e dei due governi Facta, incapaci di affrontare il momento difficile. Con Monti le cose non sono andate tanto diversamente: un presidente della Repubblica comunista, con poteri quasi monarchici assunti grazie alla debolezza dei partiti e all'eccezionalità del momento, ha nominato senatore a vita e poi premier, dall'oggi al domani, un uomo che non aveva alle spalle né un partito né un'elezione! Con Monti, come con Mussolini, non abbiamo assistito ad un vero e proprio colpo di Stato, perché entrambi sono stati eletti dall'autorità competente a farlo, ma certamente abbiamo vissuto un vulnus alla democrazia, che prevede che il governo spetti a chi ha i voti nel Paese.Quanto a Renzi, non è stato proprio lui, il segretario fiorentino del Pd, quello che recentemente ha cercato di diventare l'«uomo forte», il dominus del Paese, l'uomo solo al comando, attraverso una riforma costituzionale che anche molti giuristi e politici di sinistra hanno considerato eversiva per la sua volontà di rafforzare oltremodo i poteri dell'esecutivo? Hanno dunque diritto gli eredi del Pci, i seguaci di Renzi, le truppe di Beppe Grillo di ripetere accuse infondate e infamanti verso l'avversario politico al solo scopo di delegittimare qualsiasi opposizione?
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
iStock
Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
***
Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.
Piero Amara (Ansa)
L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».
The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».






