«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
Negli ultimi giorni il suo profilo Facebook, tra una strimpellata e l’altra con la chitarra (la toga mostra una certa passione per la musica d’autore e non nasconde le sue simpatie per il direttore d’orchestra Beatrice Venezi), si è riempito di analisi sui passaggi salienti della riforma della giustizia. E lo fa non da schierato o da militante, ma da tecnico che scava nei meccanismi e smonta le paure costruite a tavolino. La premessa: «Non intendo prendere parte né al Comitato del «Sì», né a quello del «No», perché mi sottraggo, assolutamente, al ruolo di influencer che già vedo qui esercitato da molti, da una parte e dall’altra». Poi sottolinea: «L’Anm ha chiamato sul palco persino Edoardo Bennato che, a parte essere un bravissimo cantante, non vedo che cosa c’entri con l’attività giudiziaria. Addirittura, il compianto Giovanni Falcone è chiamato in causa come influencer involontario, senza che nessuno sappia davvero che cosa pensasse […] a proposito del pubblico ministero».
Ed ecco la sua interpretazione: «L’articolo 104 della Costituzione, anche nella sua nuova formulazione, prevede espressamente che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Dunque, l’indipendenza è assicurata dalla massima garanzia possibile, quella costituzionale». È un punto chiave, perché ribalta la narrazione diffusa. Varone non semplifica. E non difende l’esistente. «La totale indipendenza del magistrato», ammette, «ha insita la distorsione dell’arbitrio». Che intende come «un’azione del magistrato eccessivamente invasiva, in danno del cittadino». Ma mette in guardia anche dal rischio opposto: «Sottoporre l’azione del magistrato a verifica di responsabilità ha insita la distorsione del controllo». Nella sua ricostruzione, però, la riforma non intacca l’autonomia della funzione inquirente, ma ne ridefinisce i confini: «Il pubblico ministero, così come ogni altro pubblico ufficiale, è assolutamente tenuto al rispetto del principio di imparzialità».
Poi distingue: «Nel caso del giudice, la cui funzione è dirimere una contesa, l’imparzialità vieta di decidere se si sia già espresso prima e fuori del processo». Nel caso «del pubblico ministero», invece, «la cui funzione è dapprima inquirente e poi requirente, è evidente che l’imparzialità non sussista nello stesso modo». Ma c’è anche un aspetto umano che Varone non elude: «Il pm che scioglie la sua riserva mentale ed eleva un’accusa è psicologicamente portato a confermarla e a restare indifferente agli elementi che la smentiscono. Altro che cambiare idea!». E sarebbe proprio qui, secondo lui, il vero nodo: «La carriera unica induce l’illusione che un medesimo percorso formativo renda il pubblico ministero un po’ giudice. Rischia così di avvicinare il giudice al pubblico ministero, facendogli credere che il suo collega sia più vicino alla verità del difensore».
Varone non crede a una magistratura monolitica. Crede invece in una distinzione netta di funzioni e responsabilità: «Nella mente del giudice la visione del pubblico ministero e la visione del difensore devono avere lo stesso identico peso e deve contare soltanto la forza razionale delle argomentazioni». «Come il sacerdote ha presente il Vangelo», scrive, «così il giudice deve avere presente che l’onere probatorio incombe sul pubblico ministero, senza che possano avere valore congetture, intuizioni, teoremi». Ma c’è un limite. Che Varone individua nelle correnti: «Esse altro non sono che veri e propri partiti, ognuno ideologicamente orientato, in modo da riproporre gli schieramenti parlamentari. All’interno di ogni corrente siedono, indifferentemente, giudici e pm, i quali devono continuamente stringere patti e accordi, sia nell’ambito della stessa corrente, per decidere quale candidato sostenere; sia tra correnti diverse, per convogliare i voti del Csm su una decisione o su un candidato».
Secondo Varone «è facile comprendere che il giudice e il pm, i quali alla mattina si sono trovati in aula ben separati, al pomeriggio, svestita la toga e indossato l’abito della corrente, siederanno allo stesso tavolo per stringere accordi e patti dei quali nessuno saprà mai nulla». Ed ecco la stoccata: «Ora immaginate un imputato, il quale sa che il pubblico ministero che lo accusa e il giudice che deve giudicarlo appartengono alla stessa corrente e che, magari (se non certamente), hanno maturato debiti o crediti personali reciproci. Come dovrà sentirsi? Ebbene, questa è la carriera unica». Varone chiude con un’immagine che sembra scritta per chi non si accontenta degli slogan: «Ora, spiegare a un non colpevole, il quale abbia atteso anni per vedersi assolto dopo primo, secondo grado e Cassazione, e magari due giudizi di rinvio, dopo avere sostenuto importanti spese legali, avere patito l’offesa della pubblicità del processo o addirittura carcerazioni, che il pubblico ministero della carriera unica è pronto a cambiare idea, beh, a me sembra persino beffardo».



