2019-06-18
«Sono diventato prete per amore e per amore ho lasciato la tonaca»
Achille Melegari aveva scelto il seminario per il rifiuto da parte di una ragazza per cui provava un forte sentimento. Dopo 34 anni, il matrimonio con Gerardina.«Di Gerardina mi sono piaciuti subito la forza e il grande senso di giustizia che ha. La sua fermezza ha avuto un merito non indifferente nel richiamarmi alla coerenza, aiutandomi a maturare l'idea che sarebbe stato ingiusto sporcare la tonaca mostrando un volto in pubblico e portando avanti una vita parallela di nascosto». Achille Melegari dedica questo tributo d'amore a colei che nella vita dell'ex prete ha rappresentato una seconda rivelazione, dopo quella che 34 anni prima ne illuminò il sentiero verso l'ordinazione sacerdotale, e che attualmente condivide con lui il talamo, le fragilità, le aspirazioni. Più precisamente da un anno e mezzo, quando, all'inizio del 2018, il parroco di San Silvestro Papa e Gerardina Bellassai (cognome che nella testa di Melegari sarà risuonato come un dolce presagio) si sono uniti in matrimonio nel comune di Reggio Emilia con un rito civile degno di due spie internazionali. «Eravamo io e lei, nessun altro», ricorda il cinquantanovenne perito tecnico che, pochi giorni fa, ha ricevuto la dispensa ufficiale dal Vaticano. «Non esiste neanche un'immagine della cerimonia, abbiamo preferito che non fossero presenti i fotografi. Sa, la gente chiacchiera già abbastanza senza bisogno di un pretesto».A distanza di un anno e mezzo, sente ancora gli sguardi addosso?«Altroché. C'è sempre qualcuno che guarda, negli uffici pubblici o al bar. Ad alcuni scappa ancora di chiamarmi Don. Altri esitano a salutare, non sapendo cosa potrebbe pensare la comunità».Lei è cresciuto in una famiglia praticante?«Sono cresciuto in canonica, letteralmente. Avevo uno zio prete che si chiamava Achille come me. I miei genitori prestavano servizio nella sua parrocchia, che era anche la nostra casa. Mamma faceva la cuoca per l'asilo parrocchiale; papà si dedicava a qualche manutenzione quando c'era bisogno, era operaio alle officine reggiane».Come trascorrevano le giornate in canonica?«Adoravo le costruzioni, ma quando ci si trovava la domenica con gli altri bambini io ero quello che forniva le pistole per giocare a guardie e ladri. C'era anche un campetto da calcio selvaggio dove, ogni tanto, si organizzava qualche partita. Quando le galline della moglie del campanaro dovevano attraversare il terreno, il gioco si fermava».La sua vocazione si plasmò in quegli anni, respirando l'odore dell'incenso?«Nonostante mio zio ogni anno mi facesse l'abbonamento al Piccolo missionario, una rivista per bambini con racconti e fumetti legati alla missione, da piccolo volevo fare il contadino come mio nonno. Col passare del tempo, sentii la necessità di una vita al di fuori della chiesa. Frequentai le scuole pubbliche, dopodiché partii per il militare e iniziai a lavorare come programmatore».A che età arrivò la chiamata divina?«Avevo 25 anni. Sei anni dopo, fui ordinato sacerdote».Cosa la spinse a prendere la via del seminario?«Un rifiuto da parte di una ragazza per la quale provavo un sentimento molto forte. Fu una delusione profonda, che mise in dubbio tutto quanto e mi portò a riflettere sul significato dell'esistenza».Ragionando col senno di poi, crede di aver preso una decisione affrettata?«No, non direi. Mi sono trovato molto bene fino all'ultimo incarico pastorale. Prima avevo un impegno di insegnamento in seminario e un posto come direttore in un ufficio diocesano; non ero oberato soltanto da compiti e burocrazie parrocchiali».La vita di parrocchia non faceva per lei?«Poteva andare bene avendo altro da fare. Viverla a tempo pieno mi creò qualche disagio. Anche per limiti personali, se vogliamo, considerata la zona difficile della città in cui la parrocchia è ubicata: un contesto sociale dove c'è una forte immigrazione».Fu quella la goccia che la convinse a dare le dimissioni?«La punta dell'iceberg di una crisi pastorale. Quando diedi le dimissioni, a maggio 2017, chiesi all'arcivescovo di concedermi un anno in aiuto festivo al parroco per le funzioni in un'altra zona della diocesi».In quel periodo conobbe Gerardina?«No, la vidi per la prima volta nel 2014, ma allora era semplicemente una parrocchiana. C'era stata qualche chiacchierata, mai nel confessionale. Gerardina non era una praticante, le sue erano confessioni senza esserlo. L'estate del 2017 fu una novità per me, un'estate di libertà: fu in quel periodo che la nostra conoscenza si approfondì».Sta dicendo che, per tre anni, lei non ebbe neanche un pensiero?«Stimavo Gerardina, con lei mi trovavo bene. La ascoltavo quando mi raccontava dei suoi momenti di difficoltà: stava affrontando una separazione. Per lei ero un amico di cui fidarsi, non un prete. Da parte sua non c'era alcun tentativo di seduzione, diversamente da altre».Si spieghi meglio.«Diciamo che ero abbastanza ambito. Ricevevo svariati messaggi d'amore, dalla trentenne alla signora più matura. Citando Fabrizio De André, Gerardina era la donna che, pur senza fare nulla, suscitava “l'ira funesta delle cagnette a cui aveva sottratto l'osso"».Si è mai domandato cosa portò sua moglie a invaghirsi di lei?«Lei dice la mia bontà, la mia capacità di ascoltare e di vedere il buono ovunque, anche dove non c'è».Qual è stato il cicaleccio più fantasioso sulla vostra relazione?«La cosa più assurda venne detta a Gerardina, in palestra, poco dopo che io avevo dato le dimissioni. In un momento di conversazione, un signore le disse: “Ha letto i giornali? Quel prete io lo conosco, ha tre figli in giro e la nuova compagna aspetta un bambino!"».Gerardina sapeva dei suoi momenti di crisi pastorale?«Si era accorta che qualcosa non andava, ma non sapeva esattamente cosa fosse. Mi suggeriva di seguire le mie sensazioni, esortandomi a non fare finta di nulla se qualcosa non mi stava bene. Certo, non era facile, ed è il motivo per cui molti hanno trovato coraggiosa la mia scelta. Non ho fatto come tanti miei colleghi. Alcuni con più d'un figlio, loro sì».Quanto impiegò a maturare la scelta di smettere la tonaca?«Abbastanza. Non fu semplice tagliare il cordone ombelicale: la dimensione religiosa, la pratica della fede che avevo vissuto fin da bambino».Non le manca nulla di quella dimensione?«All'inizio mi mancava la celebrazione delle messe, o dei battesimi. Ma, dopotutto, mi sembra di avere vissuto un'esperienza che ha trovato il suo naturale epilogo. Non è stato un ciclo interrotto».Cosa pensa di avere guadagnato, chiudendo quel ciclo?«Una conoscenza del mondo e delle persone che, avendo sempre vissuto all'interno della sfera ecclesiastica, mi era sconosciuta. È stato bello poter sfatare alcuni pregiudizi di categoria su “quelli di fuori", i non buoni».Oggi di cosa si occupa?«Insieme a mia moglie, allestisco mercatini del riuso e del modernariato qui nella zona, tra Parma e Bologna. Ci guadagniamo da vivere così. Fino ad ora, ho potuto beneficiare di un sussidio da parte della Cei, ma a breve cesserò di percepirlo».Ora che è lei «quello di fuori», che percezione ha della Chiesa?«Una nave che imbarca acqua. Mi sembra che non si riesca più a parlare alle persone, a coinvolgerle. Le parrocchie, ormai, sono frequentate quasi esclusivamente per i sacramenti dei bambini: battesimi, comunioni, cresime. Tolti questi, le famiglie sono lontane».Un recente sondaggio dell'istituto Doxa sembra darle ragione: negli ultimi cinque anni, i cattolici italiani sono diminuiti del 7,4 per cento. Si pensava che la rivoluzione gesuita di papa Francesco dovesse riavvicinare le persone alla Chiesa, e invece…«Credo che i numerosi scandali riguardanti figure ecclesiali abbiano minato molto la fiducia nella curia, tra preti pedofili e cardinali immersi nel lusso. Bergoglio, che all'inizio aveva mostrato molta umanità, è rimasto impantanato in un'impostazione tradizionale elefantiaca».Non ha pagato la politica inclusiva del Pontefice: dall'apertura nei confronti della comunità Lgbt alla mano tesa all'Islam.«Che senso ha aprire all'esterno se l'interno si sta svuotando sempre di più? Prima di guardare agli omosessuali e ai musulmani, ci sarebbero tanti battezzati da coinvolgere. È a loro che bisogna tendere una mano. Se i cristiani per primi non parlano e vivono da cristiani, però, è difficile».Crede che ci possa essere un dialogo tra Islam e Cristianesimo?«Parlo per quella che è la mia esperienza. Gli stranieri presenti nella zona dove operavo erano perlopiù musulmani, ma quello che facevano era chiedermi la sala per il compleanno del bambino. Niente di più».In quale direzione dovrebbe muoversi la Chiesa, dunque?«Bisognerebbe tornare al vangelo, la direttrice maestra. La parrocchia è un'istituzione di tipo feudale in un momento storico in cui occuparsi delle anime è diventato sempre più difficile. La mancanza di sacerdoti impedisce di uscire dalle sagrestie e dai cortili parrocchiali per andare nelle famiglie, tra gli anziani».Nonostante tutto, lei rimane un cattolico.«Certo. La pratica religiosa è venuta meno, ma continuo a parlare con Dio. Qualche volta entro in chiesa, quando c'è poca gente».Che sensazione prova nel varcare quella soglia da «esterno»?«A dirla tutta, non mi sento un esterno. Anche se sedermi tra i banchi mi fa sentire un po' a disagio. Preferivo stare all'altare».