2019-10-16
Siriani e turchi a un tiro di fucile. Le forze russe si mettono in mezzo
Le truppe di Damasco controllano tutta la città di Manbij. L'inviato di Mosca, Alexander Lavrentyev, garantisce: «Non permetteremo lo scontro». Secondo i curdi la guerra avrebbe già provocato 275.000 sfollati.Va avanti l'offensiva turca nel Nordest siriano: un'operazione che, secondo l'amministrazione autonoma del Rojava, avrebbe provocato finora circa 275.000 sfollati. Nel frattempo, le truppe di Damasco «hanno preso il pieno controllo di Manbij e delle località nelle vicinanze». A renderlo noto, è stato ieri il ministero della Difesa russo, aggiungendo che «la polizia militare russa continua a pattugliare i limiti nordoccidentali dell'area di Manbij lungo la linea di contatto tra gli eserciti della Repubblica araba siriana e la Turchia». Il rischio di uno scontro diretto tra le forze turche e quelle del presidente siriano, Bashar Al Assad, sembra diventare sempre più probabile e, in questo contesto, l'inviato speciale russo in Siria, Alexander Lavrentyev, ha dichiarato: «L'offensiva turca è inaccettabile. Non permetteremo che Turchia e Siria si scontrino». Il funzionario russo ha inoltre negato con forza che, alla base dell'invasione turca, ci sia un accordo tra Erdogan e Putin, come affermato giorni fa dal Sultano. Quest'ultimo, dal canto suo, ha rivendicato la propria offensiva in un editoriale apparso sul Wall Street Journal, affermando che il suo obiettivo sia quello di reinsediare gli oltre tre milioni di profughi siriani attualmente presenti in territorio turco e lasciando minacciosamente intendere che l'alternativa sarebbe dirottarli sull'Europa occidentale. In questo complicato quadro, la posizione di Mosca resta sfuggente. Nonostante le dure parole di Lavrentyev, il Cremlino non ha ancora di fatto mosso un dito contro le manovre militari di Ankara. Per quanto possa apparire paradossale, la linea di Putin si inserisce nella più vasta strategia che lo Zar sta portando avanti in Medio Oriente almeno dal 2015. Il presidente russo sta infatti cercando di utilizzare lo scacchiere siriano come uno strumento che gli consenta di ritagliarsi il ruolo di grande mediatore nel complicatissimo scenario mediorientale. Putin, in altre parole, sta tentando di strappare l'intera area all'influenza statunitense, proponendo Mosca come punto di raccordo tra Stati tradizionalmente avversari: è in quest'ottica che si spiega la sua convergenza simultanea con Teheran e Riad, così come i buoni rapporti intrattenuti contemporaneamente da Mosca con Assad ed Erdogan. Non va del resto trascurato che Russia e Turchia costituiscano, dal 2016, i principali protagonisti dei colloqui di Astana, con cui si sta cercando di arrivare a una soluzione della guerra civile siriana. Senza dimenticare che, nonostante le smentite di facciata, sia altamente probabile che in cambio dell'ok all'invasione, lo Zar punti a ottenere da Erdogan il controllo sulla regione di Idlib: roccaforte ribelle, militarmente sostenuta dai turchi. È dunque alla luce di questa complessa prospettiva che deve essere principalmente interpretata l'ambiguità mostrata finora dal Cremlino sull'operazione «Fonte di Pace». È imponendosi come arbitro tra Assad e Erdogan che Putin punta ad acquisire ulteriore credibilità agli occhi degli altri Stati mediorientali. Donald Trump, dal canto suo, ha confermato ancora una volta la linea del disimpegno dalla Siria. «Ben venga chiunque voglia aiutare i curdi: russi, cinesi o Napoleone Bonaparte. Spero che abbiano successo. Noi siamo a settemila miglia di distanza», ha twittato. Con una velata stoccata all'Eliseo, il presidente americano ha quindi ribadito la sua volontà di non restare direttamente invischiato in un ennesimo conflitto mediorientale: un'eventualità che Trump giudica impopolare sul fronte elettorale, oltre che inutilmente dispendiosa sul piano geopolitico. Contrariamente a Bruxelles, la Casa Bianca non ha comunque rinunciato all'arma della pressione economica sul Sultano: se Berlino ha escluso per il momento misure punitive da parte del prossimo Consiglio europeo, il presidente americano ha invece comminato delle sanzioni a tre ministri turchi, ordinando anche un aumento dei dazi sull'acciaio e l'annullamento dei negoziati per un accordo commerciale da cento miliardi di dollari. Con questa mossa, Trump mira a tre obiettivi: contenere le critiche del Congresso, costringere il Sultano a limitare le sue ambizioni e tenere duro nella linea del disimpegno militare (che il Campidoglio punterebbe a ribaltare). In quest'ottica, non è un mistero che - agli occhi di Trump - la Siria rappresenti un pernicioso pantano da cui ritirarsi definitivamente. Ed è noto come - differentemente dall'establishment statunitense - il presidente americano non veda poi troppo male un rafforzamento di Putin in quell'area. L'Italia intanto ha confermato di voler bloccare l'export di armi verso Ankara. «Nelle prossime ore, come ministro degli Esteri, formalizzerò tutti gli atti necessari affinché l'Italia blocchi le esportazioni di armamenti verso Ankara», ha dichiarato ieri Luigi Di Maio, aggiungendo «di aver dato immediate disposizioni per l'apertura di un'istruttoria dei contratti in essere».Resta sul tavolo la questione dei curdi che hanno annunciato un'alleanza con Assad in funzione antiturca. Un bel paradosso, visto che alcune semplificazioni mediatiche hanno teso, negli ultimi anni, a mitizzare i curdi e a demonizzare il presidente siriano. In realtà, si tratta di un elemento che non dispiace né a Trump né a Putin. Entrambi non guardano con simpatia al fatto che i curdi detengano il controllo di una regione nel Nord del Siria: se Putin vuole infatti tutelare l'integrità dell'autorità di Damasco, Trump ritiene che un Rojava spalleggiato militarmente da Washington non faccia che perpetuare la destabilizzazione nella regione.
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