Acciaio, per l’ex Ilva il salvagente da Unicredit in attesa della nuova garanzia del decreto Aiuti
2022-05-18
Verità e Affari
Occhio a chi per nascondere i rincari vi svuota il carrello. Come? Non è definibile una truffa, ma un inganno sì. La chiamano shrinkflation - dalla fusione di to shrink (restringere) e inflation (carovita) - ed è una tecnica di marketing in base alla quale le aziende decidono di lasciare invariato il prezzo di un prodotto riducendone però la quantità. Stesso prezzo ma prodotto più piccolo, insomma.
GLI ESPOSTI DEL CODACONS
Una pratica diffusasi negli Usa che, a quanto pare, si è diffusa anche in Italia. Il Codacons non ci sta e nei giorni scorsi ha presentato un esposto all’Antitrust e a 104 Procure della Repubblica in tutta Italia. L’associazione ha chiesto di indagare per verificare se la shrinkflation possa costituire fattispecie penalmente rilevanti, dalla truffa alla pratica commerciale scorretta. In una nota il Codacons ha sottolineato che con questo «trucchetto» le aziende produttrici svuotano il carrello dei consumatori incrementando i loro guadagni. Secondo un’indagine dell’Istat i casi che sono stati registrati in mercati, rivendite e supermercati italiani sono stati oltre 7.300, riferisce il Codacons. I settori più colpiti dal fenomeno sono stati quelli di zuccheri, dolciumi, confetture, cioccolato e miele, combinando al calo delle quantità anche un leggero aumento dei prezzi. Mentre i settori del pane e dei cereali sono stati interessati dalla shrinkflation, senza aumenti dei prezzi.
COME FUNZIONA
La quantità sottratta può essere anche rilevante: ad esempio il dentifricio che passa da 100 ml a 70 ml, il detersivo per piatti da 1 litro a 900 ml, il riso da 1 kg a 700 grammi, la salsa di pomodoro da 1 litro a 650 ml. Stesso discorso per i fazzoletti da naso (da 10 a pacco sono diventati 9) e la carta igienica (da 250 strappi a 230 strappi). Tanto, chi se ne accorge? Solo i consumatori più accorti e pazienti, che controllano non solo il prezzo finale ma anche il prezzo al kg.
La shrinkflation non è fenomeno nuovo (da anni gli economisti le attribuscono un ruolo nell’inflazione zero che da lungo tempo caratterizza l’economia giapponese) ma, essendo un modo efficace di nascondere i rincari agli occhi del consumatore, è normale che prenda più piede in periodi di alta inflazione come l’attuale, con il carovita che in Italia ha raggiunto il 5,7%, in Eurozona il 7,5% e negli Stati Uniti addirittura il 7,9%, il massimo da 40 anni a questa parte. Il trucchetto, d’altronde consente alle aziende di ripristinare in parte i margini erosi dall’esplosione dei costi di produzione per i rincari di energia e materie prime minimizzando il rischio che il cliente, altrimenti spaventato dal rincaro del prezzo di listino, si rivolga altrove.
GLI ESEMPI AMERICANI
Non è un caso che da qualche tempo su internet si siano moltiplicate le segnalazioni degli utenti, soprattutto negli Stati Uniti. Dove per esempio in un sacchetto di Dorito, amate patatine di mais che la Frito Lay vende negli Usa dal lontano 1964, da qualche giorno vengono messe cinque chips in meno. Allo stesso modo un flacone Dove ha perso qualche millilitro di sapone liquido. Oppure Gatorade, il marchio di bevande sportive di PepsiCo, ha recentemente sostituito la bottiglia da 32 once con una da 28 mantenendo lo stesso prezzo: l’equivalente di un rincaro (nascosto) del 14%. Ancora: un rotolo di carta ingienica Cottonelle di recente è stato ridotto di 28 «strappi», mentre le catene alberghiere Hilton e Marriott hanno deciso di far diventare «opt in», ovvero attivabili su richiesta (e spesso a pagamento), alcuni servizi in camera che in precedenza erano compresi nel prezzo concordato per il soggiorno. Oppure DisneyWorld ha deciso di mettere a pagamento il servizio «salta-coda» prima usufruibile gratuitamente tramite una prenotazione via app. L’Ufficio statistico nazionale inglese segnala che negli ultimi cinque anni sono stati ridotti per dimensione o peso oltre 3.500 prodotti. Va ribadito: niente di illegale. Anche se qualche problema di tanto in tanto le aziende lo affrontano: nel 2021 McCormick, per esempio, ha pagato 2,5 milioni di dollari per evitare una controversia con i consumatori che avevano notato come l’azienda mettesse meno pepe nero nella confezione. E la Mondelez, colosso americano proprietario del marchio britannico Cadbury (secondo big dolciario al mondo), nel 2017 affrontò una causa per aver aumentato la distanza tra le punte del Toblerone: il risultato fu che la barretta tornò al formato originario.
«PER I CONSUMATORI»
Altre volte aziende e multinazionali hanno la faccia tosta di spacciare la shrinkflation per una pratica a favore del consumatore. La stessa Mondelez, per esempio, incalzata dalle associazioni dei consumatori americane, ha dichiarato che la decisione di ridurre le dimensioni dello snack Wispa risponde a una precisa «strategia proattiva per ridurre l’obesità», piaga che storicamente affligge la golosa popolazione degli States. Mentre Hyatt, altra nota catena di hotel, ha deciso di tagliare la dotazione gratuita di boccette di saponi e shampoo nei bagni delle proprie stanze e di incoraggiare l’uso per più giorni degli asciugamani con l’obiettivo di contribuire «a ridurre l’impronta carbonica» del gigante dell’accoglienza alberghiera.
Altro esempio; nel 2012, in occasione del lancio dell’iPhone 12, Apple comunicò di non voler più integrare un caricabatterie nelle confezioni dell’iPhone, giustificando la decisione con la volontà di ridurre l’impatto ambientale e secondo i dati diffusi dal DailyMail questa operazione ha consentito al gigante tecnologico di Cupertino di ridurre i costi di 6 miliardi di dollari in due anni. Attenzione all’ambiente ma anche ai margini, dunque. Va detto che la shrinkflation il più delle volte riesce sì a ingannare il consumatore, il quale però alla lunga evidentemente di qualche cosa si accorge, se è vero che negli Stati Uniti gli indici di soddisfazione dei consumatori sono caduti ai livelli più bassi degli ultimi 15-20 anni.
I PRECEDENTI IN ITALIA
In passato le aziende italiane hanno dimostrato di non disdegnare la pratica della shrinkflation, anzi. Una dettagliata analisi dell’Istat segnala che tra il 2012 e il 2017 ogni mese tra i 100 e i 200 prodotti e servizi sono stati «alleggeriti» mantenendo invariato il cartellino del prezzo. Nel biennio 2018-2019 si è scesi in media a 50-100 prodotti interessati dal fenomeno. Nel 2020-2021 la shrinkflation è quasi scomparsa, interessando solo poche decine di prodotti e servizi al mese, ma c’è una spiegazione: si era in pieno Covid e le aziende in quei due anni hanno limitato gli investimenti all’indispensabile, rinunciando dunque anche alla spesa necessaria per adeguare le linee di produzione ai nuovi formati più piccoli. Si può citare anche un caso che fece rumore nel 2015, quando tre operatori di telecomunicazioni mobili passarono dalla tariffazione mensile a quella a quattro settimane, mantenendo inalterato il prezzo, con il risultato che l’utente ogni 12 mesi si trovava di fatto a pagare una mensilità in più. Intervenne l’Antitrust, che costrinse gli operatori tlc coinvolti ad adeguare il listino prezzi e/o a essere più trasparenti nella comunicazione agli utenti.
COME DIFENDERSI
Quali difese dunque per il consumatore di fronte alla subdola shrinkflation? Poche, se non andare al supermercato armati di santa pazienza e controllare le etichette facendo attenzione al prezzo al kg. E semmai, specialmente nel caso degli alimentari, privilegiare l’acquisto di prodotti sfusi rispetto a quelli confezionati. Che possono riservare una piccola amara sorpresa.
Una linea di credito a breve termine da 250 milioni con la garanzia Sace prevista dal decreto liquidità, la cosiddetta Garanzia Italia, per Acciaierie d’Italia. Inizialmente, doveva essere una linea ben più consistente: 750 milioni, da un pool di tre banche.
Però, spiega una fonte bancaria, le altre due banche coinvolte hanno ritenuto che «non ci fossero le condizioni» per il loro intervento. La nuova iniezione di liquidità, dopo la cartolarizzazione di crediti da 1,5 miliardi realizzata con Morgan Stanley nel marzo scorso, si è resa necessaria per garantire l’operatività degli stabilimenti, mentre le tensioni con fornitori e appaltatori del gruppo restano elevate.
I FORNITORI
Nel fine settimana la Peyrani Sud, azienda della logistica che si occupa dello sbarco e movimentazione delle materie prime per l’impianto di Taranto nel porto della città pugliese, ha comunicato la decisione di fermare i lavori per conto di Acciaierie d’Italia per via dello scaduto accumulato, che ammonterebbe a 10 milioni di euro. Acciaierie d’Italia, dal canto suo, ha replicato definendo illegittima la decisione di Peyrani e sottolineando come stesse già valutando «con cautela» l’estensione del contratto, in relazione ai gravi incidenti registrati.
SCHEMA COVID
Lo schema di Garanzia Italia, inizialmente previsto per il Covid, è una soluzione d’emergenza, spiegano le fonti interpellate. A soccorrere l’ex Ilva dovrebbe arrivare anche il decreto Aiuti, atteso per ieri in Gazzetta Ufficiale e nuovamente slittato a oggi. Nel decreto, una norma apposita prevede la possibilità di avere la garanzia Sace, in forma diversa dalle per quelle imprese che operano in settori strategici - com’è certamente l’acciaio - in seguito alla guerra in Ucraina.
NO AL DISSEQUESTRO
Per l’ex Ilva ieri è arrivato anche il parere negativo della procura sul dissequestro dell’area a caldo dello stabilimento tarantino. La domanda era stata presentata il 30 marzo scorso dai legali dei commissari di Ilva in Amministrazione straordinaria alla Corte d'Assise che ha emesso la sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto. Il dissequestro degli impianti è una delle condizioni sospensive dell'accordo di investimento siglato il 10 dicembre 2020 tra Arcelor Mittal Holding Srl, Arcelor Mittal Sa e Invitalia.
Gli impianti furono sequestrati nel 2012 e fu poi concessa la facoltà d'uso. Secondo i commissari straordinari di Ilva in As - tutt'ora proprietaria degli impianti - è cambiato lo scenario delle emissioni rispetto a dieci anni fa grazie ai lavori ambientali e ci sono i presupposti per revocare il sequestro. Di diverso avviso è la Procura. La decisione finale spetta alla Corte d'Assise.
Gli impianti furono sequestrati il 26 luglio 2012 in base a un'ordinanza che firmata dal gip Todisco nell'ambito dell'inchiesta per associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.
All'azienda fu poi concessa la facoltà d'uso. La Corte d'Assise di Taranto che ha ricevuto l'istanza è la stessa che l'1 giugno 2021 ha pronunciato la sentenza (ma le motivazioni non sono state ancora depositate) del processo «Ambiente Svenduto» infliggendo 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) per 270 anni di carcere e disponendo la confisca degli impianti dell'area a caldo.
Non si arresta l’esodo dei grandi marchi occidentali da mercato russo . Sono i riflessi dell’invasione dell’Ucraina che, in un solo giorno hanno portato di imprese di primo piano come Mc Donald’s e Renault ad annunciare la cessione di tutte le loro attività a Mosca.
Dal canto suo Unicredit sta facendo lo stesso con la sua filiale e, secondo le indiscrezioni avrebbe ricevuto un'offerta da parte di Interros Capital. Si tratta della banca d’affari controllata da Vladimir Potanin, uno dei pochi oligarchi non sanzionato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea. Secondo il Financial Times, però, la banca italiana avrebbe rifiutato l'offerta. Nessun commento arriva dalle banche coinvolte mentre è stato confermato che Société Generale ha venduto la sua controllata, Rosbank Pjsc, proprio a Interros Capital.
VALORE SIMBOLICO
Tuttavia colpiscono molto di più l’immaginario, vista la notorietà dei marchi la cessione di Mc Donald s e Renault. L’uscita del colosso del fast food assume addirittura un valore simbolico visto che nel 1993 all’inaugurazione del secondo locale (il primo risale al 1975 ma aveva quasi carattere sperimentale) aveva partecipato addirittura il presidente Boris Yeltsin. Quell’inaugurazione era il sogno americano che si accendeva all’ombra del Cremlino. Il segno della svolta dopo la caduta del comunismo.
Poi a mano a mano, McDonald's crebbe fino a contare 847 punti vendita dei quali l'84% di proprietà, il restante in franchising. Trent’anni dopo l’uscita di scena di Mc Donald s segna ancora una volta la svolta. Una maniera per sottolineare la marcia indietro autoritaria in corso a Mosca.
A marzo, in seguito all'invasione ucraina, Mc Donald’s aveva deciso di chiudere temporaneamente i suoi ristoranti con un impatto di 50 milioni di dollari al mese. Erano rimasti le 100 rivendite in franchising. Ora la decisione di ritirare il marchio. La proprietà dell'attività in Russia «non è più sostenibile né coerente con i valori di McDonald's», ha dichiarato il gruppo americano che ha avviato la vendita con l’obiettivo primario di garantire l’occupazione dei 62mila lavoratori.
La società prevede un addebito da 1,2 a 1,4 miliardi di dollari per coprire i costi di trasloco. I ristoranti McDonald's in Ucraina rimangono per ora chiusi, anche se i lavoratori vengono pagati e l'azienda sostiene gli aiuti ai rifugiati in tutta Europa. Il colosso del fast food non è l'unica azienda a decidere di lasciare il mercato russo.
ISTITUTO DI RICERCA
La Renault infatti ha annunciato che venderà a un istituto di ricerca scientifica russo la sua partecipazione del 67,69% in Avtovaz. Si tratta della ex Togliattigrad che produce con il marchio Lada. Inoltre, il gruppo automobilistico francese cederà alla città di Mosca la sua quota totalitaria in Renault Russia. Non sono state rese note le cifre ma , almeno per Avtovaz dovrebbe trattarsi di un ammontare simbolico, pari a un rublo. L'accordo prevede un diritto di opzione per riacquistare la partecipazione entro sei anni, rimborsando gli eventuali investimenti fatti
LUCA DE MEO
Il ceo d del gruppo francese Luca de Meo, ha definito la decisione "difficile, ma necessaria. Stiamo facendo una scelta responsabile nei confronti dei nostri 45mila dipendenti in Russia", preservando la performance del gruppo e la sua possibilità di ritornare nel paese in presenza di un contesto geopolitico differente. Renault partecipata al 15% dal governo francese, è la casa automobilistica europea più esposta in Russia e a marzo ha annunciato che avrebbe sospeso la produzione nel paese a causa dello scoppio della guerra.
Il gruppo ha già annunciato di aver accantonato 2,2 miliardi per coprire i costi di abbandonare la Russia. Dal 24 febbraio, giorno di inizio dell'invasione russa in Ucraina, Renault a perso il 27% del suo valore. In occasione dell'annuncio, de Meo ha anche confermato le stime 2022 già espresse a marzo e aprile, con un margine operativo consolidato intorno al 3% e un flusso di cassa "positivo" dal comparto automotive, con una produzione di veicoli inferiore anno su anno di circa 300mila unità.
Ha detto, inoltre, che il gruppo è ancora avanti rispetto agli obiettivi intermedi del piano industriale "Renaulution", annunciato a gennaio 2021. Il piano prevede entro il 2023 un margine operativo del 3% e circa 3 miliardi di euro di free cash flo
La lettera è arrivata nelle mani del presidente del Cida (il sindacato dei dirigenti della Banca d'Italia) Edoardo Schwarzenberg, nella prima settimana di maggio. A firmarla per delega del direttore generale è stato Luigi Managò, caposervizio logistica della banca centrale italiana.
Ed è venuto il segnale atteso: l'istituto guidato da Ignazio Visco si farà in quattro per venire incontro al dramma che stavano vivendo i dirigenti Bankitalia: da tempo stavano lavorando da remoto, magari cogliendo l'occasione per farlo dalla seconda casa al mare o in montagna. Ma lì non sempre erano utilizzabili i buoni pasto contrattualmente dovuti perché spendibili solo nella Regione di residenza.
I dirigenti avevano esigenze anche più larghe, visto che nella lettera inviata ai vertici dal presidente del Cida il 22 febbraio scorso si premetteva che «l’accordo sul lavoro ibrido prevede la corresponsione del buono pasto per ciascuno dei giorni nei quali la prestazione lavorativa è resa da remoto, modalità questa che- come noto- non prescrive che il dipendente operi da un luogo specifico, potendo addirittura lavorare dall'estero».
Come non averci pensato prima che uno di questo top manager di Bankitalia magari la casa al mare ce l'aveva a Saint-Tropez e quella in montagna a Sankt Moritz, e in nessuno dei due casi avrebbero mai accettato i buoni pasto forniti attraverso un regolare appalto della Consip?
Sono problemi, e bisogna applicarsi senza dubbio per arrivare a una soluzione: mica si può fare mancare il grano così all'improvviso a chi deve vigilare sulla grana di tutti gli italiani. Non c'è proprio riconoscenza. Però i dirigenti della banca hanno teso una mano comprendendo le difficoltà in questo momento di reperire buoni pasto internazionalmente validi. Pace per Saint-Tropez, ma almeno si capisca l'incoerenza del fatto «che i buoni pasto in erogazione siano ancora limitati nell'utilizzo alla regione (o all'area territoriale) nella quale il dipendente è incardinato, dovendosi invece necessariamente prevedere la possibilità di utilizzo in tutto il territorio nazionale».
Vogliamo farli usare anche nella masseria in Puglia, nelle vicinanze della villetta sul Monte Argentario o a Cortina indipendentemente dalla stagione? I collaboratori di Visco hanno preso un po’ di tempo per rispondere e altro ce ne vorrà per esaudire in pratica, ma alla fine i benedetti buoni pasto spendibili nella casa vacanze arriveranno, sia pure cercando di fare il meno danno possibile alle casse di Bankitalia: «È stata condotta una analisi delle criticità segnalate», scrive infatti Managò, aggiungendo che «gli esiti di tale analisi sono in corso di approfondimento con le strutture interessate, anche per valutare i conseguenti aggravi operativi connessi con l'adozione di nuove modalità di distribuzione dei buoni».
Dietro questa corrispondenza, che mai potreste rintracciare nel settore privato dove i dirigenti si vergognerebbero pure di chiedere i buoni pasto alla loro azienda, c’è in realtà un braccio di ferro che dura ormai da due anni fra i vertici della banca centrale e quasi tutti i sindacati dei dipendenti. Perché questi ultimi dopo avere storto il naso sullo smart working (e ottenuto primi in Italia un bonus da 100 euro per quel motivo), se ne sono poi innamorati e ogni volta insorgono quando la banca chiede il rientro in presenza. In teoria dal primo aprile scorso avrebbero dovuto tutti rientrare in sede, abbandonando quelle “sedute ergonomiche” che avevano ottenuto per stare a casa dalla banca e che ancora si lamentava non fossero arrivate a tutti.
Ma alla fine la banca ha ceduto alle richieste sindacali immaginando un piano di smart working al di là delle emergenze con presenza in ufficio ridotta. È stato ribattezzato «lavoro ibrido» in un accordo sindacale del dicembre scorso e prevede che solo una piccola percentuale lavori in presenza che per tutti gli altri sarà alternata a un «lavoro da remoto diffuso e ampio». C’è però una condizione posta sia pure in via sperimentale dai vertici Bankitalia: chi lavora in presenza ha diritto al suo ufficio in genere singolo, con la sua scrivania, la sua cassettiera, il suo piccolo armadio dove conservare i documenti oltre a tutte le attrezzature informatiche previste.
Chi invece lavorerà essenzialmente a casa dovrà di volta in volta per il rientro in ufficio prenotare la sua postazione lavoro. Niente scrivania personale, niente armadietto, niente cassettiera. Però ambienti avveniristici (ci sono anche alcuni disegni in bozzetto con poltroncine per una chiacchiera protette da un cactus fonoassorbente, tavoli dove lavorare con il proprio pc e consumare anche un pasto veloce) per rendere piacevole quel tuffo in ufficio, prenotando di volta in volta postazioni di tutto attrezzate meno di una cosa: il personal computer.
Quello, assegnato a ogni dipendente, dovrebbe essere utilizzato sia a casa che in ufficio con il piccolo disagio di doverselo portare nel tragitto magari a spalle in uno zainetto. Cosa che è diventata un dramma. Per capirlo basta citare passaggi dei comunicati sindacali piovuti sull'argomento. Eccone uno del Sibc che profetizza per questo viaggio con pc casa-ufficio addirittura l'aggravio di «sedute fisioterapiche» per i poveri dipendenti chiedendo un intervento dei medici competenti della Banca di Italia: «A parte i profili di sicurezza connessi con il trasporto pubblico, infatti qualcuno ha mai effettuato una analisi sugli effetti a medio e lungo termine del trasporto di un computer di quasi due chili per magari due ore al giorno?
Se sì, ci piacerebbe poterne leggere i contenuti. Se no, come viene giustificata questa dimenticanza?». La Uil Bankitalia ammette che «il pc non pesa come lo zaino del soldato», ma aggiunge: «Ricordiamo però che non è del tutto peregrina l'ipotesi di essere rapinati o derubati durante i tragitti casa-lavoro-casa, con un aumento esponenziale del rischio al moltiplicarsi dei viaggi...».
Drammoni, quelli del buono-pasto-vacanza del pc che pesa sulle spalle di 6.629 dipendenti - di cui 3.532 in area manageriale e alte professionalità - in cerca di autore e di funzione, viste che le più importanti sono state perdute negli anni e trasferite alla Bce. Ma non sembra essere questa la loro preoccupazione.