2018-06-23
Ai Mondiali la Svizzera perde la sua proverbiale neutralità
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Xherdan Shaqiri e Granit Xhaka, kosovari nelle vene, hanno festeggiato il gol contro la Serbia con il segno dell'aquila bicipite, simbolo della bandiera albanese. Berna tace imbarazzata e la Fifa sdottoreggia sui divieti ai riferimenti politici davanti a un Paese, super partes in due guerre mondiali, che prende posizione.La questione non è Serbia o Kosovo. Quella è una faida antica, un'enciclopedia dell'odio etnico che si inspessisce di generazione in generazione e non è di certo per aver infranto i codici etici al velluto della Fifa (della Fifa poi, vogliamo davvero parlare di etica?) che si registrerà qualche peggioramento a un tavolo diplomatico di per sé pessimo da decenni. Xherdan Shaqiri e Granit Xhaka, kosovari nelle vene e sfizzeri di passaporto, hanno fatto il segno dell'aquila bicipite - rimando araldico alla bandiera albanese - in faccia ai tifosi serbi dopo averli purgati con due bellissimi gol segnati, mettiamoci pure questo, al Mondiale di Russia, ossia là dove pulsa la tensione per la Crimea e le spinte separatiste fanno vibrare il confine con l'Ucraina.Insomma, sarebbe stato meglio non soffiare sulle braci del nazionalismo, almeno entro le frontiere del rettangolo verde, però qui l'unico vero dato geopolitico (o antropologico?) da trarre non riguarda né Pristina né Belgrado. La nazionale svizzera di calcio è quel che è: una squadra di stranieri. Il trittico franco-italo-tedesco, storica radice dei cognomi sulle schiene dei confederati, oggi è sparito. C'è Stephan Lichtsteiner, con il suo profilo squadrato e gli occhi a spillo, fascia di capitano al braccio, e pochi altri: il portiere Yann Sommer, Steven Zuber e Fabian Schär, l'Elvetia storica finisce lì. Da anni la Federcalcio rossocrociata ha abbracciato il melting pot e per contro, va detto, stabilmente s'è issata sul palcoscenico principale del calcio globale. Ci sono due colonne. Una è africana: Yvon Mvogo, François Moubandje, Breel-Donald Embolo (Camerun); Johan Djorou (Costa d'Avorio); Manuel Akanji (Nigeria); Gelson Fernandes (Capo Verde). L'altra è balcanica, figlia dell'esodo innescato dalla guerra in ex Jugoslavia, e ha portato nei campetti dei cantoni bimbi venuti da lontano che poi sono diventati Josip Drmic e Mario Gavranovic (Croazia); Haris Seferovic (Bosnia) e la vera grande iniezione di talento che ha rovesciato i destini del calcio svizzero: Valon Behrami (Albania); Xhaka e Shaqiri (Kosovo) e Blerim Dzemaili (macedone d'etnia albanese). Quest'ultimo gruppo etnico l'altra sera nello stadio di Kaliningrad - un testacoda di patrie del genere non poteva che andare in scena in una exclave - s'è trovato davanti la Serbia. Senza indugiare in retorica da quattro lire su racconti di genitori in fuga dalla guerra e difficoltà assortite una volta giunti nella nuova nazione, si può comprendere che la brigata kosovara della nazionale svizzera abbia sentito il richiamo del sangue, eco che nessuna politica d'integrazione potrà mai silenziare. Spiccato il volo dalle mani dei calciatori, l'aquila bicipite ha artigliato l'orgoglio serbo e s'è andata a posare sulle copertine dei giornali. La Serbia è furente per la provocazione, la Fifa sdottoreggia sui divieti ai riferimenti politici, Berna tace imbarazzata perché era meglio evitare polemiche ma comunque la nazionale non è mai stata così forte e gli ottavi di finale sono a un tiro di schioppo. Opinioni. Una cosa è certa: la Svizzera, super partes in due guerre mondiali e paradigma universale dell'equidistanza, ha preso posizione nel ginepraio serbo-kosovaro, cancellando secoli d'imparzialità con due gol sotto la curva sbagliata in una partita di pallone. Domanda: se non è più neutrale, la Svizzera è ancora la Svizzera?