«Quando si ritirerà, fate un monumento a Gabrielloni. Ha scritto la storia di questo club e meritava questo gol: ha dimostrato che, pur essendo partito dalla serie D, può fare la differenza anche in A. E se lui è qua, non è per un mio regalo: mi ha dimostrato di essere fortissimo. Mi aiuta giorno dopo giorno. Ha parlato prima della partita, ha fatto un gran discorso, emozionante». Mentre l’allenatore Cesc Fabregas - uno che nella vita ha visto passare più trofei che nuvole e durante i viaggi per le trasferte giocava a rubamazzetto con Leo Messi - tesseva l’elogio della sua tenacia, Alessandro Gabrielloni era ancora appeso alla recinzione che contiene la curva del Como, stritolato dall’abbraccio del pubblico in un’istantanea da vertigine nel calcio plastificato di oggi. Como-Roma, complice il momentaccio dei giallorossi, era praticamente uno scontro salvezza: lupacchiotti intenti a restituirsi una classifica degna della Capitale, lombardi a secco di vittorie da due mesi con l’allarme retrocessione che non smette di suonare. Fabregas fa staffetta fra le due punte di categoria. Parte titolare il gallo Belotti, poi largo a Cutrone. Nisba. Al minuto 80, col punteggio inchiodato sullo 0-0, il tecnico catalano si volta verso la panchina: «Dai Ale, entri tu e ci proviamo». Qua le pagine del libro si incollano. Ale Gabrielloni, 30 anni e 90.000 euro lordi di stipendio - probabilmente c’è qualche giardiniere pagato meglio nei top club - da sette stagioni filate indossa una maglia sola: quella dei lariani, che avevano puntato su di lui al momento di ripartire dai dilettanti dopo l’ennesimo fallimento. In quel contesto era un torello ingestibile, titolare fisso e capocannoniere in D e poi in C. Dopodiché è arrivata la proprietà indonesiana della famiglia Hartono, la più ricca del calcio italiano, che ha investito milioni per riportare la squadra nella massima categoria. Nel corso delle stagioni hanno firmato Cutrone, Strefezza, Belotti, Sergi Roberto e un prodigio come Nico Paz (segnatevi il nome). Lo spazio nel reparto offensivo si è fatto sempre più stretto per quel torello di Jesi con tanta voglia ma zero pedigree. Il livello s’è alzato, lui ha cavalcato l’onda. Ha scelto di restare in B e giocarsela dalla panca, piuttosto che primeggiare - e farsi pagare - nelle serie inferiori. Risultato: 37 presenze e 9 gol (molti entrando nei minuti finali) nella stagione della storica risalita in A dei comaschi dopo un ventennio. Durante l’estate Gabrielloni rimane fedele a sé stesso: Fabregas gli spiega che c’è pochissimo posto, che la Serie A è un altro film e certi difensori lui li ha visti solo in tv. Niente: «Mister, resto a Como e me la gioco». Tre minuti, otto minuti, cinque minuti. Gabrielloni sbrana tutto il calcio che conta che è riuscito a guadagnarsi. Dieci minuti contro la Roma, un guizzo da killer sul primo palo - che è sempre il primo palo dalla D alla Champions league, se ci sai andare - tocco di punta e gol al 93°. Quest’estate, mentre nessuno guarderà il circo equestre del Mondiale per club, Gabrielloni sarà ancora lì a penzolare dalla curva del Como, per ricordare a tutti perché era bello giocare a pallone gratis all’oratorio.
La Corea del Sud ha denunciato il Como alla Fifa per razzismo. Già così è abbastanza surreale, più di Raphaël Varane che ha vinto quattro Champions e un Mondiale e sta per firmare un biennale coi lariani neopromossi in Serie A dopo 21 anni d’assenza. Ricapitoliamo i fatti. Marbella, tardo pomeriggio di lunedì 15 luglio: mentre il sole allenta la presa sulla costa andalusa Como e Wolverhampton - squadra di Premier League inglese - si fronteggiano a porte chiuse nella classica amichevole estiva per fare rodaggio. A metà secondo tempo Daniel Podence, attaccante dei britannici, becca un rosso diretto per aver mollato un cazzotto in faccia a un difensore dei lombardi. Motivo? Avrebbe fatto giustizia sommaria in nome del compagno di reparto sudcoreano, Hwang Hee-Chan (segnatevi il nome), che ha lamentato «accuse razziste» da parte del giocatore del Como. La partita finisce 1-0 per gli inglesi, ovviamente ormai non frega più nulla a nessuno ma l’indomani l’ennesimo caso di razzismo nel calcio italiano fila dritto sul New York Times. Cosa ha detto il calciatore comasco a Chan? Gli inglesi non lo riferiscono, parlano genericamente di «razzismo». Per le successive 24 ore il Como viene schifato sui social network dal Commentatore Unico Globale, finché dal lago decidono di fare chiarezza con un comunicato, visto che la compagine britannica preferisce non fornire dettagli. Scrive Mirwan Suwarso, rappresentante indonesiano - segnatevi anche questo - del gruppo proprietario del Como: «Il club non tollera il razzismo e ne condanna ogni sua forma. Abbiamo parlato a lungo col nostro difensore per capire cosa abbia detto». La frase incriminata - mai smentita dagli inglesi in seguito - non è un insulto razziale: «L’atleta ha riferito di aver detto a un suo compagno “ignoralo, pensa di essere Jackie Chan”». Ossia il divo di arti marziali quasi omonimo dell’attaccante. Una frase scaturita a margine di qualche scontro in campo, non rivolta direttamente al coreano, che però ha turbato profondamente Chan (Hwang Hee, non Jackie, che per ora è rimasto tranquillo). Il Como si dice certo che non ci fosse intento denigratorio e che il riferimento sia semplicemente «al nome del giocatore». Dal Wolverhampton nessuna replica ma il caso non si è chiuso, anzi. Ieri la federcalcio della Corea del Sud ha scritto alla Fifa una missiva in cui esprime «seria preoccupazione per gli atti razzisti subiti da Hwang Hee-Chan». Nella lettera si chiede di agire e «sradicare il razzismo». Ovviamente, in ossequio al pensiero unico che dà sempre precedenza alle reazioni pavloviane piuttosto che ai fatti, il Como è diventato la squadra del Kkk (con tanto di fotomontaggio dei giocatori incappucciati) e Podence è un eroe civile perché chi viene accusato di razzismo va menato il prima possibile, fa niente se a ben guardare ha solo detto che Valentino Rossi «pensa di essere Vasco Rossi». Manco «sembra Vasco Rossi», che sarebbe un cenno ai tratti somatici, ma «pensa di essere», un riferimento palese agli atteggiamenti e non all’individuo. Il razzismo nel calcio non si può risolvere con metodi da inquisizione spagnola. Esiste la realtà e bisogna tenerne conto. I media stanno mettendo in croce Enzo Fernández, calciatore argentino del Chelsea, il quale dopo aver vinto la Copa America assieme a Messi e Lautaro Martinez si è fatto filmare sul bus mentre cantava un coro rivolto ai giocatori francesi (sconfitti dall’Albiceleste nell’ultimo Mondiale): «Giocano per la Francia ma i loro genitori sono dell’Angola. La loro madre è del Camerun, il loro papà è della Nigeria ma il loro passaporto dice “francese”». Secondo la polizia digitale dell’antirazzismo sono deliri da suprematisti bianchi, invece è la realtà. Che può non piacere ma è quella che è: la nazionale francese è una delle più multietniche. Mbappé, l’uomo simbolo, ha padre del Camerun e mamma nordafricana. Come lui, gran parte della rosa ha parenti africani. Benzema, fuoriclasse di ascendenza magrebina, rifiutò di cantare la Marsigliese a testimonianza di un senso d’appartenenza a corrente alternata. Il coro dei sudamericani dice che i calciatori francesi hanno genitori africani: un dato di fatto. Si dovrebbe poter affermare senza timori, in un mondo intellettualmente libero. Invece online gira la lista dei giocatori argentini «che non erano sul bus», dunque non vanno insultati, mentre per gli altri c’è la gogna. I transalpini compagni di club di Fernández si sono rivoltati contro di lui, il Chelsea prepara azioni disciplinari poiché, signori, qua c’è del razzismo. Ma questo è cavarsi gli occhi davanti alla realtà. L’ha riassunta per tutti Victoria Villarruel, vicepresidente della Repubblica argentina: «Siamo un paese sovrano e libero. Non abbiamo mai avuto colonie o cittadini di seconda classe. Non abbiamo mai imposto a nessuno il nostro modo di vivere, non tollereremo nemmeno che lo facciano a noi. Nessun paese colonialista ci intimidirà per una canzone o per aver detto verità che non vuole ammettere. Basta fingere indignazione, ipocriti». Ecco, basta.
Nota finale per i cacciatori di altarini: chi scrive tifa orgogliosamente Como sin dai pantani della Serie D. Siccome è la realtà, non serve fingere altrimenti.
Gabri Veiga nel suo piccolo fa una bella differenza. Nel mare di petrodollari riversato sull’Europa dalla Saudi Pro League - siamo a circa 800 milioni in pochi mesi - la firma dello spagnolo con l’Al-Ahli su un triennale da 12,5 milioni annui ha lo stesso effetto di un bel contropiede: chi lo mette a segno prende fiducia, chi lo subisce si domanda come sia potuto succedere. Intanto è successo. Un ragazzo di 21 anni, astro nascente del calcio iberico, corteggiato da mezza Europa, con un patto chiuso per 2,2 milioni l’anno col Napoli campione d’Italia sceglie invece l’Arabia, antepone il tintinnio del danaro alla musichetta della Champions League. Qui sta il nocciolo della questione: se giocare nel deserto saudita diventa il sogno dei ragazzini, per il calcio europeo la campana suona a morto. Chi conosce gli ingranaggi del fondo Pif, lo strumento finanziario con cui l’Arabia sta allungando le mani verso lo sport, garantisce che non si tratta di un fuoco di paglia. La famiglia reale vuole organizzare il mondiale del 2034 e con un decennio d’anticipo getta le basi per un campionato nazionale all-star. Siamo tutti esterrefatti dopo la prima campagna acquisti? Ecco, ne mancano altre nove. Col potere economico che si sta scatenando, i parametri del mercato calcistico sono destinati a mutare rapidamente verso l’alto. Il Vecchio Continente deve cambiare pelle e la soluzione più a portata di mano sta dietro una parola che non si può pronunciare: Superlega. C’è un peccato originale da mondare subito: non stiamo parlando - non su queste colonne perlomeno - del circolino di soli ricchi che tentò il blitz contro la Uefa salvo ammutinarsi da sé stesso nel breve volgere di 48 ore. L’esclusività, la scarsa considerazione dei campionati locali e la radice stessa di quel progetto risultarono irricevibili per i tifosi, che erano e restano la base di questo gioco e contribuirono fattivamente a bloccare l’operazione. Ma se dall’altra parte del mondo nasce una sorta di Nba del calcio, una lega chiusa in cui un solo uomo cura il mercato di tutti i club con l’unico obiettivo di generare spettacolo disponendo di fondi illimitati, aggrapparsi alla tradizione e al fascino delle nostre cattedrali del pallone equivale a cedere il passo. L’offerta del calcio europeo deve salire di livello: la Champions - massima competizione continentale - propone sfide davvero imperdibili solo dai quarti di finale in poi (se va bene). Una competizione in grado di produrre sistematicamente big match sarebbe la risposta a tanti bisogni, tratterrebbe le stelle da questa parte del pianeta e con esse riflettori, diritti tv e incassi. Non sarà bello ma è necessario. Non si può pensare al calcio solo in chiave romantica: è il denaro che fa rotolare la palla. La sfida è creare una Superlega che incastri con tutto il resto. Per farcela non si può prescindere dalla competitività trasversale. Per prima cosa, non può essere una lega esclusiva. Oltre a un nucleo fondativo di club di prima grandezza dev’esserci spazio per squadre diverse che possano accedere alla kermesse per merito sportivo. L’importante è che ci sia spazio per competere a ogni livello, nella Superlega come nei campionati nazionali (che potrebbero essere più aperti, se le favorite di rito fossero pesantemente assorbite dalla Superlega). Se tutti, non importa a che piano della piramide, hanno una possibilità di vincere, lo spettacolo è garantito. In questo la Conference League ha dato segnali intriganti: bollata dall’opinione pubblica come coppetta per scappati di casa, in realtà nelle sue prime due edizioni - lo sappiamo bene in Italia - ha infuocato le annate di società come Roma, Fiorentina, Feyenoord e West Ham, che non si giocavano un trofeo di peso da decenni, portando al centro della scena realtà periferiche come Tirana e Praga, mentre nel 2025 toccherà a Breslavia ospitare la finale. È una città della Polonia e dispone di uno stadio da 45.000 posti costruito nel 2011. Grazie alla Conference League, ora lo sapete. Se lo schema piramidale generasse gettito per tutti, si potrebbe ritrovare la via della sostenibilità irrimediabilmente perduta nella lunga notte della pandemia. Con qualche rimessa anche per i livelli inferiori, dove il discorso è sempre lo stesso: mancano fondi, stadi e progetti ma non la passione. Il Bari nella serie B italiana, per il semplice fatto di avere concrete possibilità di vincere il campionato e salire in A, lo scorso anno ha registrato una media spettatori di 25.000 unità, ben superiore a tanti club della massima serie (italiana o europee) inchiodati in partenza a una stagione mediocre. Ci fosse la Superlega, dubitiamo che anche un solo tifoso dei galletti perderebbe interesse verso la squadra cittadina. Al contrario, fiorissero chance di gloria per tutti, il circo d’oro arabo sembrerebbe molto meno splendente.





