
Clamorosamente sconfitti il procuratore generale e il capo della Procura meneghina, che volevano trasferire il pm «ribelle». La rivolta dei colleghi, fatto senza precedenti, ha stoppato l'operazione capro espiatorio. E ora le cose possono davvero cambiare.È uno schiaffo al «Sistema», forse addirittura l'inizio della fine del «Sistema». Di sicuro è una brutta botta per i vertici della Procura di Milano e per quella componente della magistratura che negli ultimi trent'anni, dal Pool di Mani pulite in poi, nel palazzo di giustizia lombardo ha fatto il bello e il cattivo tempo, dettando legge ed estromettendo qualsiasi pm che non si adeguasse alla linea. La storia ha un inizio, ovvero il processo Eni, con il contorno di accuse formulate contro i capi della compagnia petrolifera dall'avvocato Piero Amara, ex legale esterno del cane a sei zampe. Tutto nasce dalla presunta madre di tutte le tangenti, che sarebbe stata pagata a un politico nigeriano: una vicenda strampalata, che fa acqua da tutte le parti, con indagini che zoppicano e testimoni che scompaiono. Ma per rafforzare la sua deposizione, l'avvocato mette sul tavolo un carico da novanta, cioè l'esistenza non solo di una corruzione internazionale, ma anche di una associazione segreta, di cui fanno parte manager, politici e magistrati. Boom. I procuratori di Milano verbalizzano, ma per mesi il verbale finisce in fondo a un cassetto. È il periodo in cui il processo Eni si sta inabissando lentamente, mentre emergono le contraddizioni dell'accusa. Però, anziché tenere a galla la nave turando le falle dell'inchiesta, la testimonianza di Amara, con le sue inverosimiglianze, rischia di affondarla. Dunque, meglio soprassedere, perché con i siluri lanciati con la loggia Ungheria, l'ex legale dell'Eni rischia un'incriminazione per calunnia e di seguito anche la definitiva archiviazione del processo Eni. Risultato, il verbale rimane lì, sospeso nel purgatorio della Procura, con la sola eccezione delle accuse contro il presidente della Corte che deve emettere proprio la sentenza Eni. Le frasi di Amara, con gli schizzi di fango contro colui che poi assolverà tutti gli imputati del processo, vengono inviate a Brescia, alla Procura competente per le indagini sui magistrati milanesi.Mentre si consuma dietro le quinte questo scontro, mentre si scopre che alcune prove a discarico degli indagati non sono state prodotte nel processo (tra queste alcuni video che documenterebbero la volontà di almeno un testimone di infangare i vertici dell'Eni), uno dei pm che ha raccolto le fantasie di Amara non ci sta e vuole indagare, sulle accuse oppure sul testimone. Perché delle due l'una: o l'avvocato dice il vero e dunque bisogna scoperchiare i segreti della loggia Ungheria, o dice il falso e quindi va perseguito per calunnia. Una terza strada non è prevista, ma come abbiamo spiegato, a Milano scelgono proprio la terza strada e, alla faccia dell'obbligatorietà dell'azione penale, tengono tutto in sospeso. Paolo Storari, il magistrato che ha raccolto le confidenze del legale e vuole indagare, dopo quattro mesi finisce per portare i verbali a Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite e all'epoca membro togato del Csm. Per questo, quando si scoprirà che è stato lui a far uscire la testimonianza dalla Procura, Storari finirà indagato per aver violato il segreto e con lui sarà iscritto anche Davigo. Tutto chiaro fin qui? Da una parte c'è un processo che non decolla nonostante gli sforzi dei magistrati e dall'altra c'è un'indagine che non decolla perché i magistrati non sembrano trovare la forza o forse il tempo, ma a finire nei guai è il pm che voleva indagare. Già, perché oltre a venire indagato, viene messo nel mirino dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che sulla base della relazione del procuratore capo di Milano, Francesco Greco, ne chiede non solo il trasferimento, per il grave imbarazzo in cui ha messo i colleghi, ma addirittura lo vuole degradare, privandolo della possibilità di fare il pm in un'altra città. Insomma, il destino del magistrato che si è ribellato al «Sistema» sembra segnato, così come nel passato lo era stato quello di altre toghe che si erano ribellate, a cominciare da Tiziana Parenti, passando per Clementina Forleo, per finire poi ad Alfredo Robledo, tutti rei di non essersi adeguati. Ma in questo caso succede qualche cosa di mai visto: 60 pm su 64 in servizio solidarizzano con Storari, dichiarando di non avere alcuna difficoltà a lavorare con lui. E 29 gip su 32 sottoscrivono. Senza contare poi, centinaia di magistrati del distretto, a cui si uniscono quelli di altri tribunali. In pratica, una rivolta che scuote un universo già scosso dal caso Palamara. Così si arriva a ieri, quando il Csm esamina la pratica di destituzione di Storari e respinge la proposta del procuratore generale della Cassazione, ma in pratica sconfessa anche l'azione di Francesco Greco, il capo del pm ribelle. Mai si era vista una cosa del genere. Provate a immaginare ai tempi di Mani pulite un Francesco Saverio Borrelli che si vede rigettata una sua richiesta e per di più circondato dalla quasi totalità dei colleghi che prende le distanze dal suo operato. Nei fatti, una debacle, la fine di un «Sistema», con i vertici della Procura tutti o quasi indagati. Forse, per la prima volta, qualche cosa sta cambiando.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.