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2023-09-23
«Senza ricordarsi delle sue radici l’Europa non potrà accogliere»
Angelo Bagnasco (Ansa)
È acquisito che esiste il diritto di restare e il diritto di partire dalla propria terra alla luce della piena legalità, sapendo che qualunque diritto è legato a un bene vero per sé e per gli altri. Sarebbe però insufficiente parlare di diritto senza riconoscere il fondamento. [...] Come credenti, sappiamo che questo fondamento rimanda a Dio creatore, come esseri razionali siamo rimandati alla comune natura e al dono della razione, nonché alla responsabilità di usarla correttamente. Nella prospettiva della dignità umana, è lesivo parlare dei processi migratori in termini strumentali, cioè come se colui che emigra fosse «forza-lavoro» anziché una persona unica e irripetibile. [...] In un tempo nel quale si propaganda l’individualismo assoluto e l’incapacità della ragione di conoscere la verità dei valori, ognuno sembra dover essere norma di sé stesso. Ma il risultato è che l’individuo non è più libero come si dice, bensì è più smarrito e solo di fronte a sé stesso, alla collettività e al resto del mondo.
[...] Nella visione cristiana, la laicità dello Stato trova la sua affermazione nella distinzione evangelica tra Dio e Cesare. Questa distinzione non afferma uno Stato moralmente neutro verso qualunque opzione comportamentale: accogliere tutti non vuol dire accogliere tutto. Se così fosse, in realtà non si accoglierebbe nessuno, poiché accettare tutto e il suo contrario non crea un volto da offrire, un grembo in grado di abbracciare chiunque, ma piuttosto una realtà fluida che non crea appartenenza: e senza senso di appartenenza non c’è casa. [...] Per questa ragione lo Stato riconosce la libertà religiosa e la libertà della religione. La prima afferma la libertà di ogni cittadino di aderire o meno ad una religione, e a cambiarla se ritiene. La seconda non interferisce nel credo della religione. Un credo che rispetti chiaramente la dignità fondamentale di ogni persona. Credo, a questo riguardo, che sia giusto ricordare quanto, nel nostro Paese come nell’intero Continente, il cristianesimo è stato sorgente e alveo di civiltà, cultura e bellezza per il bene di tutti.
Alla luce di quanto premesso, torno al tema migratorio, tenendo fermo l’obiettivo del bene di chi è accolto e di chi accoglie: infatti, senza il bene di tutti non vi è bene di nessuno. [...] Se, come giustamente si dice, bisogna puntare alla «integrazione» e non fermarsi a forme croniche di «assistenzialismo», allora bisogna insistere su alcune condizioni. [...] Innanzitutto è necessaria la volontà di integrarsi là dove si è. Da qui l’impegno serio e verificato di studiare la lingua e la storia del Paese. Tutti sanno che una dimora dignitosa e un lavoro onesto e giustamente retribuito sono necessari ma non sufficienti in ordine all’integrazione auspicata, ben sapendo che le leggi e le regole valgono per tutti, e vanno rispettate da tutti con le conseguenze previste, per chi è accolto e per chi accoglie. Non si tratta di sostituire la cultura di chi approda in Italia, ma della possibilità di comunicare e della necessità di conoscere la cultura e la società del luogo dove si vuole vivere. Non si tratta di concedere dei contributi a chi è in prima fila - contributi doverosi e necessari - ma della presa in carico della situazione, così come è stato ripetuto in questi giorni in diverse sedi istituzionali. Si tratta di affrontare in solidum un dramma che riguarda tutti, vicini e lontani, e che pare destinato a crescere.
L’Unione europea non è economia, è una coscienza: ma a che punto essa si trova? Non è forse questo - il flusso migratorio - un grande e decisivo banco di prova che ormai dura da anni? [...] Non sono forse frangenti che misurano il cammino unitario, che svelano la forza delle convinzioni e il rispetto dei volti dei diversi Paesi? Essi vogliono camminare insieme senza essere omologati e sudditi di nessuno: perché ci sia una coscienza europea è necessaria la coscienza dei popoli; per questo bisogna che sentano non una mano pesante, ma un cuore che pulsa e lo sguardo lungimirante come avevano i Padri. Essi riconoscevano le radici del Continente, senza paura di apparire ciò che si è per storia e si dovrebbe essere per convinzione.
[...] Dato che il fenomeno migratorio - e così quello della pace e dello sviluppo - è su scala mondiale, è forse utopistico auspicare, anzi chiedere al mondo di fare un grande esame di coscienza? Concludendo, pongo tre domande.
Insieme alle grandi istituzioni mondiali, non è possibile una massiccia e severa azione di contrasto a coloro che - criminali e organizzazioni criminali - sfruttano i migranti? Se l’Italia deve avere la solidarietà operosa dell’Unione, anche l’Unione deve chiamare in causa i soggetti internazionali. Dato che in buona parte l’abbandono della propria terra è dovuto a condizioni di miseria, di mancanza di futuro, di insicurezza ricorrente dovuti a una precarietà endemica, il mondo sviluppato ha veramente a cuore che questi Paesi si sviluppino? Oppure, nonostante aiuti e progetti esportati, pensa che la loro perdurante instabilità convenga per sfruttare meglio grandi risorse e per un più facile controllo politico? Senza interferire nella sovranità degli Stati, la Comunità internazionale non può programmare un grande piano concordato con le Autorità locali, con progetti di sviluppo finanziati e controllati, affinché nessuno possa profittarne e lo sviluppo diventi realtà? Pensando all’Europa, a volte viene da chiederci: il mondo guarda con simpatia e convinzione al cammino unitario del Continente? Oppure qualcuno pensa diversamente per interessi propri e per una diversa geopolitica? Comunque sia, i vescovi dell’Europa sono convinti di questo obiettivo dei Padri, e si augurano che le parole di Novalis non si avverino mai: «Se l’Europa si slegasse totalmente da Cristo, allora essa cesserebbe di essere».
L’identità è garanzia di convivenza
«Nessuno di noi deve temere di avere la propria identità». La frase del cardinale Angelo Bagnasco (rivoluzionaria se pronunciata nella Milano dell’allegra melassa multicult) è il timbro di un convegno originale organizzato in Regione Lombardia dalla fondazione FareFuturo, nel quale si ascoltano finalmente parole diverse, persino nuove, sul tema dei migranti, sulle pelose pigrizie dell’Europa, sulle superficiali risposte del progressismo militante che guida menti poco ammobiliate di pensiero. «Partire senza costrizioni, liberi di rimanere», è il titolo. Oltre all’ex presidente della Conferenza episcopale italiana ed europea, ne parlano i rappresentanti delle altre due religioni monoteiste del pianeta: Maryan Ismail, prima imam donna, Hassen Chalghoumi, imam tunisino di Drancy (comune francese martire della Shoah) e il filosofo Vittorio Robiati Bendaud, studioso di tematiche interreligiose e autore del bestseller La stella e la mezzaluna.
È proprio quest’ultimo a mettere il dito nella piaga e a pronunciare le parole più urticanti contro il conformismo dell’Occidente. «Quando si parla di integrazione dei migranti non possiamo dimenticare che esistono i popoli che accolgono e quelli accolti. Chi accoglie, gli europei, ha due radici: cristiane e greche. Oggi queste nostre radici sono negate, taciute o tacciate di ogni male soprattutto dall’interno. Accolgo ma dove accolgo? Il rischio è accogliere in un mondo come il nostro che non ha più significanza. Quando io leggo che in Svezia la chiesa luterana ha tolto le croci dai campanili per non mettere in imbarazzo i musulmani; quando leggo che in Francia non si fa più il presepe perché in alcune scuole gli islamici sono in maggioranza, il problema non è esogeno ma endogeno. E quelle che vediamo sono forme di supermercato in svendita».
Secondo lo studioso ebreo la debolezza dell’Europa è decisiva in questo balbettare soluzioni prive di senso storico. «Senza coscienza e senza identità rischiamo di creare società balcanizzate, separatiste. Già l’islam ha al suo interno il separatismo dei fondamentalisti che perseguitano gli integrati, in più noi aggiungiamo società cristiane che non si parlano, società balcanizzate perfino per gli orientamenti sessuali. In questa Europa, più che di popoli viviamo di lobby. E quando le lobby non terranno più, ecco tornare l’omnium contra omnes teorizzato da Thomas Hobbes. Come fanno ad integrarsi coloro che arrivano, se non esiste più una società responsabile che mostra loro diritti ma anche e soprattutto doveri?».
Nella capitale italiana della narrazione conformista tutto questo suona alternativo, saggio, anche un po’ disperato. I relatori concordano sulla necessità che la società occidentale con il vizio dell’autoflagellazione non si limiti passivamente ad ascoltare ma abbia ancora qualcosa da dire. «Anche per non cedere al fondamentalismo che si impadronisce dei ghetti costruiti per ovviare alla pressione dei migranti di altre religioni», come spiega Maryan Ismail che ha avuto un fratello ucciso dagli jihadisti ed è uscita dal Pd «perché preferisce parlare con i fondamentalisti». Hassen Chalghoumi sottolinea l’importanza del ritorno all’autocritica con una metafora. «Quando sono stato in India ho conosciuto un mistico sufi che diceva di guardare sempre con due occhi: uno per chiarire la bellezza degli altri e l’altro per vedere i propri difetti». Secondo Robiati Bendaud servono regole, non demagogia. «La democrazia liberale resta la meno peggio, ma siamo una piccola percentuale del mondo, neppure così prospera. Da noi le 14 Opere di Misericordia cristiane (Dar da mangiare agli affamati eccetera…) sono più moderne di un certo ecologismo, anzi del catto-ecologismo oggi di moda. Ma questo non si può dire sennò si scandalizzano i benpensanti». Alla fine della giornata risuona la sua ultima frase: «Un certo progressismo di comodo oggi sta distruggendo l’Europa».
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Il cardinale Angelo Bagnasco: «Va garantito il diritto di non partire. Punire severamente chi sfrutta i migranti ma chi arriva faccia uno sforzo per integrarsi. Offensivo definire degli esseri umani come “forza-lavoro”».Al convegno di Milano, cristiani, musulmani ed ebrei concordi: rinnegare sé stessi non è una forma di rispetto per l’altro. L’ecologia di moda? Meglio la carità religiosa.Lo speciale contiene due articoli.È acquisito che esiste il diritto di restare e il diritto di partire dalla propria terra alla luce della piena legalità, sapendo che qualunque diritto è legato a un bene vero per sé e per gli altri. Sarebbe però insufficiente parlare di diritto senza riconoscere il fondamento. [...] Come credenti, sappiamo che questo fondamento rimanda a Dio creatore, come esseri razionali siamo rimandati alla comune natura e al dono della razione, nonché alla responsabilità di usarla correttamente. Nella prospettiva della dignità umana, è lesivo parlare dei processi migratori in termini strumentali, cioè come se colui che emigra fosse «forza-lavoro» anziché una persona unica e irripetibile. [...] In un tempo nel quale si propaganda l’individualismo assoluto e l’incapacità della ragione di conoscere la verità dei valori, ognuno sembra dover essere norma di sé stesso. Ma il risultato è che l’individuo non è più libero come si dice, bensì è più smarrito e solo di fronte a sé stesso, alla collettività e al resto del mondo.[...] Nella visione cristiana, la laicità dello Stato trova la sua affermazione nella distinzione evangelica tra Dio e Cesare. Questa distinzione non afferma uno Stato moralmente neutro verso qualunque opzione comportamentale: accogliere tutti non vuol dire accogliere tutto. Se così fosse, in realtà non si accoglierebbe nessuno, poiché accettare tutto e il suo contrario non crea un volto da offrire, un grembo in grado di abbracciare chiunque, ma piuttosto una realtà fluida che non crea appartenenza: e senza senso di appartenenza non c’è casa. [...] Per questa ragione lo Stato riconosce la libertà religiosa e la libertà della religione. La prima afferma la libertà di ogni cittadino di aderire o meno ad una religione, e a cambiarla se ritiene. La seconda non interferisce nel credo della religione. Un credo che rispetti chiaramente la dignità fondamentale di ogni persona. Credo, a questo riguardo, che sia giusto ricordare quanto, nel nostro Paese come nell’intero Continente, il cristianesimo è stato sorgente e alveo di civiltà, cultura e bellezza per il bene di tutti.Alla luce di quanto premesso, torno al tema migratorio, tenendo fermo l’obiettivo del bene di chi è accolto e di chi accoglie: infatti, senza il bene di tutti non vi è bene di nessuno. [...] Se, come giustamente si dice, bisogna puntare alla «integrazione» e non fermarsi a forme croniche di «assistenzialismo», allora bisogna insistere su alcune condizioni. [...] Innanzitutto è necessaria la volontà di integrarsi là dove si è. Da qui l’impegno serio e verificato di studiare la lingua e la storia del Paese. Tutti sanno che una dimora dignitosa e un lavoro onesto e giustamente retribuito sono necessari ma non sufficienti in ordine all’integrazione auspicata, ben sapendo che le leggi e le regole valgono per tutti, e vanno rispettate da tutti con le conseguenze previste, per chi è accolto e per chi accoglie. Non si tratta di sostituire la cultura di chi approda in Italia, ma della possibilità di comunicare e della necessità di conoscere la cultura e la società del luogo dove si vuole vivere. Non si tratta di concedere dei contributi a chi è in prima fila - contributi doverosi e necessari - ma della presa in carico della situazione, così come è stato ripetuto in questi giorni in diverse sedi istituzionali. Si tratta di affrontare in solidum un dramma che riguarda tutti, vicini e lontani, e che pare destinato a crescere.L’Unione europea non è economia, è una coscienza: ma a che punto essa si trova? Non è forse questo - il flusso migratorio - un grande e decisivo banco di prova che ormai dura da anni? [...] Non sono forse frangenti che misurano il cammino unitario, che svelano la forza delle convinzioni e il rispetto dei volti dei diversi Paesi? Essi vogliono camminare insieme senza essere omologati e sudditi di nessuno: perché ci sia una coscienza europea è necessaria la coscienza dei popoli; per questo bisogna che sentano non una mano pesante, ma un cuore che pulsa e lo sguardo lungimirante come avevano i Padri. Essi riconoscevano le radici del Continente, senza paura di apparire ciò che si è per storia e si dovrebbe essere per convinzione.[...] Dato che il fenomeno migratorio - e così quello della pace e dello sviluppo - è su scala mondiale, è forse utopistico auspicare, anzi chiedere al mondo di fare un grande esame di coscienza? Concludendo, pongo tre domande.Insieme alle grandi istituzioni mondiali, non è possibile una massiccia e severa azione di contrasto a coloro che - criminali e organizzazioni criminali - sfruttano i migranti? Se l’Italia deve avere la solidarietà operosa dell’Unione, anche l’Unione deve chiamare in causa i soggetti internazionali. Dato che in buona parte l’abbandono della propria terra è dovuto a condizioni di miseria, di mancanza di futuro, di insicurezza ricorrente dovuti a una precarietà endemica, il mondo sviluppato ha veramente a cuore che questi Paesi si sviluppino? Oppure, nonostante aiuti e progetti esportati, pensa che la loro perdurante instabilità convenga per sfruttare meglio grandi risorse e per un più facile controllo politico? Senza interferire nella sovranità degli Stati, la Comunità internazionale non può programmare un grande piano concordato con le Autorità locali, con progetti di sviluppo finanziati e controllati, affinché nessuno possa profittarne e lo sviluppo diventi realtà? Pensando all’Europa, a volte viene da chiederci: il mondo guarda con simpatia e convinzione al cammino unitario del Continente? Oppure qualcuno pensa diversamente per interessi propri e per una diversa geopolitica? Comunque sia, i vescovi dell’Europa sono convinti di questo obiettivo dei Padri, e si augurano che le parole di Novalis non si avverino mai: «Se l’Europa si slegasse totalmente da Cristo, allora essa cesserebbe di essere».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/senza-radici-europa-non-accoglie-2665721424.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lidentita-e-garanzia-di-convivenza" data-post-id="2665721424" data-published-at="1695467638" data-use-pagination="False"> L’identità è garanzia di convivenza «Nessuno di noi deve temere di avere la propria identità». La frase del cardinale Angelo Bagnasco (rivoluzionaria se pronunciata nella Milano dell’allegra melassa multicult) è il timbro di un convegno originale organizzato in Regione Lombardia dalla fondazione FareFuturo, nel quale si ascoltano finalmente parole diverse, persino nuove, sul tema dei migranti, sulle pelose pigrizie dell’Europa, sulle superficiali risposte del progressismo militante che guida menti poco ammobiliate di pensiero. «Partire senza costrizioni, liberi di rimanere», è il titolo. Oltre all’ex presidente della Conferenza episcopale italiana ed europea, ne parlano i rappresentanti delle altre due religioni monoteiste del pianeta: Maryan Ismail, prima imam donna, Hassen Chalghoumi, imam tunisino di Drancy (comune francese martire della Shoah) e il filosofo Vittorio Robiati Bendaud, studioso di tematiche interreligiose e autore del bestseller La stella e la mezzaluna. È proprio quest’ultimo a mettere il dito nella piaga e a pronunciare le parole più urticanti contro il conformismo dell’Occidente. «Quando si parla di integrazione dei migranti non possiamo dimenticare che esistono i popoli che accolgono e quelli accolti. Chi accoglie, gli europei, ha due radici: cristiane e greche. Oggi queste nostre radici sono negate, taciute o tacciate di ogni male soprattutto dall’interno. Accolgo ma dove accolgo? Il rischio è accogliere in un mondo come il nostro che non ha più significanza. Quando io leggo che in Svezia la chiesa luterana ha tolto le croci dai campanili per non mettere in imbarazzo i musulmani; quando leggo che in Francia non si fa più il presepe perché in alcune scuole gli islamici sono in maggioranza, il problema non è esogeno ma endogeno. E quelle che vediamo sono forme di supermercato in svendita». Secondo lo studioso ebreo la debolezza dell’Europa è decisiva in questo balbettare soluzioni prive di senso storico. «Senza coscienza e senza identità rischiamo di creare società balcanizzate, separatiste. Già l’islam ha al suo interno il separatismo dei fondamentalisti che perseguitano gli integrati, in più noi aggiungiamo società cristiane che non si parlano, società balcanizzate perfino per gli orientamenti sessuali. In questa Europa, più che di popoli viviamo di lobby. E quando le lobby non terranno più, ecco tornare l’omnium contra omnes teorizzato da Thomas Hobbes. Come fanno ad integrarsi coloro che arrivano, se non esiste più una società responsabile che mostra loro diritti ma anche e soprattutto doveri?». Nella capitale italiana della narrazione conformista tutto questo suona alternativo, saggio, anche un po’ disperato. I relatori concordano sulla necessità che la società occidentale con il vizio dell’autoflagellazione non si limiti passivamente ad ascoltare ma abbia ancora qualcosa da dire. «Anche per non cedere al fondamentalismo che si impadronisce dei ghetti costruiti per ovviare alla pressione dei migranti di altre religioni», come spiega Maryan Ismail che ha avuto un fratello ucciso dagli jihadisti ed è uscita dal Pd «perché preferisce parlare con i fondamentalisti». Hassen Chalghoumi sottolinea l’importanza del ritorno all’autocritica con una metafora. «Quando sono stato in India ho conosciuto un mistico sufi che diceva di guardare sempre con due occhi: uno per chiarire la bellezza degli altri e l’altro per vedere i propri difetti». Secondo Robiati Bendaud servono regole, non demagogia. «La democrazia liberale resta la meno peggio, ma siamo una piccola percentuale del mondo, neppure così prospera. Da noi le 14 Opere di Misericordia cristiane (Dar da mangiare agli affamati eccetera…) sono più moderne di un certo ecologismo, anzi del catto-ecologismo oggi di moda. Ma questo non si può dire sennò si scandalizzano i benpensanti». Alla fine della giornata risuona la sua ultima frase: «Un certo progressismo di comodo oggi sta distruggendo l’Europa».
Giorgia Meloni (Ansa)
La posizione ufficiale del governo italiano rispetto a questa novità è espressa dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dalle sue parole traspare una certa freddezza: «Va certamente bene», dice Tajani al Qn, «riaprire un canale di comunicazione, ma il canale deve essere europeo: non può essere di un solo Paese. La cosa rilevante è che Putin torni a parlare con l’intera Europa. Dobbiamo lavorare tutti per la pace, che è l’obiettivo primario», aggiunge Tajani, «in questo senso, per capirci, la premessa è che noi non siamo mai stati in questi anni in guerra con la Russia. L’Italia è sempre stato il Paese che ha distinto in maniera netta tra gli aiuti all’Ucraina, per impedire che l’Ucraina venisse sconfitta, e la guerra con la Russia. Noi abbiamo solo aiutato l’Ucraina a difendersi, che è un’altra cosa rispetto a fare la guerra alla Russia. Noi abbiamo sempre sostenuto anche gli sforzi americani. E, dunque, ogni iniziativa che porti alla pace deve essere vista in maniera molto positiva: sempre con le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, con una sorta di articolo 5-bis sul modello Nato, a partecipazione anche Usa. A questo punto», osserva Tajani, «tocca alla Russia decidere se vuole sedersi al tavolo e affrontare anche con gli europei la trattativa, perché l’Europa non può non essere protagonista di una trattativa di pace tanto più che dal cessate il fuoco e dalla pace dipendono le sanzioni e la nostra sicurezza».
Parole pesate col bilancino, con un passaggio, quello sull’Italia «mai stata in guerra con la Russia» dal quale fa capolino una sorta di rivendicazione di un atteggiamento sempre prudente, proprio ora che Macron accelera sul percorso negoziale dopo essere stato per anni tra i «falchi» europei anti Russia, mentre l’Italia si è spesso trovata, in realtà più che altro per alcune dichiarazioni della Lega e per la vicinanza della Meloni a Donald Trump, accusata di eccessiva morbidezza nei confronti di Putin. Ora invece Macron sorpassa tutti sull’autostrada per Mosca, provocando un disallineamento in Europa, se non un vero e proprio imbarazzo, tanto che ieri i portavoce della Commissione hanno evitato di rispondere a tutte le domande sull’iniziativa dell’Eliseo.
Guerra e pace sono anche al centro del messaggio che ieri il premier Meloni ha rivolto alle missioni militari italiane all’estero per gli auguri di fine anno in collegamento dal Comando operativo vertice interforze: «La pace, chiaramente, è un bene prezioso», sottolinea Giorgia Meloni, «quando la si possiede. ed è un bene da ricercare con ogni sforzo quando la si perde. Però questo lo comprende più di chiunque altro chi conosce la guerra ed è preparato a fronteggiarla. Per questo io non ho mai accettato la narrazione, diciamo così, di chi contrappone l’idea del pacifismo alle forze armate. Alla fine del quarto secolo dopo Cristo», ricorda la Meloni, «Publio Flavio Vegezio Renato scrive: “qui desiderat pacem, praeparet bellum”. Diventa poi il più famoso “si vis pacem para bellum”, cioè chi vuole la pace prepari la guerra. Il punto è che il suo non è, come molti pensano, un messaggio bellicista, tutt’altro. È un messaggio pragmatico. Il senso è che solo una forza militare credibile allontana la guerra perché la pace non arriva spontaneamente, la pace è soprattutto un equilibrio di potenze: la debolezza invita l’aggressore, la forza allontana l’aggressore. L’etimologia della parola deterrenza arriva dal latino e significa de, cioè via da, e terrere, cioè incutere timore. Il senso della parola deterrenza è incutere timore al punto da distogliere. È la forza degli eserciti, è la loro credibilità lo strumento più efficace per combattere le guerra. Il dialogo, la diplomazia, le buone intenzioni, certo, servono, ma devono poggiare su basi solide. Quelle basi solide le costruite voi con il vostro sacrificio, con la vostra competenza, con la vostra professionalità, con il vostro coraggio».
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Emmanuel Macron (Ansa)
Donald Trump è stato criticato per aver ricevuto lo zar in Alaska ad agosto: da più parti, il presidente americano è stato accusato di aver fatto il gioco di Putin o di avergli regalato un immeritato prestigio diplomatico. Per non parlare poi di Viktor Orbán! Quando a novembre il premier ungherese incontrò lo zar a Mosca, finì bersagliato dagli strali di Friedrich Merz, che lo tacciò di agire senza alcun mandato europeo. Eppure con Macron, sia da Bruxelles che da Berlino, sono arrivati commenti soft. «Restiamo in coordinamento in termini di contatti bilaterali per raggiungere una pace sostenibile in Ucraina e accogliamo con favore gli sforzi di pace», ha dichiarato un portavoce dell’Ue, parlando dell’eventualità di una telefonata tra il presidente francese e Putin. «Non abbiamo alcuna preoccupazione che l’unità europea sulla guerra possa incrinarsi. Non c’è alcun dubbio sulla nostra posizione comune», ha inoltre affermato il governo tedesco, riferendosi alle aperture di Macron allo zar, per poi sottolineare (non senza un po’ di freddezza) che Berlino «ha preso atto dei segnali di disponibilità al dialogo».
Ora, è forse possibile formulare alcune considerazioni. La prima è che la diplomazia è un concetto differente dall’appeasement. Il problema è che alcuni settori politici e mediatici hanno finito indebitamente col sovrapporli. Trump, per esempio, ha, sì, ripreso il dialogo con Mosca. Ma lo ha anche alternato a forme di pressione (si pensi soltanto alle sanzioni americane contro Lukoil e Rosneft). Questo dimostra che si può dialogare senza essere necessariamente arrendevoli. D’altronde, se si chiudono aprioristicamente tutti i canali di comunicazione con l’avversario o con il potenziale avversario, si pongono le basi affinché una crisi sia essenzialmente irrisolvibile. Andrebbe inoltre ricordato che, secondo lo storico John Patrick Diggins, anche Ronald Reagan fu criticato dai neoconservatori per il suo dialogo con Mikhail Gorbachev.
Tutto questo per dire che, se Bruxelles non ha quasi toccato palla sulla crisi ucraina per quattro anni, è per due ragioni. Una strutturale: l’Ue non è un soggetto geopolitico. Un’altra più contingente: rinunciando pressoché totalmente all’opzione diplomatica, Bruxelles ha perso margine di manovra, raffreddando anche i rapporti con ampie parti del Sud globale. Paesi come l’India o l’Arabia Saudita hanno infatti sempre rifiutato di mollare Mosca, al netto della sua invasione dell’Ucraina. La strategia dell’isolamento perseguita dall’Ue ha quindi soltanto spinto sempre più il Cremlino tra le braccia della Cina e di vari Paesi del Sud globale.
La seconda considerazione da fare riguarda invece Macron. Dobbiamo veramente pensare che il presidente francese sia improvvisamente diventato uno stratega della diplomazia? Probabilmente no. Da quando la crisi ucraina è cominciata, il capo dell’Eliseo ha fatto tutto e il contrario di tutto. All’inizio, voleva tenere i contatti col Cremlino e diceva che Putin non doveva essere umiliato. Poi, dall’anno scorso, si è improvvisamente riscoperto falco antirusso. Addirittura, a maggio 2024, l’amministrazione Biden prese le distanze dalla proposta francese di inviare addestratori militari in Ucraina. Ciò non impedì comunque a Macron di essere, sempre a maggio 2024, uno dei pochi leader europei a mandare un ambasciatore alla cerimonia d’insediamento di Putin. Non solo. A marzo, il presidente francese quasi derise gli sforzi diplomatici di Trump in Ucraina, mentre, poche settimane fa, ha cercato di avviare un processo diplomatico parallelo a quello della Casa Bianca, tentando di convincere Xi Jinping a raffrenare lo zar. Tutto questo fino a venerdì, quando il capo dell’Eliseo ha aperto alla possibilità di parlare con Putin.
Macron sa di essere finito all’angolo. E sa perfettamente che gli interessi geopolitici alla base del riavvicinamento tra Washington e Mosca sono troppo forti per essere ostacolati. Sta quindi cercando di rientrare in partita. Non solo. Il leader francese sembra sempre più insofferente verso Berlino. Prima ha rotto con Merz sulla questione degli asset russi. Poi, con la sua svolta dialogante, ha de facto sconfessato la linea dura del cancelliere, che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Nel frattempo, non si registrano commenti significativi da parte del Regno Unito, che potrebbe temere un disallineamento di Parigi dall’asse dei volenterosi. Il punto è che il presidente francese gioca una partita molto «personale». Pertanto, anziché affidarsi a lui, Bruxelles, per contare finalmente qualcosa, dovrebbe forse coordinarsi maggiormente con Trump, sostenendo il suo processo diplomatico e rafforzando le relazioni transatlantiche. Esattamente quanto propone da mesi il governo italiano.
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