2022-05-23
Sentenza Milan
Inutile vittoria dell’Inter: i rossoneri indemoniati sotterrano il Sassuolo (0-3) e conquistano lo scudetto n° 19. Mancava da 11 anni di grigiore dopo l’addio del Cav. È il trionfo operaio di Stefano Pioli, Rafael Leao, Mike Maignan e del vecchio Ibra, inventatosi chioccia.Al penultimo respiro. Forse al terz’ultimo perché nella domenica finale c’è troppo Milan, un treno in corsa, un Frecciarossa che si ferma a Reggio Emilia non certo per ammirare la stazione di Santiago Calatrava. È scudetto senza patemi, è un doppio 3-0 (celestiale al Mapei, statistico a San Siro) che manda in paradiso Paolo Maldini, Stefano Pioli e i ragazzi irresistibili in capo a una stagione pazzesca. Ha aspettato 11 anni, è passato attraverso le paludi della mediocrità, ha visto Silvio Berlusconi salutare, il Milan prima di rinascere e mettere la testa davanti definitivamente (2 punti) dopo una stagione da battaglia quasi tutta milanese. È tornata Milano, ora detta i tempi. Dopo l’Inter, il Milan: il sigillo di una città che ha un altro passo, altri pretendenti (finanziari), altri orizzonti rispetto al resto d’Italia. È tornata Milano, in attesa che la Juventus presa a pugni nell’anno zero si rialzi più feroce che mai. Il Milan scende in campo con lo scudetto numero 19 in tasca (gli basta non perdere) e se lo tiene stretto, prova subito a metterlo sottochiave attaccando a testa bassa dopo aver capito che il Sassuolo non sta in piedi. Davanti a Paul Singer, patron del fondo Elliott e ai 18.000 tifosi calati in quel gran pezzo dell’Emilia, il Diavolo gioca 20 minuti nell’area avversaria e alla fine segna il gol della sicurezza. Prima ci prova Olivier Giroud (di testa, parato da Andrea Consigli), poi Rafael Leao (murato da un difensore). Infine il centravanti francese sfonda (minuto del destino, 16’) facendo passare il pallone sotto le gambe a difensore e portiere. Esplode mezza Milano, esplodono milioni di sostenitori in tutta Italia, l’impresa è compiuta. Ora bisogna solo difenderla, usare saggezza e serenità mentre a San Siro l’Inter non riesce a scardinare la difesa della Sampdoria. Tutti avevano presentato l’ultima giornata con l’aura di fascino dello slalom parallelo di Ortisei nel 1975 fra Gustavo Thoeni e Ingemar Stenmark, in realtà è sufficiente la doppia diretta di Dazn per capire chi ha vinto e chi ha perso. Il Milan è assatanato, l’Inter compassata, il Milan aggredisce ogni filo d’erba, l’Inter rumina con l’occhio bovino. Neppure un tempo e la domenica va in archivio, il Diavolo si ritrova 3-0, chiude ogni spiraglio alla possibile malasorte e la festa può cominciare. Ci pensano ancora Giroud e Franck Kessié a blindare il destino. A San Siro è andata, la sconfitta nel derby ribaltato e il suicidio di Bologna hanno deciso la storia di un’annata elettrica, chiusa in volata fra le due grandi di Milano. È uno scudetto immenso e impensabile quello che brilla stanotte accanto alla Madonnina. È lo scudetto di Paolo Maldini, che due stagioni fa stava per andarsene ed è rimasto «perché sono milanista nell’anima e voglio esultare con questi colori». Accontentato. È lo scudetto di Stefano Pioli, al quale non ha mai creduto nessuno, un tecnico perbene che lavora duro senza per questo trasformare il suo credo in un saggio di filosofia teoretica. È lo scudetto operaio di Davide Calabria, Fikayo Tomori, Pierre Kalulu, Alexis Saelemaekers, Leo Bennacer, Alessio Romagnoli. È lo scudetto speciale di un Sandro Tonali formidabile nel girone di ritorno e dello stantuffo Theo Hernandez, più grintoso dei suoi rottweiler. È soprattutto lo scudetto di Mike Maignan e Rafael Leao, i due simboli, il primo arrivato in punta di piedi ma con i guantoni pronti a parare la luna, il secondo cresciuto in modo esponenziale, un fattore vincente e un obiettivo per Paris Saint Germain e Manchester United. È bello pensare oggi che a costruire quelle certezze, a depurare un ragazzo talentuoso dall’«indolenza da fado» sia stato nonno Zlatan Ibrahimovic. A dicembre, mentre già il Milan correva, Ibra disse: «Qui tutti lavorano duro. Solo a Leao ho detto a un centimetro dalla faccia: se ti svegli diventi un campione». Messaggio ricevuto.I secondi tempi si svolgono in un limbo statistico, ormai c’è chi è felice e chi si consola. Nel Sassuolo morde solo Domenico Berardi (primo obiettivo italiano del Milan per la Champions), mentre a San Siro il solito Ivan Perisic segna il gol dell’onore (suo ottavo) e Joaquin Correa trova la doppietta. Del Milan si è detto molto; resta solo il boato d’amore che i milanisti riservano a Ibra quando - come i reduci della battaglia del Piave - torna per un quarto d’ora a mostrare le medaglie. Al fischio finale, ai due Paoli, Scaroni e Maldini, arrivano due brindisi speciali: magnum Aneri con lo scudetto etichettato, spedite da Berlusconi e Galliani per celebrare la resurrezione. Per quest’ultima Inter vale invece l’eterno motto di Arrigo Sacchi quando perdeva: «Ci hanno condannato i risultati, non il gioco». Come dire che nel leibnitziano migliore dei mondi possibili avrebbero vinto i perfetti schermi pensati da Simone Inzaghi. Ma sulla terra, nell’imperfetta realtà hobbesiana, qualche volta è andata «in vacca» e i fatti amari hanno avuto la meglio sulle idee. In ogni caso il club nerazzurro ha alzato due trofei (Coppa Italia, Supercoppa) e nessuno ha nulla da eccepire. Questo ci sembra onesto dire mentre il popolo rossonero celebra sé stesso tornando da Sassuolo. In terra d’Emilia lassù qualcun altro festeggia: l’inventore del Sassuolo Giorgio Squinzi era milanista.