2020-08-04
Secondo «Repubblica» le migrazioni sono colpa dei «populisti tunisini»
Il primo ministro tunisino Elyes Fakhfakh, il ministro della giustizia Thouraya Jeribi Khemiri, il ministro della Difesa Imed Hazgui, il ministro degli interni Hichem Mechichi durante una sessione parlamentare per votare il nuovo governo tunisino a Tunisi (Ansa)
I giovani, delusi dalla rivoluzione, pretendono di avere il diritto di venire in Italia.Parafrasando una geniale battuta di Giulio Andreotti, ai populisti viene attributo veramente di tutto, a parte le guerre puniche. Ma se consideriamo che Cartagine sorgeva nei pressi dell'attuale Tunisi, possiamo dire che Repubblica, se non l'antico conflitto tra Fenici e Romani, ai populisti abbia dato persino la colpa dell'odierna crisi migratoria, che mette in fibrillazione le sponde africana e italiana del Mediterraneo.Ieri, infatti, il quotidiano di Maurizio Molinari proponeva un reportage sulle cause che spingono in particolare i giovani tunisini a imbarcarsi e lasciare la terra natia. Tra la versione di Bella ciao riadattata all'epopea migrante e la pretesa di questi ragazzi di vedersi riconosciuto il diritto d'ingresso nel nostro continente, a un certo punto, Repubblica ha ritenuto d'infilare una riflessione sui «segnali di una crescita di “populismo tunisino" che insabbia la politica e le istituzioni». E ti pareva. Eccolo, quell'elemento destabilizzatore che giustifica la fuga di massa: il problema sono i Matteo Salvini del Maghreb. Quelli che fomentano le rivolte dei manifestanti che «hanno bloccato nel deserto le valvole dei pozzi di petrolio». Quelli che hanno promesso a 60.000 laureati un posto pubblico - e qui, più che il populismo d'oggi, viene in mente il keynesismo della Dc, all'epoca strumento per assicurare la lealtà degli italiani alla democrazia, minacciata da estremismi rossi e neri. Poi c'è quel fumus che fomenta una «mitologia della migrazione», per cui i tunisini sanno di essere clandestini e, nondimeno, considerano dei «traditori» gli uomini della Guardia costiera, che intercettano i barconi e li riportano indietro «per conto dell'Europa ricca». Un'ondata euroscettica degna di Lega e Fratelli d'Italia, da far invidia persino a Nigel Farage o all'olandese Geert Wilders. Sta a vedere che, se dal primo gennaio a ieri sono approdati in Italia - dati del Viminale - 5.806 tunisini, la responsabilità ricade tutta su chi, nel loro Paese, cavalca il qualunquismo con le armi della demagogia. Sul Capitano maghrebino. Eppure, Repubblica pare intuire che la sfiducia che induce la gente a prendere il largo ha a che fare con le promesse infrante della rivoluzione dei gelsomini, una delle tante primavere arabe del 2011, che portò alla cacciata di Ben Ali. Gli alti livelli di disoccupazione sono rimasti, il Covid è destinato ad aggravare i fondamentali economici e il sistema politico è tutt'altro che stabile, come dimostrano la recente caduta dell'ex premier Elyes Fakhfak e il frettoloso incarico conferito al ministro dell'Interno tecnico, Hichem Mechichi. Forse è quella mitologia della democratizzazione in Medio Oriente, altrettanto populista ma legittima, giacché gradita alla sinistra, a Parigi e alla Washington dell'era di Barack Obama, ad aver sfilacciato il tessuto sociale tunisino, convincendo le energie più fresche e vitali che fosse meglio prendere cappelli di paglia e cagnolini e penetrare le molli barriere dell'Europa. Un'Europa matrigna, che però fu solerte nell'abbattere i dazi per favorire l'olio tunisino.D'altra parte, in una ricerca svolta poco dopo il termine della rivoluzione dei gelsomini, persino l'Organizzazione internazionale per le migrazioni ammetteva che «il processo di cambiamento politico» era concepito «più come opportunità di accesso a una mobilità sempre desiderata e mai permessa», che «come occasione di effettivo cambiamento» del Paese. In sostanza, i tunisini cercavano una scusa per andarsene. E noi, abboccando alla favoletta della folgorazione democratica, gliel'abbiamo fornita.
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