2019-06-01
Se essere trans non è una patologia lo Stato non paghi la triptorelina
L’Organizzazione mondiale della sanità accoglie le richieste delle associazioni Lgbt e toglie i disturbi dell’identità sessuale dall’elenco delle malattie mentali. Ma allora perché finanziare le cure ormonali?Nel giugno scorso lo avevano annunciato, ora è ufficiale: l’Organizzazione mondiale della sanità ha deciso di depatologizzare la transessualità. Nel nuovo manuale diagnostico internazionale (Icd) - che gli Stati saranno tenuti a rispettare a partire dal 2022 - la «non conformità di genere» viene esclusa dal novero dei «disordini mentali». «L’incongruenza di genere è stata rimossa dalla categoria dei disordini mentali per essere inserita in un nuovo capitolo delle “condizioni di salute sessuale”», dice l’Oms. «È ormai chiaro che non si tratti di una malattia mentale e classificarla come tale può causare una enorme stigmatizzazione per le persone transgender». Gli attivisti Lgbt, ovviamente, sono al settimo cielo. Secondo Graeme Reid, responsabile di Human Rights Watch per i diritti arcobaleno, «la rimozione da parte dell’Oms del “disordine dell’identità di genere” dal suo manuale diagnostico avrà un effetto liberatore sulle persone transgender in tutto il mondo. Adesso i governi riformino rapidamente le leggi e i sistemi sanitari nazionali che richiedono questa diagnosi ormai ufficialmente superata». Già: non contenti della vittoria, gli attivisti hanno subito avanzato altre rivendicazioni. L’associazione britannica Stonewall, ad esempio, chiede che diventi più semplice cambiare sesso sui documenti ufficiali. Insomma, il sentiero è tracciato: il cambio di sesso va «normalizzato», velocizzato e agevolato. Qui, però, sorgono alcuni problemi. Secondo l’Oms, dicevamo, «l’incongruenza di genere» non è più una patologia. Anche secondo il Dsm – il fondamentale manuale sui disturbi mentali elaborato dall’associazione degli psichiatri americani – il «disordine dell’identità di genere» non è da considerarsi un disturbo mentale, così come la «disforia di genere» non è una vera e propria malattia. Ecco, alla luce di tutto ciò, per quale motivo gli Stati dovrebbero continuare a pagare gli interventi di transizione o le cure ormonali? Se essere trans non è una malattia, perché il cambiamento di sesso dovrebbe essere a carico della sanità pubblica? Può sembrare una questione di lana caprina, ma è fondamentale. E lo sanno anche gli attivisti Lgbt. Non a caso, Human Rights Watch ha subito precisato che «se il processo di transizione di una persona richiede interventi medici, tali servizi devono essere disponibili e accessibili». In buona sostanza, vogliono che la transessualità sia definitivamente sdoganata. Ma, allo stesso tempo, pretendono che goda di uno status particolare e che venga finanziata dallo Stato. Nel 2014, tanto per fare un esempio, l’avvocato veneto Alessandra Gracis (che da anni si batte per i diritti dei trans e ha a sua volta cambiato sesso) fu chiarissimo: «Si tratta di una vera e propria patologia cioè il “disturbo dell’identità di genere”». Perché questo è il punto: sull’esistenza della «patologia» si basa la copertura sanitaria. Attualmente, infatti, l’intervento per cambiare genere è totalmente a carico dello Stato anche in Italia (il costo si aggira sui 20-30.000 euro). Non solo: chi si opera all’estero può chiedere il rimborso alla propria Asl di riferimento. Ma se la «patologia» viene meno, beh, tutto cambia. Il problema, però, non riguarda soltanto i soldi. Il fatto è che qui ci si sta incamminando su un terreno molto pericoloso. Intendiamoci: nessuno sostiene che i transessuali dovrebbero essere trattati come appestati e sottoposti a chissà quali pratiche. Nessuno, inoltre, mette in dubbio che una persona con disforia o incongruenza di genere possa soffrire. Proprio per questo sarebbe necessaria estrema cautela. In Paesi come il Regno Unito e il Canada i casi di minorenni intenzionati a cambiare sesso sono aumentati in modo spaventoso, e spesso accade che essi vengano indirizzati verso la transizione con estrema superficialità. L’intervento di cambio di sesso, nella gran parte dei casi, non è utile a risolvere problemi che sono psicologici e psichiatrici. Anzi può peggiorarli. Nei mesi scorsi, le autorità italiane hanno deciso di liberalizzare la triptorelina, il farmaco che blocca la pubertà ai minori e apre la strada alla transizione. Il medicinale, d’ora in poi, verrà somministrato a carico dello Stato, e già questo è un clamoroso sdoganamento. I cambiamenti introdotti dall’Oms sono un altro tassello. Significa che si sta abbassando la guardia e che, d’ora in poi, molti più ragazzini potrebbero essere spinti verso un percorso doloroso e senza ritorno. Sarebbe giusto che chi presenta disforia o incongruenza di genere venisse seguito con attenzione da persone esperte e ricevesse tutto il supporto possibile. Ma è chiaro che ormai la linea prevalente è un’altra: normalizzare, liberalizzare Allora non resta che un modo per fermare la deriva: quello burocratico. La transessualità non è una patologia? Bene. Da oggi basta pagare la triptorelina. Allen Frances, uno dei più autorevoli studiosi al mondo, ha scritto il primo comandamento della psichiatria: «Non curare chi è normale». E se uno non ha patologie, significa che è «normale». Dunque non ha bisogno di cure. Né di bloccanti della pubertà.