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2021-03-03
Scuole chiuse non solo in zona rossa. Visite vietate anche per la Pasqua
Patrizio Bianchi (Ansa)
Arriva il primo dpcm dell'era Draghi, all'insegna della discontinuità nella coerenza. Rispetto ai provvedimenti varati dall'esecutivo giallorosso, la discontinuità è nel metodo: le misure contenute nel dpcm, che andrà in vigore il prossimo 6 marzo e resterà valido fino al 6 aprile, sono state comunicate con ben quattro giorni di anticipo rispetto a quanto accadeva nell'era Conte. Niente più spasmodiche attese notturne per capire cosa sarebbe accaduto la mattina dopo: gli italiani hanno il tempo di adeguarsi alle regole, e in particolare alcune categorie produttive, ad esempio i ristoratori, hanno la possibilità di «mirare» gli approvvigionamenti di merce per non restare all'ultimo momento con i frigoriferi pieni e i locali vuoti. La coerenza, invece, sta nella priorità assoluta alla lotta alle pandemia, e nel conseguente giro di vite sulle scuole, che resteranno chiuse e operative con la didattica a distanza per ogni ordine e grado in tutte le zone rosse, che siano Regioni, aree metropolitane, Comuni. Studenti a casa anche nelle Regioni gialle o arancioni che per almeno una settimana consecutiva facciano registrare più di 250 contagiati ogni 100.000 abitanti, o nelle aree in cui le giunte regionali abbiano adottato misure più stringenti per via della gravità delle varianti. In questo caso, saranno i presidenti di Regione a ordinare le chiusure. Resta garantita la possibilità di svolgere attività in presenza per gli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali.
Cambia anche la scenografia e la strategia della comunicazione delle misure anticovid ai cittadini: basta comizi a reti unificate del premier. Mario Draghi a differenza del suo predecessore lascia che siamo i ministri della salute, Roberto Speranza, e degli Affari regionali, Mariastella Gelmini, a illustrare con sobrietà e sintesi i contenuti del provvedimento, insieme al presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e al presidente del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli. I quattro sono stati protagonisti in mattinata dell'incontro tra governo ed Enti locali, insieme ad altri componenti dell'esecutivo: i ministri dell'Istruzione, Patrizio Bianchi; dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti; della Cultura, Dario Franceschini; dell'Agricoltura, Stefano Patuanelli; della Famiglia, Elena Bonetti. Al vertice hanno preso parte anche il coordinatore del Comitato tecnico scientifico, Agostino Miozzo; il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini; il presidente dell'Upi, Michele de Pascale, e il presidente dell'Anci, Antonio Decaro. Tenere aperte le scuole era una delle priorità che il premier Mario Draghi aveva indicato nelle prime ore da premier. Tra il dire e il fare, però, c'è di mezzo il Covid, e anche il presidente del Consiglio alla fine, accogliendo le indicazioni del Cts, ha dovuto fare i conti con una realtà fatta di contagi che aumentano, varianti che spaventano, ricoveri che crescono, senza contare il tempo perso dal governo precedente, tra banchi a rotelle, annunci rimasti sulla carta, ritardi e continui cambi di rotta. Per venire incontro alle esigenze dei genitori che lavorano e devono al tempo stesso accudire i bambini rimasti a casa, il governo ha stanziato risorse superiori ai 200 milioni di euro per i congedi parentali.
Buone notizie per il mondo della cultura: dal 27 marzo nelle zone gialle riapriranno anche nei giorni festivi i musei; sempre dal 27 marzo, nelle zone gialle si prevede la possibilità di riaprire teatri e cinema, con posti a sedere preassegnati, nel rispetto delle norme di distanziamento. La capienza non potrà superare il 25% di quella massima, fino a 400 spettatori all'aperto e 200 al chiuso per ogni sala. Restano chiusi palestre, piscine e impianti sciistici. Nelle zone rosse, saranno chiusi i servizi alla persona come parrucchieri, barbieri e centri estetici; in tutte le zone è eliminato il divieto di asporto dopo le ore 18 per gli esercizi di commercio al dettaglio di bevande da non consumarsi sul posto. Confermato, fino al 27 marzo, il divieto già in vigore di spostarsi tra Regioni o province autonome diverse, con l'eccezione degli spostamenti dovuti a motivi di lavoro, salute o necessità: il fatto che non si sia prolungato fino al 6 aprile è il segnale della volontà di Draghi di aspettare l'evoluzione della curva di contagio prima di «blindare» definitivamente gli spostamenti anche a Pasqua, che cade il 4 aprile. Restano tuttavia in vigore le limitazioni anche nei giorni di festa, con il divieto perciò di visitare i parenti. Nelle zone bianche, si prevede la cessazione delle misure restrittive previste per la zona gialla, pur continuando ad applicarsi le misure anti-contagio generali (come, per esempio, l'obbligo di indossare la mascherina e quello di mantenere le distanze interpersonali) e i protocolli di settore. Intanto, la provincia di Ancona va in zona rossa dalle 8 di oggi, 3 marzo, alle 24 del 5 marzo; Bologna e la sua provincia saranno zona rossa da domani, 4 marzo, fino al 21 marzo, così come Modena. I provvedimenti sono stati firmati dai presidenti delle Marche, Francesco Acquaroli, e dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini.
Draghi metta fine al rito dei dpcm
Un passo avanti e uno indietro. Due giorni fa ha cacciato il commissario all'emergenza, Domenico Arcuri, e per questo merita l'incondizionato plauso del Paese. Ieri, però, Mario Draghi ha varato il suo primo dpcm, un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, che per contrastare l'emergenza dei contagi ha imposto una nuova, sconfortante stretta alla scuola. Draghi, insomma, ha deciso d'insistere nell'abitudine istituzionalmente scorretta che era stata inaugurata il 23 febbraio 2020 dal suo predecessore Giuseppe Conte, oggi neoleader grillino.
Eppure, da un anno a questa parte, molti costituzionalisti hanno criticato severamente l'abuso dei dpcm, soprattutto quelli che l'ex premier ha sparato a raffica nel primo lockdown per limitare alcune libertà fondamentali dei cittadini: gli spostamenti, l'istruzione, la partecipazione a riti religiosi... Il dpcm, infatti, non è soggetto ad alcun controllo democratico. Il suo testo viene scritto in totale autonomia dal presidente del Consiglio, senza approvazione da parte dei ministri, e con la sua firma diventa subito efficace. Non ha bisogno della ratifica del Parlamento, come invece accade ai decreti legge, che entro 60 giorni devono essere convertiti da Camera e Senato. Né occorre la firma del presidente della Repubblica, come avviene per ogni altro atto legislativo. Tanto che due presidenti emeriti della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick e Antonio Baldassarre, hanno censurato i dpcm per il loro «arbitrio autoritario».
Qualche tribunale l'ha anche scritto nero su bianco: in dicembre, a Roma, la sesta sezione civile ha stabilito che i dpcm di Conte sull'emergenza sanitaria siano «censurabili», «illegittimi» e addirittura «incostituzionali». Del resto, prima dell'emergenza Covid e dello snaturamento operato dall'avvocato di Volturara Appula, i dpcm venivano utilizzati al massimo per questioni tecniche e marginali, ad esempio per stabilire i criteri per le nomine dirigenziali di un ente pubblico. Ma nell'ultimo anno l'abuso che è stato fatto con i dpcm è stato così insistente che a un certo punto nelle critiche è stato coinvolto lo stesso capo dello Stato, Sergio Mattarella, che troppo a lungo ha silenziosamente tollerato i «decretini» di Conte.
Per tutto questo, è strano che Draghi ieri abbia voluto replicare lo sbaglio del suo predecessore. Eppure, pochi giorni dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, gli aveva pubblicamente suggerito «discontinuità» sui dpcm emergenziali, invitandolo a «mandarli in soffitta»: infinitamente più corretto, aveva detto Cassese a fine febbraio, sarebbe stato «varare decreti legge oppure ordinanze». Come lui, altri importanti costituzionalisti, tra i quali Giovanni Guzzetta, s'erano appellati a Draghi negli ultimi giorni perché chiudesse con i dpcm: «Non possono essere nemmeno sottoposti al vaglio della Corte costituzionale, né a un referendum», aveva ricordato Guzzetta.
Ieri sera, invece, il nuovo presidente del Consiglio ha ignorato gli avvertimenti e deluso tutti. L'unica consolazione è che non ha voluto presentare il nuovo testo in diretta notturna, come faceva Conte sotto l'enfatica regia del fidato Rocco Casalino, così incline a vellicare il solipsismo mediatico del premier, ma ha lasciato l'incarico a Mariastella Gelmini e a Roberto Speranza, ministri per gli Affari regionali e della Salute. Che dire? Speriamo davvero sia l'ultima volta.
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Il nuovo decreto sarà valido da sabato, per un mese: coinvolti asili ed elementari nelle aree a rischio alto e in quelle con più di 250 casi ogni 100.000 abitanti. Ancona in lockdown, da domani pure Bologna e Modena.Il premier si è affidato allo strumento abusato da Giuseppe Conte per limitare le libertà senza il vaglio del Parlamento. Un errore, anche se ci ha risparmiato la diretta alla Rocco Casalino.Lo speciale contiene due articoli.Arriva il primo dpcm dell'era Draghi, all'insegna della discontinuità nella coerenza. Rispetto ai provvedimenti varati dall'esecutivo giallorosso, la discontinuità è nel metodo: le misure contenute nel dpcm, che andrà in vigore il prossimo 6 marzo e resterà valido fino al 6 aprile, sono state comunicate con ben quattro giorni di anticipo rispetto a quanto accadeva nell'era Conte. Niente più spasmodiche attese notturne per capire cosa sarebbe accaduto la mattina dopo: gli italiani hanno il tempo di adeguarsi alle regole, e in particolare alcune categorie produttive, ad esempio i ristoratori, hanno la possibilità di «mirare» gli approvvigionamenti di merce per non restare all'ultimo momento con i frigoriferi pieni e i locali vuoti. La coerenza, invece, sta nella priorità assoluta alla lotta alle pandemia, e nel conseguente giro di vite sulle scuole, che resteranno chiuse e operative con la didattica a distanza per ogni ordine e grado in tutte le zone rosse, che siano Regioni, aree metropolitane, Comuni. Studenti a casa anche nelle Regioni gialle o arancioni che per almeno una settimana consecutiva facciano registrare più di 250 contagiati ogni 100.000 abitanti, o nelle aree in cui le giunte regionali abbiano adottato misure più stringenti per via della gravità delle varianti. In questo caso, saranno i presidenti di Regione a ordinare le chiusure. Resta garantita la possibilità di svolgere attività in presenza per gli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali.Cambia anche la scenografia e la strategia della comunicazione delle misure anticovid ai cittadini: basta comizi a reti unificate del premier. Mario Draghi a differenza del suo predecessore lascia che siamo i ministri della salute, Roberto Speranza, e degli Affari regionali, Mariastella Gelmini, a illustrare con sobrietà e sintesi i contenuti del provvedimento, insieme al presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e al presidente del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli. I quattro sono stati protagonisti in mattinata dell'incontro tra governo ed Enti locali, insieme ad altri componenti dell'esecutivo: i ministri dell'Istruzione, Patrizio Bianchi; dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti; della Cultura, Dario Franceschini; dell'Agricoltura, Stefano Patuanelli; della Famiglia, Elena Bonetti. Al vertice hanno preso parte anche il coordinatore del Comitato tecnico scientifico, Agostino Miozzo; il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini; il presidente dell'Upi, Michele de Pascale, e il presidente dell'Anci, Antonio Decaro. Tenere aperte le scuole era una delle priorità che il premier Mario Draghi aveva indicato nelle prime ore da premier. Tra il dire e il fare, però, c'è di mezzo il Covid, e anche il presidente del Consiglio alla fine, accogliendo le indicazioni del Cts, ha dovuto fare i conti con una realtà fatta di contagi che aumentano, varianti che spaventano, ricoveri che crescono, senza contare il tempo perso dal governo precedente, tra banchi a rotelle, annunci rimasti sulla carta, ritardi e continui cambi di rotta. Per venire incontro alle esigenze dei genitori che lavorano e devono al tempo stesso accudire i bambini rimasti a casa, il governo ha stanziato risorse superiori ai 200 milioni di euro per i congedi parentali.Buone notizie per il mondo della cultura: dal 27 marzo nelle zone gialle riapriranno anche nei giorni festivi i musei; sempre dal 27 marzo, nelle zone gialle si prevede la possibilità di riaprire teatri e cinema, con posti a sedere preassegnati, nel rispetto delle norme di distanziamento. La capienza non potrà superare il 25% di quella massima, fino a 400 spettatori all'aperto e 200 al chiuso per ogni sala. Restano chiusi palestre, piscine e impianti sciistici. Nelle zone rosse, saranno chiusi i servizi alla persona come parrucchieri, barbieri e centri estetici; in tutte le zone è eliminato il divieto di asporto dopo le ore 18 per gli esercizi di commercio al dettaglio di bevande da non consumarsi sul posto. Confermato, fino al 27 marzo, il divieto già in vigore di spostarsi tra Regioni o province autonome diverse, con l'eccezione degli spostamenti dovuti a motivi di lavoro, salute o necessità: il fatto che non si sia prolungato fino al 6 aprile è il segnale della volontà di Draghi di aspettare l'evoluzione della curva di contagio prima di «blindare» definitivamente gli spostamenti anche a Pasqua, che cade il 4 aprile. Restano tuttavia in vigore le limitazioni anche nei giorni di festa, con il divieto perciò di visitare i parenti. Nelle zone bianche, si prevede la cessazione delle misure restrittive previste per la zona gialla, pur continuando ad applicarsi le misure anti-contagio generali (come, per esempio, l'obbligo di indossare la mascherina e quello di mantenere le distanze interpersonali) e i protocolli di settore. Intanto, la provincia di Ancona va in zona rossa dalle 8 di oggi, 3 marzo, alle 24 del 5 marzo; Bologna e la sua provincia saranno zona rossa da domani, 4 marzo, fino al 21 marzo, così come Modena. I provvedimenti sono stati firmati dai presidenti delle Marche, Francesco Acquaroli, e dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/scuole-chiuse-non-solo-in-zona-rossa-visite-vietate-anche-per-la-pasqua-2650863113.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="draghi-metta-fine-al-rito-dei-dpcm" data-post-id="2650863113" data-published-at="1614716143" data-use-pagination="False"> Draghi metta fine al rito dei dpcm Un passo avanti e uno indietro. Due giorni fa ha cacciato il commissario all'emergenza, Domenico Arcuri, e per questo merita l'incondizionato plauso del Paese. Ieri, però, Mario Draghi ha varato il suo primo dpcm, un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, che per contrastare l'emergenza dei contagi ha imposto una nuova, sconfortante stretta alla scuola. Draghi, insomma, ha deciso d'insistere nell'abitudine istituzionalmente scorretta che era stata inaugurata il 23 febbraio 2020 dal suo predecessore Giuseppe Conte, oggi neoleader grillino. Eppure, da un anno a questa parte, molti costituzionalisti hanno criticato severamente l'abuso dei dpcm, soprattutto quelli che l'ex premier ha sparato a raffica nel primo lockdown per limitare alcune libertà fondamentali dei cittadini: gli spostamenti, l'istruzione, la partecipazione a riti religiosi... Il dpcm, infatti, non è soggetto ad alcun controllo democratico. Il suo testo viene scritto in totale autonomia dal presidente del Consiglio, senza approvazione da parte dei ministri, e con la sua firma diventa subito efficace. Non ha bisogno della ratifica del Parlamento, come invece accade ai decreti legge, che entro 60 giorni devono essere convertiti da Camera e Senato. Né occorre la firma del presidente della Repubblica, come avviene per ogni altro atto legislativo. Tanto che due presidenti emeriti della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick e Antonio Baldassarre, hanno censurato i dpcm per il loro «arbitrio autoritario». Qualche tribunale l'ha anche scritto nero su bianco: in dicembre, a Roma, la sesta sezione civile ha stabilito che i dpcm di Conte sull'emergenza sanitaria siano «censurabili», «illegittimi» e addirittura «incostituzionali». Del resto, prima dell'emergenza Covid e dello snaturamento operato dall'avvocato di Volturara Appula, i dpcm venivano utilizzati al massimo per questioni tecniche e marginali, ad esempio per stabilire i criteri per le nomine dirigenziali di un ente pubblico. Ma nell'ultimo anno l'abuso che è stato fatto con i dpcm è stato così insistente che a un certo punto nelle critiche è stato coinvolto lo stesso capo dello Stato, Sergio Mattarella, che troppo a lungo ha silenziosamente tollerato i «decretini» di Conte. Per tutto questo, è strano che Draghi ieri abbia voluto replicare lo sbaglio del suo predecessore. Eppure, pochi giorni dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, gli aveva pubblicamente suggerito «discontinuità» sui dpcm emergenziali, invitandolo a «mandarli in soffitta»: infinitamente più corretto, aveva detto Cassese a fine febbraio, sarebbe stato «varare decreti legge oppure ordinanze». Come lui, altri importanti costituzionalisti, tra i quali Giovanni Guzzetta, s'erano appellati a Draghi negli ultimi giorni perché chiudesse con i dpcm: «Non possono essere nemmeno sottoposti al vaglio della Corte costituzionale, né a un referendum», aveva ricordato Guzzetta. Ieri sera, invece, il nuovo presidente del Consiglio ha ignorato gli avvertimenti e deluso tutti. L'unica consolazione è che non ha voluto presentare il nuovo testo in diretta notturna, come faceva Conte sotto l'enfatica regia del fidato Rocco Casalino, così incline a vellicare il solipsismo mediatico del premier, ma ha lasciato l'incarico a Mariastella Gelmini e a Roberto Speranza, ministri per gli Affari regionali e della Salute. Che dire? Speriamo davvero sia l'ultima volta.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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