2020-05-13
Scelto per non fare ombra a Giuseppi Arcuri è il suo perfetto vice disastro
Voluto dal premier perché temeva di essere oscurato da un commissario forte, l'ad di Invitalia non l'ha deluso. Impalpabile e inconcludente, aveva un solo compito: procurarci le mascherine. Ma ha fallito su tutta la linea.«Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?». Ogni volta che sfoglio i giornali mi viene in mente la canzone di Lucio Battisti. Perché ogni volta che si parla di mascherine introvabili o di reagenti per i tamponi ormai spariti dai banchi di laboratorio o di un'app che non si applica a nessuno, alla fine spunta sempre un nome, quello del commissario all'emergenza Covid, il manager da salotto Domenico Arcuri. Chi abbia scelto questo gagà sopravvissuto alle Partecipazioni statali affidandogli il compito di salvare le vite degli italiani non è noto. Si dice che sia stato lo stesso Giuseppe Conte, un altro gagà, anzi, come lo ha definito un collega direttore, che qui non citerò per non rovinargli la carriera, un babà ripieno di vanità. Ma se è stato il presidente del Consiglio, lo ha fatto di certo perché Arcuri dava garanzie di non fargli ombra. Con lui alla guida della task force anti coronavirus non c'era pericolo che il Re Sòla di Palazzo Chigi venisse oscurato. E così in effetti è stato, perché grazie all'azione dell'amministratore delegato di Invitalia, perfino uno come l'avvocato del popolo rischia di brillare sebbene sia riuscito a spegnere le speranze del Paese.Già, più passano i giorni e più l'entusiasmo che da sempre caratterizza gli italiani, i quali dopo ogni catastrofe sono pronti a rimboccarsi le maniche, si va affievolendo. Le mascherine non ci sono, i soldi nemmeno e pure le decisioni per ripartire tardano ad arrivare, proprio come i decreti. Ma se a Conte, per l'incertezza con cui si muove - un passo avanti e due indietro, ma nel dubbio anche uno di lato - può andare il titolo di capo disastro, ad Arcuri va certamente quello di vice disastro. Dove c'è lui, e purtroppo lui c'è da metà marzo, cioè da quando si è capito che quella patata di Angelo Borrelli è un tubero che di epidemie non ci capisce un tubo (infatti non voleva indossare la mascherina chirurgica forse convinto di essere super Pippo alla riscossa), il pasticcio è assicurato. Appena arrivato con il marchio del top manager risolvi guai, fama che non si sa come si sia guadagnata, dato che i guai occupazionali nel Mezzogiorno di cui avrebbe dovuto occuparsi non sono mai stati risolti, Domenico Arcuri ha dimostrato di avere una qualità, ovvero di essere così arrogante da risultare antipatico a tutti. «Faccio io», deve aver detto a chi si preoccupava di recuperare i dispositivi di protezione da dare a medici e infermieri. Infatti il supercommissario ha fatto. Risultato, per giorni il personale sanitario è rimasto senza mascherine, occhiali e così via. La prova dell'efficienza del boiardo di Stato sopravvissuto a tutte le stagioni la si è avuta quando ha annunciato di aver raggiunto intese con farmacisti, tabaccai e supermercati per inondare l'Italia di mascherine. Ci sono aziende pronte a sfornarne decine di milioni e altre capaci di importarne a centinaia, ovviamente sempre di milioni. «Dal giorno tale ce ne saranno per tutti e per di più a prezzo calmierato», assicurò tronfio. Peccato che il giorno tale indicato da Arcuri slittasse ogni volta un po' più in là. Così si è arrivati al fatidico lunedì 4 maggio, una data che gli italiani si erano scritti sul calendario sostituendola a quella della Liberazione. «Il fazzoletto di stoffa noto per essere usato dai chirurghi e dentisti costerà 50 centesimi e stiamo lavorando per togliere l'Iva», ha annunciato il giorno prima il capo disastro su suggerimento del vice disastro. E gli italiani, appena scarcerati, si sono presentati in farmacia e in tabaccheria a reclamare le mascherine a prezzo popolare. Ma dei dispositivi di protezione non c'era neppure l'ombra, al massimo si potevano acquistare le mascherine professionali a 9 euro. Una débâcle che ha indotto il supercommissario a tacere per qualche giorno, ma poi, essendo in astinenza da conferenza, il nostro è tornato a parlare, non trovando di meglio da dire che attaccare i farmacisti, rei di nascondere sotto il banco le mascherine. Dimenticavo: quando qualcuno lo avvertì che fissando il prezzo a 0,50 produttori e rivenditori non sarebbero rientrati nei costi e dunque la produzione e la distribuzione si sarebbe arrestata, il vice disastro attaccò a testa bassa, bollando i critici come «liberisti da salotto che sputano sentenze con il cocktail in mano». Non so che liberisti frequenti Arcuri, ma sta di fatto che anche col cocktail in mano hanno dimostrato di essere più sobri di lui. Soprattutto di avere un maggior senso della realtà di quanto ne abbia l'amministratore delegato di Invitalia, che anche ieri ha parlato di 50 milioni di pezzi, una scorta che se fosse in magazzino basterebbe per un giorno. In collaborazione con il ministro dell'innovazione Paola Pisano, altra perla del governo, Arcuri s'è poi occupato dell'app per tracciare i malati di Covid. Lasciamo perdere la scelta del sistema offerto, contornata da mille dubbi, ma il fatto più eclatante è che, se va bene, l'applicazione sarà pronta a fine maggio, cioè quando probabilmente non ce ne sarà più bisogno. Sempre naturalmente che la data non slitti come è slittata la fornitura delle mascherine. L'ultimo esempio di efficienza, il super commissario lo ha dato a proposito dei tamponi. Dopo averli eseguiti ovviamente bisogna verificarne il risultato e per questo sono necessari i reagenti che però, nonostante le sollecitazioni degli esperti, scarseggiano. E anche qui rispunta il nome del vice disastro, il super boss di Invitalia, l'uomo che per non fare ombra a Conte dovrebbe sparire il prima possibile, perché altrimenti, di fallimento in fallimento, finirà prima o poi per annebbiarne la brillantezza. E qui torniamo a Battisti. «Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?». A differenza della protagonista della canzone di Lucio, però, speriamo che lasciarlo sia possibile. E presto.