2021-09-11
«Scampata all’aereo mi son rifatta una vita senza lo psicologo»
Martina Gasperotti (Jose Jimenez/Primera Hora/Getty Images)
La sopravvissuta all'impatto: «Ero nella torre Nord, cercavo un'ascensore, poi il boato. La mia prima reazione fu imprecare».Il ricordo, innanzitutto. Nella memoria di qualunque essere umano nato nel secondo millennio, il ricordo dell'11 settembre 2001 è scolpito con accuratezza sopraffina. I contorni cesellati meticolosamente. Come a dover fornire un alibi nella strage, qualsiasi abitante della Terra è in grado di affermare senza ombra di dubbio dove si trovasse quel giorno, cosa stesse facendo e con chi.Martina Gasperotti, allora ventottenne, vagava da sola nella hall della Torre nord alla ricerca di uno dei 50 ascensori del World trade center, quando il volo numero 11 dell'American airlines si schiantò contro l'edificio alle 8.46. Oltreoceano da soli tre giorni, la quarantottenne igienista dentale si trovava a New York per studiare l'inglese alla Peace university (un nome che col senno del poi sa di beffa), situata nella zona Sud di Manhattan, a pochi isolati dal complesso finanziario. «Doveva essere il mio primo giorno di scuola. Il mattino precedente c'era stato il test d'ingresso, avevo ricevuto il badge e un armadietto. Le lezioni sarebbero cominciate alle 9. Non avevo particolari programmi per la giornata, eccetto uno: cenare al Windows on the world, il ristorante panoramico in cima al grattacielo. Essendo in anticipo, decisi di fare un sopralluogo».Era un soleggiato martedì di fine estate. Si era alzata di buon umore quella mattina?«Io mi alzo sempre di buon umore. Quel giorno non faceva eccezione. Mi ero svegliata alle 5 per via del jet-lag, con una gran voglia di vedere, di imparare, di prendere confidenza con la città. È vero, il tempo era splendido. È buffo, tutti ricordano questa cosa. Anche perché nei giorni precedenti aveva piovuto e il cielo non era terso come quella mattina».Era la sua prima volta a New York?«Sì. L'idea era di rientrare in Italia tra Natale e Capodanno. Dicevano tutti che quel periodo dell'anno a New York era una cosa meravigliosa».Quale fu l'impatto con la città?«Di un qualcosa assolutamente fuori dai nostri standard. Soprattutto dai miei, vivendo in una piccola città come Reggio Emilia dove non c'è la metropolitana, non si odono certi suoni, non ci sono grattacieli enormi. Mi sembrava di essere atterrata su Marte».I teorici del sesto senso le domanderebbero se, mentre si avviava verso quegli ascensori, un qualche malessere la sfiorò.«Nel modo più assoluto. Lì dentro non avrei potuto sentirmi più protetta».Mi racconti cosa accadde.«Saranno state all'incirca le 8.30 quando entrai nella Torre Nord. Parlavo al telefono con mia madre che era in Italia e stava stirando. Le spiegavo quanto fossi rimasta colpita dalla grandezza delle due torri, dalle dimensioni della base: girarci attorno era come girare un quartiere. Dopo alcuni minuti sentii in maniera distinta un forte rumore sordo. Il terreno mi tremò sotto i piedi».Cosa pensò?«Che fosse scoppiato un tubo dell'acqua, qualcosa che avesse a che fare con l'impianto di condizionamento. Lì per lì continuai tranquillamente la telefonata, e come me si comportò la maggior parte delle persone. Non ci fu alcun fuggi fuggi. Ricordo che mia madre mi disse: “Stai lontana dal fumo perché lì non c'è ossigeno". Finita la frase, cadde la linea. Mi incamminai verso gli ascensori per salire su. Questione di pochi minuti e un flusso di gente cominciò a recarsi verso le uscite. Guardai in quella direzione e vidi persone che correvano col naso all'insù. Capii che era successo qualcosa».Si spaventò?«No, non sono un tipo pauroso. Fui attirata all'esterno dalla curiosità, la prima immagine fu quella dei fogli che volavano nel cielo. Poi il fumo. Spostandomi, vidi uno squarcio sulla facciata della torre. Sentivo la gente attorno a me che ripeteva “plane", ma non capivo: io non vedevo alcun velivolo, nessuna coda. Pensai a un'esplosione di gas. Fino a che non arrivò il secondo aereo. Prima ancora di avvistarlo sentii il rumore, perché era basso e rimbombava sull'asfalto. Si infilò nella Torre Sud e vidi il fuoco. Il calore generato dallo scoppio ci raggiunse a terra».Quale fu la sua reazione?«La verità? Mi uscì un'imprecazione. Restammo tutti a guardare per aria, non scappammo. Ciò che stava accadendo era vicino, ma allo stesso tempo era lassù, lontano da noi. Non ci stava toccando. Nel mio inglese stentato, chiesi se ci fosse un pericolo di crolli. Mi guardarono come se fossi matta».Purtroppo non lo era. Cosa ricorda del primo crollo?«Praticamente nulla. Come vidi la sommità della torre che veniva giù, prima ancora di sentire il boato cominciai a correre a più non posso senza voltarmi. Quello fu il primo momento in cui provai davvero paura. La paura del topo in gabbia. Temevo di non avere scampo, di essere travolta. Ebbi la lucidità di imboccare una strada diversa dalla Broadway, che tutti stavano risalendo in fretta e furia. Ero preoccupata che il panico potesse generare incidenti. Deviai e mi ritrovai a scappare da sola verso il fiume Hudson. Passai sotto un cavalcavia col cuore in gola; pensavo a un bombardamento aereo e mi dicevo che se la bomba avesse fatto crollare il ponte mi avrebbe sotterrata».Riesce a descrivere l'atmosfera di quei momenti?«Un'atmosfera di unione totale tra le persone, di qualsiasi etnia fossero. Un clima di aiuto, di sostegno reciproco. Un sentimento meraviglioso che superava il panico. Eravamo insieme nella tragedia. Nulla unisce di più del tentativo di sopravvivere a un evento del genere».Quando apprese che si trattava di aerei di linea dirottati?«La sera, quando rientrai all'ostello di Brooklyn dove soggiornavo. Era pieno di ragazzi provenienti da tutto il mondo incollati al televisore. Si mobilitarono per aiutarmi, ero visibilmente sporca, coperta di polvere».A quel punto cosa le passò per la mente?«“E adesso che faccio?". Manhattan in quei giorni era in stato di guerra. C'erano militari e controlli ovunque. Al consolato mi dissero: “New York in questo momento è il posto più sicuro al mondo, ma se lei fosse mia figlia le direi di tornare a casa". Seguii il consiglio e il 17 settembre, un giorno dopo la riapertura dello spazio aereo, presi il primo volo per l'Italia».Cosa le rimane di quel giorno?«I fogli che brillano nel cielo azzurro. Il secondo aereo che si infila nella Torre Sud come una lama bollente nel burro, i corpi che cadono, la mancanza di fiato nella mia corsa. E il silenzio spettrale mentre camminiamo verso nord lungo l'Hudson. Quasi in raccoglimento, come se stessimo pregando».Per quante notti perse il sonno?«Le direi un mese, ma potrebbe anche essere di più».Come si supera un'esperienza simile?«Non si supera, si va avanti e basta. Superarla vorrebbe dire dimenticare, e io non voglio dimenticare. È la cosa più importante che mi sia mai capitata. Quel giorno ho vinto al Superenalotto».Si affidò a un terapeuta?«Inizialmente sì, ma interruppi quasi subito. Sentivo che dovevo elaborare la cosa da sola. Lo feci rivedendo e rivivendo in continuazione le immagini. Stavo davanti alla tv come una calamita; guardavo e mi visualizzavo là ricordando dov'ero, come mi muovevo, cosa sentivo. L'unica cura è il tempo, soltanto il tempo».Che effetto le fa rievocare quelle immagini?«Parlare di dolore è niente. Mi metto nella testa della gente che cadeva giù, dei parenti, cerco di immaginarne i pensieri. Hanno vissuto la morte per svariati minuti. Tutto stava per finire e loro lo sapevano».C'è qualcosa che la legherà per sempre a quelle persone?«Io sono prima di tutto italiana, e ne vado fiera. Poi sono americana».Le capita spesso di pensare al fatto che è ancora qui per una manciata di secondi?«Ogni giorno. Non era il mio momento. Dovevo sopravvivere».Lei è credente?«Sì. Credo che esista un disegno superiore, e che l'essere umano rovini tutto. Lo stesso essere umano che oggi ci tiene sotto scacco coi lockdown e il green pass. È solo una questione di soldi e di potere».Il ventesimo anniversario degli attentati al World trade center coincide tristemente col ritorno dell'Afghanistan nelle mani dei talebani.«Non c'erano più interessi laggiù. Ora l'interesse è un altro».Si riferisce alla pandemia?«Già. Sono molto incazzata per ciò che ci stanno facendo».Cos'ha lasciato per sempre a New York, quel giorno?«L'idea che avevo del futuro. Ho perso l'occasione di vivere la mia vita come avrei voluto in quel momento. Imparare bene l'inglese era il mio sogno, chissà cosa sarebbe successo se avessi iniziato quel corso…».E cosa ha guadagnato?«Un'esistenza nuova. Ho ricominciato da zero con un'altra testa. Non dico che non si debbano fare programmi, ma oggi vivo molto di più il presente. Non rimando mai a domani».In un cortometraggio realizzato da Sean Penn sull'11 settembre, una piantina posta sul davanzale di un appartamento abitato da un anziano vedovo riprendeva vigore dopo il crollo della Torre Sud. Il grattacielo le aveva sempre rubato il sole facendola avvizzire. Si sente un po' come quella piantina?«Forse sì, forse in me è fiorito qualcosa che già c'era, ma che non era così forte. L'amore per la vita».Cosa è cambiato?«Mi sono licenziata da dipendente dell'Usl, sono diventata una mamma e una libera professionista. Oggi mi guardo allo specchio e tutto ciò che faccio mi piace perché lo faccio al meglio, per me e per gli altri. Non certo per diventare la più ricca del cimitero».È più tornata a New York?«Nel 2002 avevano finito di ripulire l'area dalle macerie e c'era una voragine enorme. Un buco impressionante che uno pensava: “Non è possibile che qui ci fossero le Torri gemelle". Ero con mia mamma, anche lei rimase a bocca aperta».
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 settembre 2025. Il deputato di Azione Ettore Rosato ci parla della dine del bipolarismo italiano e del destino del centrosinistra. Per lui, «il leader è Conte, non la Schlein».