2025-01-16
Sberla al Pd, l’Europa asfalta il salario minimo
Elly Schlein (Getty Images)
La sinistra raccoglie firme per la paga fissa (che non funziona) appellandosi all’Ue, ma la Corte di giustizia rigetta la direttiva che pretendeva di superare le norme degli Stati: Pd e M5s bocciati in economia e in diritto.A quasi due anni di distanza, la Corte di giustizia dell’Unione europea asfalta il salario minimo che Bruxelles aveva deciso di imporre agli Stati tramite una bella direttiva. Che a onor del vero già dal primo giorno sembrava zeppa di buchi. L’altro ieri il giudice si è pronunciato, dopo essere stato sollecitato da Danimarca e Svezia, e ha chiesto all’Ue l’annullamento del documento per un motivo tanto semplice quanto enorme: il tema delle retribuzioni non compete a Bruxelles e viola il trattato sulle funzioni dell’Unione. L’avvocato generale entra anche nel dettaglio e mette in fila tre distinte violazioni. Che però si riassumono in un solo concetto. Non si può confondere le modalità di fissazione dei salari con la relativa armonizzazione dei livelli retributivi. Ovviamente il parere non si traduce automaticamente nello stop della direttiva, ma è un assit per tutti quei Paesi che non volevano adeguarsi a un diktat dannoso per le proprie economie. Calcolo dell’epoca era un onere aggiuntivo per le società italiane di almeno 6,7 miliardi. Vedremo che succederà a fine anno quando terminerà l’iter della decisione della Corte e Ursula Von der Leyen si troverà sul tavolo la patata bollente. Nel frattempo la sberla è arrivata secca al Pd e alla Cgil. Che in questi ultimi due anni si sono mossi per portare avanti il salario minimo. Raccolta firme, pressioni in Parlamento. E tutto secondo il motto: «Ce lo chiede l’Europa». È chiaro che almeno lo storytelling dovrà essere cambiato. E serviranno a poco i tour semi elettorali portati avanti da Maurizio Landini da un lato ed Enrico Letta dall’altro. Entrambi però impegnati a dimostrare la possibilità di una struttura europea unica in grado di gestire il mercato, la concorrenza e la rappresentanza sindacali. Eh no. Non è possibile. Perchè sono competenze dei singoli Stati cui non si può sottrare la specifica sovranità. È altrettanto chiaro che si tratta di una questione meramente politica, perché nel merito e nel concreto la sinistra non ha tentato mai di tutelare i salari. Basti pensare che a soli due mesi dall’approvazione della direttiva del 2022 celebrata dal Pd con il sostegno dei 5 stelle uscì un tremendo dato Istat. Ben il 9% dei contratti firmati era di durata inferiore alle 48 ore. Solo l’1% erano a tempo indeterminato. Eppure il Pd e le sigle non fecero una piega. Anzi importanti tavoli furono disertati per motivi politici. Per giunta condivisi con l’allora ministro alla cassa integrazione Andrea Orlando. Il quale pensava di legare per legge rappresentanza e trattativa per evitare che le aziende e i lavoratori facessero da sé. Obiettivo era legare le mani anche alle Pmi. Tanto se poi il mercato le avesse ritenute non più flessibili o concorrenziali ci sarebbe stato sempre il reddito di cittadinanza a tappare i buchi e gli errori della politica di sinistra. Grazie al cielo l’attendismo e l’incapacità di controllare l’Aula ha fatto slittare le decisioni sul salario minimo. Infatti quegli aumenti di stipendio che si vedono ora sono legati alle nuove normative che consentono di detassare i bonus e le voci extra contratto. Una strada tanto buona quanto avversata nei fatti dalla Cgil. Lo vediamo con i fatti più recenti, legati al no agli aumenti da 172 euro lordi al mese alla categoria dei sanitari e a quella della Pa. nel primo caso l’adeguamento è già saltato. Nel secondo la possibilità che salti la prossima settimana è elevatissima. In tutto parliamo di circa un milioni di lavoratori. La realtà è questa. Gli altri sono slogan. Gli stessi che hanno contraddistinto le politiche del lavoro di Pd, Ds, Ulivo e nascosto risultati un po’ divergenti. Piccolo excursus storico.È stato il governo di Romano Prodi nel 1997 ad aprire al concetto di flessibilità, rompendo la rigidità dei contratti. Il «pacchetto Treu» approvato dalle Camere introdusse il Co.co.co (poi divenuto tale), il part time, la proroga e le figure chiamate atipiche. Bene, diranno in molti, la flessibilità serviva per il nuovo millennio e serve ancora. Quella legge, rilanciata però da Silvio Berlusconi, creò le agenzie interinali, peccato che oggi i servizi forniti dagli intermediari si fermino al 3% dell’offerta di lavoro. Per il semplice motivo che la sinistra non ha voluto correlare la flessibilità con la differenziazione degli stipendi. Così si è arrivati al 2011, quando Elsa Fornero, ministro del Lavoro di Mario Monti, mise mano alla flessibilità in uscita. In quel caso venne eliminato l’obbligo di causale per i contratti a tempo. Poi è stato il tempo di Matteo Renzi e dell’introduzione del Jobs act. A firmare la riforma l’ex numero uno delle Coop diventato ministro, Giuliano Poletti. Va detto che il Jobs act ha perso pezzi sentenza dopo sentenza e che, a nostro avviso, aveva anche degli spunti interessanti, ma certo non è servito a frenare la precarietà, la frammentazione e nemmeno la perdita di potere d’acquisto. Insomma una tradizione. Così mentre Cgil e Giuseppe Conte insistono con la raccolta firme, persino economisti come Tito Boeri e Roberto Perotti hanno spiegato che la norma del salario minimo finirebbe per abbassare le retribuzioni dove già esiste una media più alta (almeno 2 euro in più rispetto alla soglia dei 9 euro proposti dal Pd) e per mettere fuori mercato intere categorie. Migliaia di colf e badanti con le nuove norme finirebbero per costare cifre insostenibili e quindi per essere lasciate a casa. D’altronde solo tre giorni fa Landini, a un congresso a Milano Marittima, ha detto che «Il sindacato non deve limitarsi a discutere di orari e salari, ma deve affrontare anche i contenuti del lavoro, le modalità con cui viene svolto e il senso stesso dell’attività professionale». Su orari e salari per ora ben poco. Filosofia tanta. Da domani senza lo slogan dell’Europa.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco
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