Gli arresti di settembre in Turchia — 161 sospetti legati allo Stato Islamico fermati in quasi metà delle province del Paese — hanno riacceso i riflettori su una minaccia che molti, troppo in fretta, avevano creduto ridimensionata. Lo ha annunciato il ministro degli Interni Ali Yerlikaya, sottolineando come gli indagati fornissero appoggio economico e logistico alla rete jihadista. La stretta di Ankara coincide con l’allarme delle Nazioni Unite: l’Isis sta vivendo una nuova fase, con attività crescenti in Africa occidentale, nel Sahel, ma anche nelle sue roccaforti originarie di Siria e Iraq. Secondo le stime, solo negli ultimi tre mesi oltre 200 persone sono state uccise da cellule jihadiste, in gran parte nell’Africa subsahariana.
Nato più di dieci anni fa da una scissione con al-Qaeda, lo Stato Islamico si è distinto fin dall’inizio per l’uso moderno dei social media e la capacità di trasformare il jihadismo in un progetto statuale. Tra il 2014 e il 2017 il Califfato controllava un terzo di Siria e Iraq, colpendo con attentati anche in Europa, da Parigi a Bruxelles, da Berlino a Londra. La caduta di Mosul e Raqqa, la morte di Abu Bakr al-Baghdadi e la resa a Baghouz nel 2019 ne avevano segnato la disfatta territoriale.
Ucciso Omar Abdul Qader uno leader dell’Isis
Eppure, l’offensiva internazionale non ha cancellato del tutto la minaccia. L’esercito statunitense ha annunciato di recente che le forze del Comando centrale (CENTCOM) hanno condotto un raid in Siria, eliminando Omar Abdul Qader, descritto come «un membro dell’ISIS che cercava attivamente di attaccare gli Stati Uniti». Secondo il CENTCOM, la sua morte compromette la capacità del gruppo di pianificare operazioni contro obiettivi americani e alleati. Commentando l’operazione, l’ammiraglio Brad Cooper ha ribadito che Washington «non cederà nella caccia ai terroristi» e ha lodato i suoi uomini per l’efficacia della missione. Negli ultimi anni, le operazioni mirate hanno eliminato numerosi leader e finanziatori del gruppo, ma le cellule locali continuano a resistere, soprattutto nelle aree desertiche tra Siria e Iraq, mantenendo un potenziale destabilizzante nonostante le perdite.
Il problema è che l’Isis ha smesso da tempo di essere solo una milizia da contrastare sul terreno: oggi è una sigla, un marchio, una narrativa che trova nuova linfa nelle periferie globali e nelle zone grigie degli Stati fragili. Non più solo moschee o circoli clandestini: il motore principale della propaganda è online. Dalle nasheed ai video violenti, i contenuti digitali sostituiscono il reclutamento diretto, rendendo più difficile la prevenzione. A Smirne, in Turchia, un ragazzo di 16 anni ha ucciso due poliziotti dopo essersi immerso in materiale jihadista sul web. La promessa è sempre la stessa: appartenenza, riscatto e gloria eterna, indirizzata a giovani emarginati e vulnerabili.
In Africa le azioni piu’ cruente
Se in Medio Oriente lo Stato Islamico è ridotto ad azioni di guerriglia, l’Africa è ormai il suo laboratorio. In Nigeria, i gruppi affiliati hanno attaccato fedeli in preghiera e interi villaggi. In Mozambico, la filiale locale ha intensificato le incursioni a Cabo Delgado: ad agosto oltre 60 civili sono stati massacrati e centinaia di abitazioni bruciate. I jihadisti hanno istituito posti di blocco per sequestrare viaggiatori e imporre tasse ai cristiani. Dal 2017, più di mezzo milione di persone sono fuggite dal nord del Mozambico. All’inizio di agosto, nella Repubblica Democratica del Congo, i miliziani affiliati allo Stato Islamico hanno massacrato almeno 60 persone durante un funerale nel Nord Kivu.Questi scenari mostrano come l’Isis si sia trasformato in una rete diffusa e resiliente, capace di sfruttare la fragilità degli Stati africani e l’assenza di controllo delle periferie. Mentre i governi centrali si dimostrano incapaci di proteggere i propri cittadini, i jihadisti si presentano come alternativa di potere, imponendo tasse, regole e tribunali improvvisati. Una logica di proto-Stato che ricalca, in scala ridotta, l’esperienza del Califfato in Medio Oriente.
L’Europa in allerta
Il pericolo non si ferma in Africa. I servizi di intelligence europei avvertono che la propaganda online potrebbe risvegliare cellule dormienti o spingere singoli radicalizzati a colpire, come negli anni delle stragi di Parigi e Bruxelles. Il rischio è duplice: da un lato i foreign fighters di ritorno, difficili da monitorare; dall’altro giovani europei radicalizzati sul web. Le rotte migratorie dall’Africa, inoltre, potrebbero essere sfruttate come canali di infiltrazione. La riduzione della presenza occidentale e l’intervento russo, salutato dai regimi golpisti locali come garanzia di stabilità, hanno peggiorato la situazione. I mercenari inviati da Mosca non hanno sconfitto i jihadisti: al contrario, le violenze sono aumentate e intere aree restano fuori controllo. L’instabilità del Sahel rischia così di trasformarsi in una miccia pronta a incendiare l’intero continente africano e, con esso, a minacciare direttamente l’Europa. In questo contesto, il Marocco appare l’unico Paese in grado di proporre un modello credibile di contenimento. Rabat dispone di un apparato di intelligence riconosciuto a livello internazionale, di una diplomazia religiosa che diffonde un islam moderato e di infrastrutture economiche come Tanger Med che la proiettano come potenza regionale. Non a caso, diversi analisti sottolineano che solo una strategia basata sul sostegno al modello marocchino può impedire che il Sahel esploda, aprendo la strada a una destabilizzazione dagli effetti globali.