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2022-07-16
Salvini e Berlusconi defenestrano i 5 stelle
Silvio Berlusconi e Matteo Salvini (Ansa)
Il centrodestra di governo ha nelle sue mani il futuro della legislatura: la crisi innescata dal M5s, infatti, consegna a Lega e Forza Italia la possibilità di decidere se far votare gli italiani a ottobre, oppure a giugno, alla scadenza naturale del parlamento. Giorgia Meloni, da parte sua, continua a invocare il voto anticipato. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi sono in continuo contatto, ieri mattina si sono sentiti e hanno diramato un comunicato congiunto: «Lega e Forza Italia», recita la nota, «prendono atto della grave crisi politica innescata in modo irresponsabile dai 5 stelle che, come ha sottolineato il presidente Mario Draghi, ha fatto venir meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo. Dopo quello che è successo, il centrodestra di governo vuole chiarezza e prende atto che non è più possibile contare sul Movimento 5 stelle in questa fase così drammatica. Noi siamo alternativi a chi non vota miliardi di aiuti alle famiglie», aggiungono Forza Italia e il Carroccio, «a chi si oppone a un termovalorizzatore fondamentale per ripulire Roma e tutelare così milioni di cittadini, a chi difende gli abusi e gli sprechi del reddito di cittadinanza, a chi sa dire solo dei no». La mossa è astuta: visto che Draghi ha più volte ripetuto «mai un governo senza il M5s», mettere nero su bianco «mai più al governo col M5s» significa intrappolare il presidente del Consiglio. Detto questo, la nota di Berlusconi e Salvini ha anche l’obiettivo di non prestare il fianco a chi tenta di far ricadere su Fi e Lega l’eventuale crisi con il voto a ottobre, tenendo anche buoni i «governisti» dei rispettivi partiti. Se Draghi accettasse di andare avanti senza il M5s, del resto, Berlusconi e Salvini avrebbero saldamente in pugno la golden share della maggioranza, e potrebbero spingere il premier a inserire nel programma del governo-bis gli argomenti che stanno a cuore al centrodestra: pace fiscale, profonda revisione se non eliminazione del reddito di cittadinanza, riduzione delle tasse. Al di là delle dichiarazioni, c’è chi sinceramente auspica che Draghi vada avanti senza il M5s: «Intrappolare Draghi? Ma no», dice alla Verità una fonte molto autorevole del centrodestra di governo, «noi vogliamo che resti, perché votare ora è da pazzi. Ma con il M5s, che cambia idea ogni 5 minuti e fa follie, non ci stiamo più. Del resto», aggiunge il nostro interlocutore, «non riesco a immaginare Draghi che pianta in asso l’Italia così, senza ascoltare neanche Mattarella. Capisco che chi non si è mai occupato di politica viva con sofferenza certe dinamiche, ma non si manda allo sbando un paese per una crisi di nervi. La Meloni? Gioca una partita sua». Visione opposta da parte di big della Lega: «Non lo immagino Draghi che si rimangia tutto», sottolinea la nostra fonte, «e accetta di andare avanti senza il M5s. Certo, sarà sottoposto a mille pressioni, ma è andato troppo oltre per fare dietrofront. I governisti nel nostro partito? Possono fare poco, i gruppi parlamentari sono tutti con Salvini, le elezioni in autunno sono lo scenario più probabile».
Sembra gettare la spugna anche il superdraghiano Giancarlo Giorgetti: «Mi sembra una partita molto complicata da sbloccare», commenta il ministro leghista, «anche per l’imminente scadenza elettorale. Quel richiamo al senso di responsabilità mi sembra che qualcuno l’abbia ben capito. La Lega l’ha dimostrato in questo anno e mezzo. Quello che è accaduto non doveva accadere», aggiunge Giorgetti, «ho parlato di tempi supplementari ma mi sembra che le squadre siano un po’ stanche. Un gol si può sempre segnare ma solo se si riesce a costruire un governo che sappia dire dei sì davanti a scelte impegnative. Se dobbiamo mettere in piedi un governo bloccato da veti reciproci francamente anche no, non serve a nessuno. Penso che nel tempo che abbiamo da qui a mercoledì nessuno si tiri indietro ma con chi dice no non perdiamo altro tempo». «La vedo dura», confida alla Verità un esponente del governo, «sono andati tutti troppo oltre».
A proposito di ministri, Mariastella Gelmini, a quanto ci risulta, è sul punto di lasciare Forza Italia e aderire ad Azione di Carlo Calenda, magari in tandem con Giovanni Toti.
Intanto, la Meloni è scatenata: «Olanda, Germania, Portogallo e Francia», scrive su Facebook la leader di Fratelli d’Italia, «sono solo alcune delle nazioni dove nell’ultimo anno, tra pandemia e guerra, si è regolarmente espressa la volontà popolare attraverso il voto. Non veniteci a parlare di responsabilità la vostra è solo paura del giudizio degli italiani. Elezioni subito». «Il tempo è poco», aggiunge col Corriere.it, «se si dovesse votare in ottobre, agli alleati di centrodestra chiederei vertici da svolgere in sedi istituzionali e dove si prendessero decisioni concrete, quindi più operativi e meno conviviali». L’ennesima stoccata a Berlusconi, che ha la quasi trentennale consuetudine di ospitare i vertici nelle sue residenze. Per la Meloni la regola che, in caso di vittoria del centrodestra, assegna la premiership al leader del primo partito della coalizione, «deve ovviamente valere anche per Fratelli d’Italia». A microfoni spenti, un esponente importante del partito della Meloni è molto sincero: «Forza Italia voterebbe qualunque governo, pur di stare ancora otto mesi al potere e non vedersi ridotta al minimo la pattuglia parlamentare dopo il voto. Tutti hanno chiaro che il centrodestra può vincere e Draghi non vuole più governare, comprensibilmente: avrebbe contro il primo partito del 2018, il M5s, e il primo partito di oggi, ovvero noi. Altro che unità nazionale».
Caro vita, guerra e legge di bilancio. La coalizione offra una fine ordinata
Cinque giorni - nel labirinto dei palazzi romani - possono essere lunghissimi. E dunque non è il caso di vendere la pelle dell’orso prima del tempo: per quanto la prima giornata, quella di ieri, visto il perdurante psicodramma grillino, abbia avvicinato l’esito più ragionevole e più auspicabile della crisi - e cioè le elezioni -, fino all’ultimo occorre temere manovre di segno contrario, volte a evitare con qualunque scusa o pretesto lo scioglimento delle Camere.
Nella difficoltà di ricomporre una tela ormai sfibrata, ai tessitori del non voto è rimasto ormai un solo argomento: alimentare la paura, presentare le elezioni come un «salto nel buio», descrivere questioni reali (guerra, caro vita, crisi energetica) e temi assai gonfiati (nuove ondate Covid) come minacce rispetto alle quali l’Italia resterebbe nuda ed esposta per due o tre mesi. Ed è evidente che, se Sergio Mattarella terrà fede alla linea (legittima ma criticabilissima, e dagli esiti politici devastanti) che seguì nell’agosto del 2019 dopo la caduta del primo governo di Giuseppe Conte, quando si rifiutò di restituire la parola agli italiani e lasciò vivo un Parlamento già sfibrato e palesemente disarmonico rispetto ai nuovi orientamenti del corpo elettorale, stavolta si aggrapperà a questo appiglio.
Dunque, a mio avviso, le forze di destra, sia di governo sia di opposizione (e anzi auspicabilmente coordinandosi), non dovrebbero limitarsi a invocare il voto (richiesta sacrosanta) e a rispondere nel modo più prevedibile (per quanto esatto) e cioè attribuendo ai grillini la responsabilità del caos. Invece, per togliere alibi a chi non vuol far votare agli italiani, varrebbe la pena che la destra proponesse quella che chiamerei una «chiusura ordinata della legislatura», assumendo già il tono e la postura propri di uno schieramento che - se tutto andrà per il verso giusto - avrà tra una decina di settimane la responsabilità di governare il paese.
In altre parole, Fdi, Lega e Forza Italia (meglio ancora se tutti e tre insieme) potrebbero assumere pubblicamente una piccola ma decisiva serie di impegni, alcuni immediati (da realizzare nel giro di giorni, e cioè prima dell’auspicato scioglimento delle Camere), altri di periodo più dilatato (coincidente con i tre mesi, da adesso, che precedono l’insediamento del nuovo governo, a seguito del voto), e altri ancora destinati a concretizzarsi dopo l’eventuale successo elettorale.
L’elenco è presto fatto. Si tratta di autorizzare, prima che il governo guidato da Mario Draghi non ci sia più (quindi in una settimana), il varo di un ultimo decreto-legge volto a mitigare gli effetti del caro vita (in modo che nessuno possa dire che lo scioglimento delle Camere abbia impedito l’adozione di un provvedimento del genere); si tratta - ancora - di negoziare con il Pd una cornice bipartisan, di serio ancoraggio atlantista, sul conflitto russo-ucraino (tenendo l’orientamento dell’Italia sul tema il più possibile estraneo alle inevitabili risse della campagna elettorale); e si tratta infine di mostrare che la coalizione che si prepara a vincere, pur senza sacrificare nulla del suo programma (auspicabilmente di netta alternativa all’esistente), si dichiara attenta e disponibile all’ascolto delle esigenze di ogni settore e forza sociale in vista della futura legge di bilancio.
Fare queste cose sarebbe saggio di per sé. E contribuirebbe, tatticamente, a disarmare il partito del no alle urne: rassicurando chi - nell’elettorato - può ancora essere spaventato, e dando l’idea di una destra pronta a farsi carico del governo del paese.
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I due leader chiudono ad accordi con i grillini: «Non ci si può contare». Senza di loro, un nuovo esecutivo penderebbe più a destra. Persino Giancarlo Giorgetti, però, vede il voto anticipato. In Fdi sospetti sugli azzurri: «Pur di tirare avanti, direbbero sì a qualsiasi soluzione».Caro vita, guerra e legge di bilancio. La coalizione offra una fine ordinata. Gli alleati adottino una postura rassicurante per facilitare il percorso verso le urne.Lo speciale comprende due articoli.Il centrodestra di governo ha nelle sue mani il futuro della legislatura: la crisi innescata dal M5s, infatti, consegna a Lega e Forza Italia la possibilità di decidere se far votare gli italiani a ottobre, oppure a giugno, alla scadenza naturale del parlamento. Giorgia Meloni, da parte sua, continua a invocare il voto anticipato. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi sono in continuo contatto, ieri mattina si sono sentiti e hanno diramato un comunicato congiunto: «Lega e Forza Italia», recita la nota, «prendono atto della grave crisi politica innescata in modo irresponsabile dai 5 stelle che, come ha sottolineato il presidente Mario Draghi, ha fatto venir meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo. Dopo quello che è successo, il centrodestra di governo vuole chiarezza e prende atto che non è più possibile contare sul Movimento 5 stelle in questa fase così drammatica. Noi siamo alternativi a chi non vota miliardi di aiuti alle famiglie», aggiungono Forza Italia e il Carroccio, «a chi si oppone a un termovalorizzatore fondamentale per ripulire Roma e tutelare così milioni di cittadini, a chi difende gli abusi e gli sprechi del reddito di cittadinanza, a chi sa dire solo dei no». La mossa è astuta: visto che Draghi ha più volte ripetuto «mai un governo senza il M5s», mettere nero su bianco «mai più al governo col M5s» significa intrappolare il presidente del Consiglio. Detto questo, la nota di Berlusconi e Salvini ha anche l’obiettivo di non prestare il fianco a chi tenta di far ricadere su Fi e Lega l’eventuale crisi con il voto a ottobre, tenendo anche buoni i «governisti» dei rispettivi partiti. Se Draghi accettasse di andare avanti senza il M5s, del resto, Berlusconi e Salvini avrebbero saldamente in pugno la golden share della maggioranza, e potrebbero spingere il premier a inserire nel programma del governo-bis gli argomenti che stanno a cuore al centrodestra: pace fiscale, profonda revisione se non eliminazione del reddito di cittadinanza, riduzione delle tasse. Al di là delle dichiarazioni, c’è chi sinceramente auspica che Draghi vada avanti senza il M5s: «Intrappolare Draghi? Ma no», dice alla Verità una fonte molto autorevole del centrodestra di governo, «noi vogliamo che resti, perché votare ora è da pazzi. Ma con il M5s, che cambia idea ogni 5 minuti e fa follie, non ci stiamo più. Del resto», aggiunge il nostro interlocutore, «non riesco a immaginare Draghi che pianta in asso l’Italia così, senza ascoltare neanche Mattarella. Capisco che chi non si è mai occupato di politica viva con sofferenza certe dinamiche, ma non si manda allo sbando un paese per una crisi di nervi. La Meloni? Gioca una partita sua». Visione opposta da parte di big della Lega: «Non lo immagino Draghi che si rimangia tutto», sottolinea la nostra fonte, «e accetta di andare avanti senza il M5s. Certo, sarà sottoposto a mille pressioni, ma è andato troppo oltre per fare dietrofront. I governisti nel nostro partito? Possono fare poco, i gruppi parlamentari sono tutti con Salvini, le elezioni in autunno sono lo scenario più probabile». Sembra gettare la spugna anche il superdraghiano Giancarlo Giorgetti: «Mi sembra una partita molto complicata da sbloccare», commenta il ministro leghista, «anche per l’imminente scadenza elettorale. Quel richiamo al senso di responsabilità mi sembra che qualcuno l’abbia ben capito. La Lega l’ha dimostrato in questo anno e mezzo. Quello che è accaduto non doveva accadere», aggiunge Giorgetti, «ho parlato di tempi supplementari ma mi sembra che le squadre siano un po’ stanche. Un gol si può sempre segnare ma solo se si riesce a costruire un governo che sappia dire dei sì davanti a scelte impegnative. Se dobbiamo mettere in piedi un governo bloccato da veti reciproci francamente anche no, non serve a nessuno. Penso che nel tempo che abbiamo da qui a mercoledì nessuno si tiri indietro ma con chi dice no non perdiamo altro tempo». «La vedo dura», confida alla Verità un esponente del governo, «sono andati tutti troppo oltre». A proposito di ministri, Mariastella Gelmini, a quanto ci risulta, è sul punto di lasciare Forza Italia e aderire ad Azione di Carlo Calenda, magari in tandem con Giovanni Toti. Intanto, la Meloni è scatenata: «Olanda, Germania, Portogallo e Francia», scrive su Facebook la leader di Fratelli d’Italia, «sono solo alcune delle nazioni dove nell’ultimo anno, tra pandemia e guerra, si è regolarmente espressa la volontà popolare attraverso il voto. Non veniteci a parlare di responsabilità la vostra è solo paura del giudizio degli italiani. Elezioni subito». «Il tempo è poco», aggiunge col Corriere.it, «se si dovesse votare in ottobre, agli alleati di centrodestra chiederei vertici da svolgere in sedi istituzionali e dove si prendessero decisioni concrete, quindi più operativi e meno conviviali». L’ennesima stoccata a Berlusconi, che ha la quasi trentennale consuetudine di ospitare i vertici nelle sue residenze. Per la Meloni la regola che, in caso di vittoria del centrodestra, assegna la premiership al leader del primo partito della coalizione, «deve ovviamente valere anche per Fratelli d’Italia». A microfoni spenti, un esponente importante del partito della Meloni è molto sincero: «Forza Italia voterebbe qualunque governo, pur di stare ancora otto mesi al potere e non vedersi ridotta al minimo la pattuglia parlamentare dopo il voto. Tutti hanno chiaro che il centrodestra può vincere e Draghi non vuole più governare, comprensibilmente: avrebbe contro il primo partito del 2018, il M5s, e il primo partito di oggi, ovvero noi. Altro che unità nazionale». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-e-berlusconi-defenestrano-i-5-stelle-2657680987.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="caro-vita-guerra-e-legge-di-bilancio-la-coalizione-offra-una-fine-ordinata" data-post-id="2657680987" data-published-at="1657925425" data-use-pagination="False"> Caro vita, guerra e legge di bilancio. La coalizione offra una fine ordinata Cinque giorni - nel labirinto dei palazzi romani - possono essere lunghissimi. E dunque non è il caso di vendere la pelle dell’orso prima del tempo: per quanto la prima giornata, quella di ieri, visto il perdurante psicodramma grillino, abbia avvicinato l’esito più ragionevole e più auspicabile della crisi - e cioè le elezioni -, fino all’ultimo occorre temere manovre di segno contrario, volte a evitare con qualunque scusa o pretesto lo scioglimento delle Camere. Nella difficoltà di ricomporre una tela ormai sfibrata, ai tessitori del non voto è rimasto ormai un solo argomento: alimentare la paura, presentare le elezioni come un «salto nel buio», descrivere questioni reali (guerra, caro vita, crisi energetica) e temi assai gonfiati (nuove ondate Covid) come minacce rispetto alle quali l’Italia resterebbe nuda ed esposta per due o tre mesi. Ed è evidente che, se Sergio Mattarella terrà fede alla linea (legittima ma criticabilissima, e dagli esiti politici devastanti) che seguì nell’agosto del 2019 dopo la caduta del primo governo di Giuseppe Conte, quando si rifiutò di restituire la parola agli italiani e lasciò vivo un Parlamento già sfibrato e palesemente disarmonico rispetto ai nuovi orientamenti del corpo elettorale, stavolta si aggrapperà a questo appiglio. Dunque, a mio avviso, le forze di destra, sia di governo sia di opposizione (e anzi auspicabilmente coordinandosi), non dovrebbero limitarsi a invocare il voto (richiesta sacrosanta) e a rispondere nel modo più prevedibile (per quanto esatto) e cioè attribuendo ai grillini la responsabilità del caos. Invece, per togliere alibi a chi non vuol far votare agli italiani, varrebbe la pena che la destra proponesse quella che chiamerei una «chiusura ordinata della legislatura», assumendo già il tono e la postura propri di uno schieramento che - se tutto andrà per il verso giusto - avrà tra una decina di settimane la responsabilità di governare il paese. In altre parole, Fdi, Lega e Forza Italia (meglio ancora se tutti e tre insieme) potrebbero assumere pubblicamente una piccola ma decisiva serie di impegni, alcuni immediati (da realizzare nel giro di giorni, e cioè prima dell’auspicato scioglimento delle Camere), altri di periodo più dilatato (coincidente con i tre mesi, da adesso, che precedono l’insediamento del nuovo governo, a seguito del voto), e altri ancora destinati a concretizzarsi dopo l’eventuale successo elettorale. L’elenco è presto fatto. Si tratta di autorizzare, prima che il governo guidato da Mario Draghi non ci sia più (quindi in una settimana), il varo di un ultimo decreto-legge volto a mitigare gli effetti del caro vita (in modo che nessuno possa dire che lo scioglimento delle Camere abbia impedito l’adozione di un provvedimento del genere); si tratta - ancora - di negoziare con il Pd una cornice bipartisan, di serio ancoraggio atlantista, sul conflitto russo-ucraino (tenendo l’orientamento dell’Italia sul tema il più possibile estraneo alle inevitabili risse della campagna elettorale); e si tratta infine di mostrare che la coalizione che si prepara a vincere, pur senza sacrificare nulla del suo programma (auspicabilmente di netta alternativa all’esistente), si dichiara attenta e disponibile all’ascolto delle esigenze di ogni settore e forza sociale in vista della futura legge di bilancio. Fare queste cose sarebbe saggio di per sé. E contribuirebbe, tatticamente, a disarmare il partito del no alle urne: rassicurando chi - nell’elettorato - può ancora essere spaventato, e dando l’idea di una destra pronta a farsi carico del governo del paese.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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