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2019-11-03
Altri 4 miliardi di tasse alle imprese. Agli uomini di Conte 7 milioni in dono
Ansa
Altra giornata di passione per i contribuenti, ormai sottomessi ai rituali sadomaso dei giallorossi: ogni giorno una frustata, una punizione, un'umiliazione. La notizia più grave arriva alla lettura dell'ultimo testo bollinato. All'articolo 30, viene reintrodotta l'Ace, ma si elimina clamorosamente la riduzione dell'Ires, che era stata introdotta su impulso della Lega, a favore delle imprese impegnate a reinvestire gli utili. Il rischio è di circa 4 miliardi in più di tasse sulle aziende da qui al 2025, una botta enorme. Durissimo Massimo Garavaglia, viceministro dell'Economia nel precedente governo: «Già abbiamo un problema enorme di aziende che vanno all'estero in cerca di un regime fiscale più favorevole. E questi solo per fare cassa, aboliscono la norma che faceva scendere l'Ires al 20% in quattro anni proprio per chi reinveste».
Intanto, a dare il senso dello sfregio (uno schiaffo alle imprese e un regalo alla macchina burocratica), il governo si prepara ad aumentare le spese per il personale e i dirigenti della presidenza del Consiglio: complessivamente 7 milioni in più, previsti in un emendamento bollinato al decreto legge sul riordino dei ministeri.
Ma le cattive notizie sono proseguite con la conferma di sugar tax e plastic tax. E poi l'immobiliare: colpito più volte anche quest'anno, nonostante la devastante patrimoniale che già grava sul mattone degli italiani (21 miliardi l'anno), e che ha massacrato sia la liquidità dei proprietari sia il valore degli immobili. Eppure, si continua, come denuncia il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa. La cosiddetta unificazione Imu Tasi si è risolta in una fregatura: «aumenta l'aliquota di base dal 7,6 all'8,6 per mille», spiega Spaziani Testa, in virtù della somma del 7,6 dell'Imu e dell'1 della Tasi, e questo «può avere l'effetto di portare ad aumentare l'aliquota di base quei Comuni che finora non applicavano la Tasi».
L'altra notizia pericolosa della giornata è l'enfasi con cui il governo e i media amici hanno accompagnato l'intenzione di superare i limiti imposti dalla privacy, al fine di combattere l'evasione. Attenzione, perché queste nuove intrusioni erano state indirettamente sollecitate circa tre settimane fa, in un intervento sul Corriere, da Ernesto Maria Ruffini, a suo tempo direttore di nomina renziana dell'Agenzia delle entrate. Rileggiamo cosa aveva scritto: «Alcune delle informazioni delle banche dati - specialmente quelle relative ai rapporti finanziari - non sono facilmente incrociabili con tutti gli altri dati (reddituali, patrimoniali) perché ne andrebbe della nostra privacy. Eppure, anno dopo anno, abbiamo consentito che la nostra vita fosse posta costantemente sotto la lente d'ingrandimento di chicchessia, purché non sia il fisco». Di qui l'appello implicito (altro che fisco amico, slogan caro ai renziani…) a ulteriori forme di sorveglianza: «Forse alcuni di noi hanno qualcosa da nascondere. Ma i più dovrebbero vedere di buon occhio un utilizzo sicuro dei propri dati per non sentirsi soli quando paghiamo le tasse». Così Ruffini, che evidentemente è stato subito preso in parola da post comunisti e grillini.
La realtà è purtroppo ben diversa: il mostro dell'amministrazione finanziaria sa già tutto di noi. Scaricare sulla privacy la colpa del mancato incrocio dei dati nasconde il desiderio di spremere ancora come limoni quelli che già pagano. Senza dire che - per restare solo agli ultimi mesi - stiamo viaggiando verso una dimensione sempre più inquietante di penetrazione dei pubblici poteri nella vita delle persone: agenti sotto copertura, proposta grillina di controllare i consumi dei percettori del reddito di cittadinanza, adesso indebolimento della privacy. I peggiori incubi orwelliani stanno prendendo corpo.
Un'ulteriore cattiva notizia riguarda forfettari e partite Iva: a fronte del mantenimento dell'aliquota del 15% (entro i 65.000 euro di reddito), sembra ormai acclarato il ritorno di tutti i vecchi paletti e delle vecchie cause ostative: limiti di spesa per i dipendenti, no al cumulo con redditi da lavoro dipendente, e così via. Un palese meccanismo di complicazione e scoraggiamento.
L'ultima telenovela è legata alla prosecuzione della rissa sulle auto aziendali: qui, il maldestro spin del governo è da 24 ore quello di valorizzare mediaticamente il fatto che l'aumento di tasse sarebbe stato un pochino contenuto: la tassa verrebbe raddoppiata, anziché triplicata. Come se questo dovesse suscitare l'entusiasmo dei contribuenti. Su tutto ciò, ha suscitato scalpore (e una certa ilarità) la polemica innescata dal viceministro grillino al Mise Stefano Buffagni, con tanto di video girato indossando una magliettina con il logo della Ferrari: «Per me non è abbastanza quanto fatto sulle auto aziendali. In Parlamento lavoreremo per fare meglio», ha fatto sapere Buffagni. Peccato che la madrina della tassa sia stata la sua collega grillina, il viceministro al Mef Laura Castelli.
Pd e M5s compatti contro Renzi: «Basta giochini o si torna alle urne»
Non avendo più nulla da rottamare, dopo aver rottamato sé stesso, Matteo Renzi prova a far fuori Giuseppe Conte e non solo. Renzi si immagina di nuovo al comando di qualcosa di più di un partito al 5%, e approfitta di ogni occasione per bombardare Palazzo Chigi, il Pd, il M5s, sicuro (troppo?) che anche se il governo di Giuseppi cadesse, in Parlamento ne nascerebbe un altro.
L'intervista di ieri al Messaggero va in questa direzione: «Lei ama ripetere», chiede la cronista, «che la legislatura deve andare avanti ma non dice se con o senza Conte premier. Vuole chiarirlo qui?» «Dipende», risponde Renzi, «da come funziona il governo, non da me. Niente di personale, sia chiaro: a me sta a cuore l'Italia, non il futuro dell'avvocato Conte. Conte è stato il premier di una maggioranza che ha azzerato la crescita in Italia: per una serie di circostanze oggi si ritrova premier anche della maggioranza alternativa. La legislatura durerà fino al 2023, sicuramente: siamo una democrazia parlamentare e in Parlamento c'erano, ci sono e ci saranno i numeri per un governo che non ci spinga fuori dall'Europa».
Renzi utilizza le critiche alla manovra per dare l'avviso di sfratto a Giuseppi, e ottiene l'effetto sperato, quello di far innervosire tutti. Dario Franceschini, che del governo giallorosso è ministro, capo delegazione Pd, levatrice e badante, twitta: «Repetita iuvant: il governo Conte è l'ultimo di questa legislatura. Chi lo indebolisce con fibrillazioni, allusioni, retroscena di palazzo fa il gioco della destra. Forse sarebbe ora di smetterla». Identico il concetto espresso dagli altri esponenti dem.
«Se si governa insieme», dice il sottosegretario Simona Malpezzi, «si fa squadra». «Il problema», sottolinea un altro sottosegretario Pd, Alessia Morani, «è che oggi chi vota i provvedimenti in Consiglio dei ministri dopo 12 ore fa lo gnorri e fa partire il fuoco amico. Quanto può durare questo giochino?». «Non capisco come mai», attacca la senatrice Anna Rossomando, «ogni volta si finiscono i vertici di maggioranza con l'accordo, poi, invece, si esce da Palazzo Chigi e iniziano i distinguo e le critiche». «A Renzi», insiste la deputata Debora Serracchiani, «sfugge un piccolo dettaglio del quadro politico: a questo governo non c'è alternativa, se non quella che passa per le urne. Non si illuda di poter tirare la corda fino al punto di rottura senza assumersi tutte le responsabilità». Il deputato Andrea Romano paragona Renzi al senatore di Rifondazione Franco Turigliatto, che nel 2008 fu tra i protagonisti della caduta del governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi: «Che senso ha», dice Romano, «picconare ogni giorno il governo di cui si fa parte? Italia viva partito di lotta e di governo, stile Turigliatto?». «Chiedere di rivedere i fondamentali della manovra», commenta la senatrice di Leu Loredana De Petris, «al solo scopo di ottenere maggiore visibilità, come fa Matteo Renzi, è un esercizio sterile e autolesionistico che non serve davvero a nessuno».
Il M5s, con un post su Facebook, attacca Renzi: «Lo vogliamo dire chiaramente: non esiste futuro per questa legislatura, se qualcuno prova a mettere in discussione il presidente Conte con giochini di Palazzo, immaginando scenari futuri decisamente fantasiosi. Lo stesso vale anche se si continua a indebolire quest'esecutivo attraverso messaggi che fanno male al Paese e che lo mettono continuamente in fibrillazione».
Matteo Salvini mette il dito nella piaga; «L'ipocrisia di Renzi», osserva il leader della Lega, «attacca ogni giorno il governo che ha fatto nascere per conservare la poltrone. Ha la faccia come il retro. Dice: è sbagliata la tassa sulla plastica, è sbagliata la tassa sulle auto aziendali, è sbagliata la tassa sullo zucchero. Amico, sei al governo tu! Pulcinella era più serio di Renzi, Conte, Zingaretti e Di Maio. Onore a Pulcinella», aggiunge Salvini, «onore ad Arlecchino».
Nel pomeriggio arriva la replica del Bullo: «Chi elimina autogol come quello sulle auto aziendali non sta attaccando il governo: sta facendo un favore al governo».
«Tasse alle Pmi: zero miglioramenti»

Le Pmi italiane sono in affanno, penalizzate dalle dimensioni, dalle scelte poco lungimiranti della politica e da alcune abitudini dure a morire: parola di Aurelio Agnusdei, managing director di Grenke locazione, filiale italiana della multinazionale tedesca Grenke ag. Il gruppo è specializzato nei servizi di noleggio di tecnologia It e beni strumentali per aziende e professionisti, e ha tra i suoi clienti principalmente piccole e medie imprese: un posizionamento che rende Grenke locazione un osservatorio privilegiato sullo stato di salute delle Pmi, vera ossatura del tessuto industriale italiano.
Sotto la sua guida la filiale italiana ha conosciuto una crescita importante. In che modo siete riusciti a ottenere questo risultato?
«Di certo ha giovato il fatto che operiamo in un settore in costante crescita, quello del noleggio dei beni strumentali: la crescita prevista nel 2019 è del 13% anno su anno, un risultato analogo a quello del 2018. In questo settore Grenke è leader: deteniamo infatti il 65% dei contratti di noleggio di beni strumentali in Italia in numero, mentre in valore la percentuale scende al 35% perché i nostri contratti non hanno importi troppo alti, visto che ci rivolgiamo in particolare alle Pmi. Quando sono entrato in Grenke, nel 2004, il giro d'affari era pari a 5 milioni di erogato, cioè il valore delle attrezzature che compriamo per noleggiarle; nel 2019 chiuderemo a oltre 600 milioni, attenendoci a un business model molto preciso. Il nostro focus è sulle Pmi, società che hanno tradizionalmente minore facilità di accesso al credito. Per loro noi rappresentiamo un'alternativa alle fonti di credito tradizionali: i nostri clienti, invece di finanziare i propri investimenti chiedendo prestiti, accedono al nostro servizio affiancandolo alle linee di credito tradizionali. Specie negli anni in cui c'è stata la stretta creditizia abbiamo potuto così dare una boccata d'ossigeno alle Pmi. Abbiamo poi investito molto sulla presenza locale: abbiamo 18 sedi sul territorio nazionale, e questo ha fatto sì che potessimo andare incontro alle esigenze dei clienti in maniera mirata».
Quali vantaggi presenta il modello di Grenke per le aziende clienti?
«Innanzitutto ci sono notevoli vantaggi dal punto di vista fiscale, perché i canoni di noleggio sono interamente deducibili. In più, con il noleggio non si impegnano le linee di credito delle aziende clienti, con un effetto positivo sul rating e sul bilancio. I canoni costanti consentono poi di pianificare gli investimenti nel tempo con la logica del “pay per view"».
Chi sono i vostri clienti?
«Noi siamo orizzontali e trasversali, e per questo rappresentiamo un osservatorio privilegiato sul mondo delle Pmi. Tra i nostri clienti troviamo liberi professionisti e privati, fino ad arrivare ad aziende più grandi, fino a 200 dipendenti; sono rappresentati tutti i settori, dall'industria ai servizi al retail con la ristorazione e l'hospitality. La discriminante per noi è più la dimensione dell'azienda che il tipo di attività».
Qual è la sua opinione sullo stato di salute delle Pmi italiane?
«Le Pmi sono un po' in affanno, per varie ragioni. Il primo ostacolo è l'accesso al credito: anche se ora il denaro costa poco le banche lo prestano sempre più facilmente ai grandi che ai piccoli. L'altro problema è appunto la dimensione: se nella definizione di Pmi rientrano in teoria le aziende fino a 200 dipendenti, in Italia le realtà sono spesso molto più piccole, e questo rappresenta un ostacolo in più. La dimensione consente infatti economie di scala e vantaggi competitivi: penso ad esempio al settore automotive, di cui fanno parte numerose piccole realtà, specie nel Nord Italia, che vantano un know how specifico e però soffrono il rapporto di dimensioni con clienti enormi come le grandi case automobilistiche, nei confronti delle quali hanno un potere contrattuale molto basso. C'è poi un fattore legato ai problemi endemici del Paese, in primis la tassazione; e da questo punto di vista le cose non sembrano migliorare. Le Pmi rappresentano la maggior parte del nostro tessuto industriale e per questo è facile che le risorse vengano prese da lì».
Quali sono secondo lei le aree sulle quali una Pmi può lavorare per migliorare l'efficienza del suo business?
«Innanzitutto investire in cultura manageriale: spesso le Pmi sono aziende familiari, il che di per sé è un valore, perché vengono amministrate con la logica del buon padre di famiglia. Per crescere serve però fare investimenti in ricerca e sviluppo e soprattutto serve mettersi in casa manager competenti, che spesso non sono il figlio o il nipote del fondatore. C'è poi bisogno di fare sistema: le Pmi devono creare distretti, aggregarsi tra loro, per essere sempre più forti e competitive a livello internazionale».
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Niente sconti alle imprese sugli utili reinvestiti. La presidenza del Consiglio invece ottiene 7 milioni in più per i dipendenti.Dario Franceschini: «Non ci sarà un altro esecutivo». I grillini: «Così fa male al Paese».Il manager di Grenke locazione, Aurelio Agnusdei: «Anche l'accesso al credito resta un problema».Lo speciale contiene tre articoli.Altra giornata di passione per i contribuenti, ormai sottomessi ai rituali sadomaso dei giallorossi: ogni giorno una frustata, una punizione, un'umiliazione. La notizia più grave arriva alla lettura dell'ultimo testo bollinato. All'articolo 30, viene reintrodotta l'Ace, ma si elimina clamorosamente la riduzione dell'Ires, che era stata introdotta su impulso della Lega, a favore delle imprese impegnate a reinvestire gli utili. Il rischio è di circa 4 miliardi in più di tasse sulle aziende da qui al 2025, una botta enorme. Durissimo Massimo Garavaglia, viceministro dell'Economia nel precedente governo: «Già abbiamo un problema enorme di aziende che vanno all'estero in cerca di un regime fiscale più favorevole. E questi solo per fare cassa, aboliscono la norma che faceva scendere l'Ires al 20% in quattro anni proprio per chi reinveste».Intanto, a dare il senso dello sfregio (uno schiaffo alle imprese e un regalo alla macchina burocratica), il governo si prepara ad aumentare le spese per il personale e i dirigenti della presidenza del Consiglio: complessivamente 7 milioni in più, previsti in un emendamento bollinato al decreto legge sul riordino dei ministeri. Ma le cattive notizie sono proseguite con la conferma di sugar tax e plastic tax. E poi l'immobiliare: colpito più volte anche quest'anno, nonostante la devastante patrimoniale che già grava sul mattone degli italiani (21 miliardi l'anno), e che ha massacrato sia la liquidità dei proprietari sia il valore degli immobili. Eppure, si continua, come denuncia il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa. La cosiddetta unificazione Imu Tasi si è risolta in una fregatura: «aumenta l'aliquota di base dal 7,6 all'8,6 per mille», spiega Spaziani Testa, in virtù della somma del 7,6 dell'Imu e dell'1 della Tasi, e questo «può avere l'effetto di portare ad aumentare l'aliquota di base quei Comuni che finora non applicavano la Tasi». L'altra notizia pericolosa della giornata è l'enfasi con cui il governo e i media amici hanno accompagnato l'intenzione di superare i limiti imposti dalla privacy, al fine di combattere l'evasione. Attenzione, perché queste nuove intrusioni erano state indirettamente sollecitate circa tre settimane fa, in un intervento sul Corriere, da Ernesto Maria Ruffini, a suo tempo direttore di nomina renziana dell'Agenzia delle entrate. Rileggiamo cosa aveva scritto: «Alcune delle informazioni delle banche dati - specialmente quelle relative ai rapporti finanziari - non sono facilmente incrociabili con tutti gli altri dati (reddituali, patrimoniali) perché ne andrebbe della nostra privacy. Eppure, anno dopo anno, abbiamo consentito che la nostra vita fosse posta costantemente sotto la lente d'ingrandimento di chicchessia, purché non sia il fisco». Di qui l'appello implicito (altro che fisco amico, slogan caro ai renziani…) a ulteriori forme di sorveglianza: «Forse alcuni di noi hanno qualcosa da nascondere. Ma i più dovrebbero vedere di buon occhio un utilizzo sicuro dei propri dati per non sentirsi soli quando paghiamo le tasse». Così Ruffini, che evidentemente è stato subito preso in parola da post comunisti e grillini.La realtà è purtroppo ben diversa: il mostro dell'amministrazione finanziaria sa già tutto di noi. Scaricare sulla privacy la colpa del mancato incrocio dei dati nasconde il desiderio di spremere ancora come limoni quelli che già pagano. Senza dire che - per restare solo agli ultimi mesi - stiamo viaggiando verso una dimensione sempre più inquietante di penetrazione dei pubblici poteri nella vita delle persone: agenti sotto copertura, proposta grillina di controllare i consumi dei percettori del reddito di cittadinanza, adesso indebolimento della privacy. I peggiori incubi orwelliani stanno prendendo corpo. Un'ulteriore cattiva notizia riguarda forfettari e partite Iva: a fronte del mantenimento dell'aliquota del 15% (entro i 65.000 euro di reddito), sembra ormai acclarato il ritorno di tutti i vecchi paletti e delle vecchie cause ostative: limiti di spesa per i dipendenti, no al cumulo con redditi da lavoro dipendente, e così via. Un palese meccanismo di complicazione e scoraggiamento. L'ultima telenovela è legata alla prosecuzione della rissa sulle auto aziendali: qui, il maldestro spin del governo è da 24 ore quello di valorizzare mediaticamente il fatto che l'aumento di tasse sarebbe stato un pochino contenuto: la tassa verrebbe raddoppiata, anziché triplicata. Come se questo dovesse suscitare l'entusiasmo dei contribuenti. Su tutto ciò, ha suscitato scalpore (e una certa ilarità) la polemica innescata dal viceministro grillino al Mise Stefano Buffagni, con tanto di video girato indossando una magliettina con il logo della Ferrari: «Per me non è abbastanza quanto fatto sulle auto aziendali. In Parlamento lavoreremo per fare meglio», ha fatto sapere Buffagni. Peccato che la madrina della tassa sia stata la sua collega grillina, il viceministro al Mef Laura Castelli. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salta-il-taglio-ires-stangata-da-4-miliardi-ma-per-palazzo-chigi-spuntano-nuovi-fondi-2641198696.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pd-e-m5s-compatti-contro-renzi-basta-giochini-o-si-torna-alle-urne" data-post-id="2641198696" data-published-at="1767151027" data-use-pagination="False"> Pd e M5s compatti contro Renzi: «Basta giochini o si torna alle urne» Non avendo più nulla da rottamare, dopo aver rottamato sé stesso, Matteo Renzi prova a far fuori Giuseppe Conte e non solo. Renzi si immagina di nuovo al comando di qualcosa di più di un partito al 5%, e approfitta di ogni occasione per bombardare Palazzo Chigi, il Pd, il M5s, sicuro (troppo?) che anche se il governo di Giuseppi cadesse, in Parlamento ne nascerebbe un altro. L'intervista di ieri al Messaggero va in questa direzione: «Lei ama ripetere», chiede la cronista, «che la legislatura deve andare avanti ma non dice se con o senza Conte premier. Vuole chiarirlo qui?» «Dipende», risponde Renzi, «da come funziona il governo, non da me. Niente di personale, sia chiaro: a me sta a cuore l'Italia, non il futuro dell'avvocato Conte. Conte è stato il premier di una maggioranza che ha azzerato la crescita in Italia: per una serie di circostanze oggi si ritrova premier anche della maggioranza alternativa. La legislatura durerà fino al 2023, sicuramente: siamo una democrazia parlamentare e in Parlamento c'erano, ci sono e ci saranno i numeri per un governo che non ci spinga fuori dall'Europa». Renzi utilizza le critiche alla manovra per dare l'avviso di sfratto a Giuseppi, e ottiene l'effetto sperato, quello di far innervosire tutti. Dario Franceschini, che del governo giallorosso è ministro, capo delegazione Pd, levatrice e badante, twitta: «Repetita iuvant: il governo Conte è l'ultimo di questa legislatura. Chi lo indebolisce con fibrillazioni, allusioni, retroscena di palazzo fa il gioco della destra. Forse sarebbe ora di smetterla». Identico il concetto espresso dagli altri esponenti dem. «Se si governa insieme», dice il sottosegretario Simona Malpezzi, «si fa squadra». «Il problema», sottolinea un altro sottosegretario Pd, Alessia Morani, «è che oggi chi vota i provvedimenti in Consiglio dei ministri dopo 12 ore fa lo gnorri e fa partire il fuoco amico. Quanto può durare questo giochino?». «Non capisco come mai», attacca la senatrice Anna Rossomando, «ogni volta si finiscono i vertici di maggioranza con l'accordo, poi, invece, si esce da Palazzo Chigi e iniziano i distinguo e le critiche». «A Renzi», insiste la deputata Debora Serracchiani, «sfugge un piccolo dettaglio del quadro politico: a questo governo non c'è alternativa, se non quella che passa per le urne. Non si illuda di poter tirare la corda fino al punto di rottura senza assumersi tutte le responsabilità». Il deputato Andrea Romano paragona Renzi al senatore di Rifondazione Franco Turigliatto, che nel 2008 fu tra i protagonisti della caduta del governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi: «Che senso ha», dice Romano, «picconare ogni giorno il governo di cui si fa parte? Italia viva partito di lotta e di governo, stile Turigliatto?». «Chiedere di rivedere i fondamentali della manovra», commenta la senatrice di Leu Loredana De Petris, «al solo scopo di ottenere maggiore visibilità, come fa Matteo Renzi, è un esercizio sterile e autolesionistico che non serve davvero a nessuno». Il M5s, con un post su Facebook, attacca Renzi: «Lo vogliamo dire chiaramente: non esiste futuro per questa legislatura, se qualcuno prova a mettere in discussione il presidente Conte con giochini di Palazzo, immaginando scenari futuri decisamente fantasiosi. Lo stesso vale anche se si continua a indebolire quest'esecutivo attraverso messaggi che fanno male al Paese e che lo mettono continuamente in fibrillazione». Matteo Salvini mette il dito nella piaga; «L'ipocrisia di Renzi», osserva il leader della Lega, «attacca ogni giorno il governo che ha fatto nascere per conservare la poltrone. Ha la faccia come il retro. Dice: è sbagliata la tassa sulla plastica, è sbagliata la tassa sulle auto aziendali, è sbagliata la tassa sullo zucchero. Amico, sei al governo tu! Pulcinella era più serio di Renzi, Conte, Zingaretti e Di Maio. Onore a Pulcinella», aggiunge Salvini, «onore ad Arlecchino». Nel pomeriggio arriva la replica del Bullo: «Chi elimina autogol come quello sulle auto aziendali non sta attaccando il governo: sta facendo un favore al governo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/salta-il-taglio-ires-stangata-da-4-miliardi-ma-per-palazzo-chigi-spuntano-nuovi-fondi-2641198696.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="tasse-alle-pmi-zero-miglioramenti" data-post-id="2641198696" data-published-at="1767151027" data-use-pagination="False"> «Tasse alle Pmi: zero miglioramenti» Le Pmi italiane sono in affanno, penalizzate dalle dimensioni, dalle scelte poco lungimiranti della politica e da alcune abitudini dure a morire: parola di Aurelio Agnusdei, managing director di Grenke locazione, filiale italiana della multinazionale tedesca Grenke ag. Il gruppo è specializzato nei servizi di noleggio di tecnologia It e beni strumentali per aziende e professionisti, e ha tra i suoi clienti principalmente piccole e medie imprese: un posizionamento che rende Grenke locazione un osservatorio privilegiato sullo stato di salute delle Pmi, vera ossatura del tessuto industriale italiano. Sotto la sua guida la filiale italiana ha conosciuto una crescita importante. In che modo siete riusciti a ottenere questo risultato? «Di certo ha giovato il fatto che operiamo in un settore in costante crescita, quello del noleggio dei beni strumentali: la crescita prevista nel 2019 è del 13% anno su anno, un risultato analogo a quello del 2018. In questo settore Grenke è leader: deteniamo infatti il 65% dei contratti di noleggio di beni strumentali in Italia in numero, mentre in valore la percentuale scende al 35% perché i nostri contratti non hanno importi troppo alti, visto che ci rivolgiamo in particolare alle Pmi. Quando sono entrato in Grenke, nel 2004, il giro d'affari era pari a 5 milioni di erogato, cioè il valore delle attrezzature che compriamo per noleggiarle; nel 2019 chiuderemo a oltre 600 milioni, attenendoci a un business model molto preciso. Il nostro focus è sulle Pmi, società che hanno tradizionalmente minore facilità di accesso al credito. Per loro noi rappresentiamo un'alternativa alle fonti di credito tradizionali: i nostri clienti, invece di finanziare i propri investimenti chiedendo prestiti, accedono al nostro servizio affiancandolo alle linee di credito tradizionali. Specie negli anni in cui c'è stata la stretta creditizia abbiamo potuto così dare una boccata d'ossigeno alle Pmi. Abbiamo poi investito molto sulla presenza locale: abbiamo 18 sedi sul territorio nazionale, e questo ha fatto sì che potessimo andare incontro alle esigenze dei clienti in maniera mirata». Quali vantaggi presenta il modello di Grenke per le aziende clienti? «Innanzitutto ci sono notevoli vantaggi dal punto di vista fiscale, perché i canoni di noleggio sono interamente deducibili. In più, con il noleggio non si impegnano le linee di credito delle aziende clienti, con un effetto positivo sul rating e sul bilancio. I canoni costanti consentono poi di pianificare gli investimenti nel tempo con la logica del “pay per view"». Chi sono i vostri clienti? «Noi siamo orizzontali e trasversali, e per questo rappresentiamo un osservatorio privilegiato sul mondo delle Pmi. Tra i nostri clienti troviamo liberi professionisti e privati, fino ad arrivare ad aziende più grandi, fino a 200 dipendenti; sono rappresentati tutti i settori, dall'industria ai servizi al retail con la ristorazione e l'hospitality. La discriminante per noi è più la dimensione dell'azienda che il tipo di attività». Qual è la sua opinione sullo stato di salute delle Pmi italiane? «Le Pmi sono un po' in affanno, per varie ragioni. Il primo ostacolo è l'accesso al credito: anche se ora il denaro costa poco le banche lo prestano sempre più facilmente ai grandi che ai piccoli. L'altro problema è appunto la dimensione: se nella definizione di Pmi rientrano in teoria le aziende fino a 200 dipendenti, in Italia le realtà sono spesso molto più piccole, e questo rappresenta un ostacolo in più. La dimensione consente infatti economie di scala e vantaggi competitivi: penso ad esempio al settore automotive, di cui fanno parte numerose piccole realtà, specie nel Nord Italia, che vantano un know how specifico e però soffrono il rapporto di dimensioni con clienti enormi come le grandi case automobilistiche, nei confronti delle quali hanno un potere contrattuale molto basso. C'è poi un fattore legato ai problemi endemici del Paese, in primis la tassazione; e da questo punto di vista le cose non sembrano migliorare. Le Pmi rappresentano la maggior parte del nostro tessuto industriale e per questo è facile che le risorse vengano prese da lì». Quali sono secondo lei le aree sulle quali una Pmi può lavorare per migliorare l'efficienza del suo business? «Innanzitutto investire in cultura manageriale: spesso le Pmi sono aziende familiari, il che di per sé è un valore, perché vengono amministrate con la logica del buon padre di famiglia. Per crescere serve però fare investimenti in ricerca e sviluppo e soprattutto serve mettersi in casa manager competenti, che spesso non sono il figlio o il nipote del fondatore. C'è poi bisogno di fare sistema: le Pmi devono creare distretti, aggregarsi tra loro, per essere sempre più forti e competitive a livello internazionale».
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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iStock
La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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