2022-12-01
Non abortisce: le portano via il bambino
Ragazzina sinti tradita dai servizi sociali. Dopo essere rimasta incinta ed essersi rifiutata di interrompere la gravidanza, la tredicenne non può riconoscere il figlio. A differenza del padre biologico, che è sotto inchiesta per avere abusato di lei.Ha tredici anni, è poco più di una bambina. Italiana, appartiene alla comunità sinti e fino a qualche tempo fa viveva in un Comune nei pressi di Milano assieme alla madre e a un uomo, anche lui sinti, che a noi può sembrare giovane, ma che ai suoi occhi è un adulto, decisamente un adulto. Dalle ricostruzioni dei protagonisti della vicenda atroce che andiamo a raccontare (dopo che il bravo collega Diego Pistacchi l’ha fatta emergere) non è chiaro se questa ragazzina minorenne abitasse in un campo nomadi oppure in un appartamento. Manca qualche dettaglio, ma il quadro complessivo è di completo disagio: una madre totalmente assente, già protagonista di un abbandono di minore in passato, una sorella con problemi. E questa tredicenne costretta a farsi carico delle mancanze dei grandi accanto a lei.La ragazzina, di cui non riportiamo le generalità per ovvie ragioni, non è nemmeno adolescente quando rimane incinta: a 13 anni aspetta un figlio dall’uomo che vive con lei e la madre, e che ha sette anni più. E questo, purtroppo, è soltanto l’inizio del calvario. Una volta scoperta la gravidanza, la piccola viene presa in carico dai servizi sociali e mandata presso una cooperativa che da tanti anni opera a sostegno dei bambini in difficoltà, la Rosa di Gerico di Segrate, guidata da Giovanni Falanga con il dottor Velio Degola quale direttore scientifico.È Falanga, con la voce rotta dall’emozione, a tratteggiare il carattere della ragazzina: «Ho decenni di esperienza, e raramente ho visto una bambina del genere. È forte, direi che è eccezionale. Sin dal primo momento ha affrontato tutto con grande coraggio. A voluto a tutti i costi tenere il bambino che portava in grembo, credo che lo abbia visto anche come una possibilità di riscatto, di emancipazione dal contesto in cui suo malgrado è cresciuta».Già, la nostra piccola si è rifiutata di abortire. Nonostante abbia subito quello che, a norma di legge, è un abuso a tutti gli effetti da parte di un uomo adulto, ha voluto tenere il figlio. Ma di sicuro non si aspettava quel che le è accaduto dopo. E come lei non se lo aspettavano i professionisti che si curano di lei. Per tutti i mesi della gravidanza, la ragazzina è stata seguita dal servizio pubblico, e nessuno fra i vari medici e assistenti sociali che l’hanno incontrata ha mai sollevato obiezioni o problemi. Giorno dopo giorno, questa piccola forte come una roccia ha affrontato le paure e le difficoltà, gli esami ginecologici, il percorso di sostegno all’interno della comunità. Nel frattempo, l’ex convivente della madre è finito - come era ovvio e giusto - sotto inchiesta per aver avuto rapporti con una minore di 14 anni.Avrebbe potuto concludersi tutto così, con tratti di lieto fine dopo l’orrore totale: la tredicenne affidata a chi può prendersi cura di lei, che cresce in un luogo sicuro assieme al neonato che ha tanto desiderato e che alla fine è venuto al mondo. Il suo abusatore lontano, in attesa di un processo e di una probabile condanna. E invece no, invece è andata in modo totalmente diverso.Il punto è che la ragazzina, essendo minorenne, non può riconoscere il proprio figlio. Deve aspettare almeno i 14 anni e l’approvazione di un giudice per poterlo fare, oppure i 16 anni per essere riconosciuta dalla legge come genitore. Il padre del neonato, invece, essendo maggiorenne può riconoscere il figlio. Ecco perché, solitamente, in casi come questo si cercano soluzioni un filo più complesse ma più intelligenti. «Quando una madre non può per legge riconoscere il figlio», spiega Falanga, «solitamente si produce in questo modo. L’ostetrica va al Comune dove è nato il bimbo e dichiara la nascita, perché la madre non può farlo. A quel punto l’anagrafe assegna al piccolo un cognome fittizio. A questo punto i servizi sociali a loro volta segnalano il caso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni. Il quale tribunale affida il bambino al Comune che ritiene più opportuno, nel caso specifico quello della madre, che rimane a sua volta assistita dallo stesso Comune. Concluso questo iter, parte un progetto per madre e bambino».Stavolta, però, tutto è andato storto. «È successo solamente per una motivazione economica», dice il dottor Velio Degola. E Giovanni Falanga, quasi sulla soglia delle lacrime, conferma. Al padre, benché accusato di aver commesso un crimine, è stato concesso di riconoscere il neonato, e la madre - in quanto minorenne - ha perso i diritti sul suo bambino. «Si è favorito il riconoscimento da parte del padre così la spesa per il neonato graverà su un altro Comune», dichiara Falanga. «Così si legittima un abuso sulla maternità e l’infanzia. Si considera il corpo femminile come contenitore di un figlio che non può essere riconosciuto dalla madre»,È tutto qui, nella sua drammatica pochezza. I servizi sociali intervengono e agiscono come credono. Si ripropone un sistema che abbiamo già visto altrove: i Comuni possono intervenire poco, la macchina si muove a dispetto dei sindaci, che non gestiscono direttamente l’assistenza ai minori. E può succedere che un ventenne riconosca il figlio avuto da una minorenne, come se fosse tutto normale, tutto legittimo. La legge italiana da questo punto di vista non aiuta affatto, e così ci troviamo di fronte a una situazione inaccettabile, a una bambina di 13 anni che partorisce un figlio e poi si trova nella condizione di dover avere a che fare con il maggiorenne che - almeno in teoria - ha abusato di lei. Il riconoscimento del figlio da parte del padre non può essere la risoluzione del problema: semmai è una ulteriore violenza a danno della mamma minorenne e del neonato.La tredicenne si è trovata di fronte a una scelta orribile: perdere il bambino oppure trasferirsi assieme a lui in un altro Comune, lo stesso in cui vive l’uomo che ha abusato di lei. Quando i servizi sociali si sono presentati in comunità per il trasferimento, la ragazzina si è opposta con tutte le forze, ha resistito per un paio d’ore. Poi, i servizi sociali a brutto muso le hanno sbattuto in faccia la realtà: «Sei libera di restare, ma il neonato deve comunque venire con noi». Dunque la piccola ha dovuto cedere. Ora è vicina al suo bambino, ma anche a quello che potrebbe essere condannato come suo aguzzino. Di più: il ventenne autore dell’abuso è un genitore a tutti gli effetti, quindi deve essere coinvolto in tutte le decisioni riguardanti il bambino da poco venuto alla luce. Pensate: una ragazzina minorenne potrebbe dover accompagnare il suo pargoletto a una visita medica, rischiando di trovarsi nella stessa stanza con il maggiorenne che l’ha messa incinta.«Non ho mai visto una cosa del genere», dice il dottor Degola. «Le istituzioni che avrebbero dovuto tutelare questa ragazzina hanno fatto spostare il bambino dal padre per un motivo incomprensibile. E questo al termine di una lunga serie di assurdità. Questa ragazzina aveva chiesto di essere assistita dalla madre al momento del parto, ma non le è stato concesso: è andata una educatrice della nostra casa. Non le hanno fatto vedere il figlio dopo la nascita. Non riesco ancora a capacitarmene, sono arrabbiato».In effetti il dottore ha tutte le ragioni per essere infuriato. Abbiamo una minorenne che sarebbe stata abbastanza grande per decidere di abortire, che è abbastanza grande per scegliere di portare a termine la gravidanza (e del resto la biologia le ha consentito di diventare madre), ma non viene considerata abbastanza adulta per esercitare il suo diritto alla maternità, perché la legge non glielo riconosce. E lo riconosce invece a un uomo accusato di violenza su minore per aver messo incinta una tredicenne. Di conseguenza, d’ora in poi la ragazzina dovrà fare riferimento al suo presunto abusatore per ogni cosa, anche per la più piccola visita. Sembra quasi che stia scontando la colpa di non aver voluto interrompere la gravidanza: per aver visto nel piccolo grembo un futuro migliore, si trova a vivere a pochi passi dall’uomo che ha approfittato di lei.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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