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2022-01-24
La rivoluzione conservatrice di Youngkin in Virginia
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Ansa
Entrato in carica lo scorso 15 gennaio, il neo governatore ha infatti già firmato un consistente numero di decreti, che sconfessano nettamente le politiche care al liberal progressismo. Ha abolito l’obbligo di vaccinazione per i dipendenti statali e ha vietato l’insegnamento della Critical Race Theory nelle scuole. Ricordiamo, in particolare, che la Critical Race Theory sia un insieme di teorie sociologiche che punta a rileggere la storia (e anche altre discipline) sulla base della categoria dell’oppressione razziale. In campagna elettorale, l’opposizione all'indottrinamento scolastico rappresentò un cavallo di battaglia di Youngkin che, appena pochi giorni fa, ha tra l’altro nominato come Director of Diversity, Equity and Inclusion Angela Sailor: esponente del think tank conservatore Heritage Foundation e da sempre oppositrice della Critical Race Theory. Non solo: il nuovo governatore ha anche ordinato un’indagine sulle irregolarità verificatesi nella contea di Loudoun: qui, in una scuola, un ragazzo adolescente che indossava una gonna aveva aggredito sessualmente in bagno una coetanea a maggio e, dopo il fatto, gli era stato concesso di trasferirsi in un altro istituto scolastico, dove – qualche tempo dopo – si era nuovamente reso responsabile di un atto similare.
Insomma, il vento sembra significativamente cambiato in Virginia. E, questo, nonostante qualcuno avesse cercato di minimizzare o comunque ridimensionare la vittoria di Youngkin lo scorso novembre, sostenendo che avesse vinto grazie a un non meglio precisato centrismo. Ebbene, non è così. Non lo è mai stato. Come dicevamo infatti, l’allora candidato repubblicano ottenne l’endorsement di Trump e, secondo quanto riportato da Politico, vinse (anche) grazie alla mobilitazione delle contee maggiormente trumpiste. L’intelligenza di Youngkin è semmai stata quella di non incentrare la propria campagna elettorale su un ennesimo referendum riguardante l’ex presidente americano. In questo senso, ha evitato saggiamente eccessivi riferimenti alla politica nazionale, concentrandosi sui problemi locali e riuscendo così a conquistare una poltrona – quella di governatore della Virginia – che risultava ormai da anni preclusa al Partito repubblicano (eccezion fatta per il quadriennio 2010-2014, era dal 2002 che il cosiddetto Old Dominion State aveva ininterrottamente governatori appartenenti all’Asinello).
Youngkin non ha quindi vinto in nome di qualche presunto centrismo, ma perché ha saputo interpretare la spinta propulsiva di un conservatorismo energico e di governo, tenendo conto della complessità interna allo stesso Partito repubblicano ed evitando velleitarismi controproducenti. Il suo sfidante dem, Terry McAuliffe, è invece rimasto ostaggio dell’ala più a sinistra dell’Asinello, puntando tutto sul riesumare il vecchio schema della Santa Alleanza contro il trumpismo: una strategia che, alla fine, si è rivelata fallimentare, perché preda di un’ideologia sempre più lontana dalle esigenze della gente comune.
I primi decreti di Youngkin confermano il fatto che la Virginia possa rivelarsi un interessante laboratorio per il Partito repubblicano, in vista non solo delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre ma anche delle presidenziali del 2024. L'aspetto importante sta soprattutto nel fatto che questo Stato, negli ultimi anni, si era sempre più spostato verso i democratici: non solo, come abbiamo visto, alle elezioni governatoriali, ma anche nella corsa per la Casa Bianca (è infatti dal 2008 che l’Old Dominion State vota ininterrottamente per i candidati dem alle presidenziali). Attenzione: questo non vuol dire che Youngkin avrà la strada in discesa. Il parlamento statale è infatti attualmente spaccato in due, con il senato a maggioranza democratica e la Camera a maggioranza repubblicana. Resta tuttavia il fatto che la svolta del neo governatore dimostra due cose: dimostra che, se si impegnano, i repubblicani possono farcela a novembre e, soprattutto, che un conservatorismo pragmatico è probabilmente lo strumento migliore per neutralizzare un Asinello sempre più ostaggio della sua ala sinistra.
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Qualcuno aveva provato a dipingerlo come un centrista che aveva accettato l’endorsement di Donald Trump soltanto per opportunismo. E invece Glenn Youngkin sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale, avviando una vera e propria rivoluzione conservatrice in Virginia. Entrato in carica lo scorso 15 gennaio, il neo governatore ha infatti già firmato un consistente numero di decreti, che sconfessano nettamente le politiche care al liberal progressismo. Ha abolito l’obbligo di vaccinazione per i dipendenti statali e ha vietato l’insegnamento della Critical Race Theory nelle scuole. Ricordiamo, in particolare, che la Critical Race Theory sia un insieme di teorie sociologiche che punta a rileggere la storia (e anche altre discipline) sulla base della categoria dell’oppressione razziale. In campagna elettorale, l’opposizione all'indottrinamento scolastico rappresentò un cavallo di battaglia di Youngkin che, appena pochi giorni fa, ha tra l’altro nominato come Director of Diversity, Equity and Inclusion Angela Sailor: esponente del think tank conservatore Heritage Foundation e da sempre oppositrice della Critical Race Theory. Non solo: il nuovo governatore ha anche ordinato un’indagine sulle irregolarità verificatesi nella contea di Loudoun: qui, in una scuola, un ragazzo adolescente che indossava una gonna aveva aggredito sessualmente in bagno una coetanea a maggio e, dopo il fatto, gli era stato concesso di trasferirsi in un altro istituto scolastico, dove – qualche tempo dopo – si era nuovamente reso responsabile di un atto similare. Insomma, il vento sembra significativamente cambiato in Virginia. E, questo, nonostante qualcuno avesse cercato di minimizzare o comunque ridimensionare la vittoria di Youngkin lo scorso novembre, sostenendo che avesse vinto grazie a un non meglio precisato centrismo. Ebbene, non è così. Non lo è mai stato. Come dicevamo infatti, l’allora candidato repubblicano ottenne l’endorsement di Trump e, secondo quanto riportato da Politico, vinse (anche) grazie alla mobilitazione delle contee maggiormente trumpiste. L’intelligenza di Youngkin è semmai stata quella di non incentrare la propria campagna elettorale su un ennesimo referendum riguardante l’ex presidente americano. In questo senso, ha evitato saggiamente eccessivi riferimenti alla politica nazionale, concentrandosi sui problemi locali e riuscendo così a conquistare una poltrona – quella di governatore della Virginia – che risultava ormai da anni preclusa al Partito repubblicano (eccezion fatta per il quadriennio 2010-2014, era dal 2002 che il cosiddetto Old Dominion State aveva ininterrottamente governatori appartenenti all’Asinello). Youngkin non ha quindi vinto in nome di qualche presunto centrismo, ma perché ha saputo interpretare la spinta propulsiva di un conservatorismo energico e di governo, tenendo conto della complessità interna allo stesso Partito repubblicano ed evitando velleitarismi controproducenti. Il suo sfidante dem, Terry McAuliffe, è invece rimasto ostaggio dell’ala più a sinistra dell’Asinello, puntando tutto sul riesumare il vecchio schema della Santa Alleanza contro il trumpismo: una strategia che, alla fine, si è rivelata fallimentare, perché preda di un’ideologia sempre più lontana dalle esigenze della gente comune. I primi decreti di Youngkin confermano il fatto che la Virginia possa rivelarsi un interessante laboratorio per il Partito repubblicano, in vista non solo delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre ma anche delle presidenziali del 2024. L'aspetto importante sta soprattutto nel fatto che questo Stato, negli ultimi anni, si era sempre più spostato verso i democratici: non solo, come abbiamo visto, alle elezioni governatoriali, ma anche nella corsa per la Casa Bianca (è infatti dal 2008 che l’Old Dominion State vota ininterrottamente per i candidati dem alle presidenziali). Attenzione: questo non vuol dire che Youngkin avrà la strada in discesa. Il parlamento statale è infatti attualmente spaccato in due, con il senato a maggioranza democratica e la Camera a maggioranza repubblicana. Resta tuttavia il fatto che la svolta del neo governatore dimostra due cose: dimostra che, se si impegnano, i repubblicani possono farcela a novembre e, soprattutto, che un conservatorismo pragmatico è probabilmente lo strumento migliore per neutralizzare un Asinello sempre più ostaggio della sua ala sinistra.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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