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2020-06-08
Risparmi a rischio. Dove mettere i soldi
Con la crisi del coronavirus, l'unica certezza è che lo Stato ha bisogno di soldi. La Borsa e i fatturati aziendali negli ultimi mesi sono crollati (anche se Piazza Affari si sta riprendendo velocemente con un andamento definito a «V» e non a «U»). Con loro è crollato anche il Pil e in due mesi, tra disoccupati e inattivi, abbiamo dovuto dire addio a 1 milione di posti di lavoro.
Per l'Italia il Fondo monetario internazionale si attende per il 2020 un rapporto debito/Pil del 155,5%, contro il 68,7% della Germania, il 115,4% della Francia e il 113,5% della Spagna. Insomma, la nostra salute finanziaria è in difficoltà e l'unica cura possibile è quella di trovare nuovi fondi. Non stupisce, dunque, che si torni a parlare di patrimoniale. Uno spettro che aleggia da tempo sui risparmi degli italiani, ma che il governo non ha - per ora - avuto il coraggio di attuare. O meglio, di patrimoniali, dai tempi della famosa notte del 1992 in cui il governo presieduto da Giuliano Amato diede il via a un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti i conti correnti nostrani, ne abbiamo viste molte. Solo i vari governi che si sono succeduti non hanno avuto il coraggio di chiamarle con il giusto nome. L'Imu e la tassa sul capital gain voluta dal governo Renzi non sono altro che prelievi sul patrimonio dei cittadini.
Bisogna dirlo, però. Scappare da una eventuale patrimoniale sarebbe molto difficile, se non impossibile. Chi promette metodi legali per scamparla, sa bene che sta offrendo il falso. Certo, dipende da come verrebbe strutturata: potrebbe arrivare sotto prelievo direttamente sul conto corrente (estero o italiano che sia), potrebbe essere calcolata sul reddito (di certo la forma più estrema e ingiusta in un momento in cui sono tanti i cittadini in difficoltà) o potrebbe impattare sul mattone inasprendo i parametri dell'Imu che, per ora, vale solo sulla seconda casa. In questo caso si tratterebbe di un salasso per tre quarti degli italiani, visto che tradizionalmente ci piace essere proprietari del mattone, da sempre croce e delizia dei risparmi degli italiani.
Insomma, sebbene non sia certo che una patrimoniale si abbatta sui risparmi degli italiani, è anche vero che i modi per attutirne gli effetti nefasti in modo legale ci sono. Il primo è quello di investire nella previdenza complementare, strumento che mette al riparo anche in caso di fallimento. C'è sempre, poi, la possibilità di investire il proprio denaro con la speranza, magari affidandosi a un consulente finanziario di fiducia, che attraverso buoni rendimenti si riesca a compensare il prelievo di una patrimoniale.
Fondi pensione, la cassaforte che gli italiani usano poco
L'unico modo certo e legale per allontanare i risparmi dallo spauracchio di una patrimoniale è quello di investire nella previdenza complementare. Certo, non è possibile investire (o almeno non è consigliabile) tutto quello che si ha in prodotti che offrono una rendita per il dopo-lavoro, ma di sicuro si tratta di un buon modo per pagare meno tasse e dormire sonni più tranquilli. Del resto, chi investe in questi prodotti lo fa con un orizzonte di lungo periodo che quasi sempre si conclude con buoni rendimenti. Inoltre, c'è la possibilità detrarre fiscalmente fino a 5.164,57 euro l'anno, il che significa risparmiare sulle imposte Irpef ogni 12 mesi.
Ciononostante, complice il fatto che pagarsi una pensione privata ha un costo (per l'azienda o per il lavoratore) e in molti non riescono a permettersela, in Italia, stando agli ultimi dati Covip - la commissione di vigilanza sui fondi pensione - ci sono 9,185 milioni di posizioni in essere (un italiano può essere iscritto a più di una soluzione) presso forme pensionistiche complementari su un totale di circa 23,4 milioni di lavoratori (dato Istat). Pochi professionisti italiani, insomma, godono dei benefici di una pensione complementare.
L'attuale sistema italiano di previdenza complementare prevede tre tipologie di forme pensionistiche private a cui è possibile accedere a seconda della propria situazione lavorativa: i fondi pensione negoziali, detti anche chiusi, sono quelli rivolti a specifici gruppi di lavoratori che fanno parte di un determinato settore lavorativo; i fondi pensione aperti, destinati tipicamente a tutti i lavoratori il cui contratto non prevede fondi pensione specifici. Ci sono poi i Piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (Pip) che consistono in polizze assicurative a carattere individuale con finalità previdenziali promosse da compagnie assicurative alle quali possono aderire sia i lavoratori dipendenti sia gli autonomi.
I fondi negoziali sono regolati tramite contratti collettivi, anche aziendali nel caso di grandi gruppi, o tra accordi tra lavoratori autonomi e liberi professionisti. Di solito vengono promossi dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro nei confronti dei professionisti che rappresentano. I fondi aperti sono invece tali perché sono sottoscrivibili da tutti i lavoratori e sono promossi dalle istituzioni finanziarie abilitate per legge alla gestione dei fondi stessi: banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio e società di intermediazione mobiliare. Alcuni di questi fondi hanno una disciplina particolare perché nati con il decreto legislativo 124 del 1993 (e vengono denominati fondi pensione preesistenti).
Negli anni i numeri delle varie forme pensionistiche private sono stati incoraggianti. Come mostrano i dati Covip, nei 10 anni da inizio 2010 a fine 2019, il rendimento medio annuo composto dei prodotti di previdenza complementare è stato pari al 3,6% per i fondi negoziali, al 3,8% per i fondi aperti e per i Pip di ramo III, e al 2,6% per le gestioni di ramo I. Nello stesso periodo, la rivalutazione media annua composta del Tfr è stata pari al 2%.
Aggiungendo ai 10 anni gli ultimi difficili 3 mesi, i rendimenti medi annui composti sono scesi al 3% per i fondi negoziali e i fondi aperti e al 2,4 per i Pip di ramo III. Sono rimasti pari al 2,5% i prodotti di ramo I. La rivalutazione del Tfr nello stesso periodo è stata del 2%. Se considerati nel lungo periodo, insomma, si tratta di rendimenti interessanti. Certo, negli ultimi mesi, come gran parte degli investimenti, la previdenza complementare ha visto il segno meno in gran parte delle sue forme.
Al netto dei costi di gestione e della fiscalità, i fondi negoziali hanno perso il 5,2% nel primo trimestre; il 7,5% e il 12,1%, rispettivamente, i fondi aperti e i PIP di ramo III, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria. Per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato e i cui rendimenti dipendono in larga parte dalle cedole incassate sui titoli detenuti, il risultato è stato lievemente positivo (0,4%).
I prodotti pensionistici complementari, insomma, possono rappresentare un valido palliativo nel caso arrivi una patrimoniale, senza considerare che i loro rendimenti permettono dopo decenni di contribuzione di far aumentare considerevolmente il proprio gruzzolo. Si consideri, però, che il versamento medio annuo di chi ha sottoscritto un fondo pensione è di circa 2.000 euro. Un valore che fa capire bene quanto gli italiani considerino ancora troppo poco uno strumento redditizio e anti-patrimoniale così importante.
«Il cittadino medio non riuscirà a evitare la stangata»
Sono in molti a chiedersi se il governo abbia o no intenzione di lanciare una patrimoniale per colpire i risparmi degli italiani. In realtà, una tassa sul patrimonio può essere di diversi tipi e non tutti colpiscono i contribuenti allo stesso modo. Come spiega Marco Cuchel, presidente dell'Associazione nazionale dei commercialisti, il primo passo da compiere è capire se la tassa si abbatterà sui depositi del conto corrente, sui redditi da lavoro o sul mattone (anche prima casa).
Molto probabilmente, se l'idea di una patrimoniale dovesse essere messa in atto, il governo sceglierebbe la strada del prelievo forzoso sui conti correnti, come ha fatto Amato nel 1992. Come difendersi dunque? In primis, spiega Cuchel, bisogna capire se la norma riguarderà anche il patrimonio detenuto al di fuori dell'Unione europea. Poi sarà il caso di investire parte della liquidità su strumenti di previdenza complementare che, per legge, non possono essere intaccati da una patrimoniale. Si tratta però di palliativi, evidenzia Cuchel: la verità è che mettersi al riparo è quasi impossibile.
Come potrà essere strutturata una nuova patrimoniale nel caso dovesse arrivare?
«Vorrei sottolineare che al momento si tratta solo di ipotesi. Di patrimoniale si parla già dal 2018. L'allora ministro dell'Economia, Giovanni Tria, aveva paventato questa ipotesi. Poi era stata accantonata e ora, con la crisi del Covid-19 e il deficit che ne è scaturito, si è tornato a parlare di patrimoniale. Essa è un prelievo forzoso sui risparmi dei cittadini e di coloro che hanno una certa capacità contributiva. Si parlava di un prelievo per i redditi superiori agli 80.000 euro di reddito. L'ipotesi era che la patrimoniale sarebbe stata attivata tra il 2020-2021 a titolo di solidarietà per i problemi legati alla pandemia».
Quali beni colpisce?
«Di principio, la patrimoniale colpisce i beni mobili detenuti dai cittadini come azioni, obbligazioni, fondi comuni, partecipazioni societarie, depositi sul conto corrente. Potrebbe, però, colpire anche gli immobili abbattendosi su terreni o abitazioni di proprietà. Del resto, noi una patrimoniale ce l'abbiamo ed è l'Imu. Derivata dall'Ici introdotta nel 1993 - un anno dopo la patrimoniale di Amato del 1992 - va a colpire gli immobili dei cittadini che fanno parte del loro patrimonio. Il governo potrebbe scegliere di aumentare l'Imu ma, molto più probabilmente, sarà mirata a intaccare i risparmi e gli investimenti. Molto probabilmente ci sarà un parametro e la patrimoniale non sarà per tutti. Ci sarà un reddito minimo o un deposito minimo tali da far scattare il prelievo forzoso. C'era persino chi paventava di un prelievo sul reddito, ma credo sia una ipotesi estrema. Certo è che la crisi ha colpito tutti e introdurre nuove tasse non farebbe bene alla stabilità sociale».
Ci sono modi per non esserne vittima?
«Per il cittadino medio è molto difficile trovare modi per non incorrere nella patrimoniale. Per dare una risposta certa bisogna capire che cosa prevede. Di certo, la patrimoniale non potrà intaccare tutti gli investimenti legati alla previdenza complementare come polizze vita, piani pensionistici o piani di accumulo. Spostare una parte delle proprie disponibilità verso questi investimenti dovrebbe permettere di attutire il colpo in arrivo da questa tassa. Dipende insomma da come verrà strutturato il prelievo. Se dovesse prendere piede una patrimoniale sul reddito con un prelievo del 4% sui redditi fino a 80.000 euro, del 5% per quelli fino a 100.000 e del 6% fino a 300.000 euro, allora non ci sarebbe alcun modo per scamparla. In questo caso, però, non sarebbe corretto chiamarla patrimoniale perché colpirebbe il reddito e non il patrimonio».
Portare i soldi all'estero potrebbe proteggere da un prelievo forzoso?
«Non è detto che sia un modo per salvarsene ma, nel caso in cui la norma non lo prevedesse esplicitamente, un modo per proteggersi potrebbe essere quello di portare i soldi su un conto estero al di fuori dell'Unione europea o fare investimenti finanziari all'estero. Portare risparmi all'estero non è garanzia di salvezza. Dipende da come è strutturata la norma. Se prevede il prelievo sui conti e sugli investimenti degli italiani anche all'estero, allora non se ne esce».
Ci sono società che la prospettano come via d'uscita?
«Ma non è detto che abbia successo. Io consiglio una polizza vita o un piano d'accumulo, così si riduce la liquidità sul conto e dunque il prelievo. Allo stato, è impossibile dire con certezza che chi porta i soldi all'estero sarà al 100% tutelato e al riparo da un prelievo. So bene che ci sono società che propongono questo tipo di servizio, ma è bene stare attenti perché la sicurezza di non finire sotto una patrimoniale non c'è. Tutti gli scenari restano aperti e solo una volta resi noti i criteri di una patrimoniale si potrà capire come muoversi. Certo è che portare legalmente i soldi all'estero ha un costo ben preciso».
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Le Borse in altalena, l'economia in crisi, l'incubo della patrimoniale: chi ha anche piccoli capitali è disorientato. Guida per investire dopo la pandemia.La previdenza complementare fornisce il riparo dalle imposte di emergenza.Il presidente dell'Associazione commercialisti, Marco Cuchel: «Anche aprire un conto all'estero non è garanzia di sfuggire alle sovrattasse».Lo speciale contiene tre articoli.Con la crisi del coronavirus, l'unica certezza è che lo Stato ha bisogno di soldi. La Borsa e i fatturati aziendali negli ultimi mesi sono crollati (anche se Piazza Affari si sta riprendendo velocemente con un andamento definito a «V» e non a «U»). Con loro è crollato anche il Pil e in due mesi, tra disoccupati e inattivi, abbiamo dovuto dire addio a 1 milione di posti di lavoro. Per l'Italia il Fondo monetario internazionale si attende per il 2020 un rapporto debito/Pil del 155,5%, contro il 68,7% della Germania, il 115,4% della Francia e il 113,5% della Spagna. Insomma, la nostra salute finanziaria è in difficoltà e l'unica cura possibile è quella di trovare nuovi fondi. Non stupisce, dunque, che si torni a parlare di patrimoniale. Uno spettro che aleggia da tempo sui risparmi degli italiani, ma che il governo non ha - per ora - avuto il coraggio di attuare. O meglio, di patrimoniali, dai tempi della famosa notte del 1992 in cui il governo presieduto da Giuliano Amato diede il via a un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti i conti correnti nostrani, ne abbiamo viste molte. Solo i vari governi che si sono succeduti non hanno avuto il coraggio di chiamarle con il giusto nome. L'Imu e la tassa sul capital gain voluta dal governo Renzi non sono altro che prelievi sul patrimonio dei cittadini. Bisogna dirlo, però. Scappare da una eventuale patrimoniale sarebbe molto difficile, se non impossibile. Chi promette metodi legali per scamparla, sa bene che sta offrendo il falso. Certo, dipende da come verrebbe strutturata: potrebbe arrivare sotto prelievo direttamente sul conto corrente (estero o italiano che sia), potrebbe essere calcolata sul reddito (di certo la forma più estrema e ingiusta in un momento in cui sono tanti i cittadini in difficoltà) o potrebbe impattare sul mattone inasprendo i parametri dell'Imu che, per ora, vale solo sulla seconda casa. In questo caso si tratterebbe di un salasso per tre quarti degli italiani, visto che tradizionalmente ci piace essere proprietari del mattone, da sempre croce e delizia dei risparmi degli italiani.Insomma, sebbene non sia certo che una patrimoniale si abbatta sui risparmi degli italiani, è anche vero che i modi per attutirne gli effetti nefasti in modo legale ci sono. Il primo è quello di investire nella previdenza complementare, strumento che mette al riparo anche in caso di fallimento. C'è sempre, poi, la possibilità di investire il proprio denaro con la speranza, magari affidandosi a un consulente finanziario di fiducia, che attraverso buoni rendimenti si riesca a compensare il prelievo di una patrimoniale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/risparmi-a-rischio-dove-mettere-i-soldi-2646162335.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fondi-pensione-la-cassaforte-che-gli-italiani-usano-poco" data-post-id="2646162335" data-published-at="1591565642" data-use-pagination="False"> Fondi pensione, la cassaforte che gli italiani usano poco L'unico modo certo e legale per allontanare i risparmi dallo spauracchio di una patrimoniale è quello di investire nella previdenza complementare. Certo, non è possibile investire (o almeno non è consigliabile) tutto quello che si ha in prodotti che offrono una rendita per il dopo-lavoro, ma di sicuro si tratta di un buon modo per pagare meno tasse e dormire sonni più tranquilli. Del resto, chi investe in questi prodotti lo fa con un orizzonte di lungo periodo che quasi sempre si conclude con buoni rendimenti. Inoltre, c'è la possibilità detrarre fiscalmente fino a 5.164,57 euro l'anno, il che significa risparmiare sulle imposte Irpef ogni 12 mesi. Ciononostante, complice il fatto che pagarsi una pensione privata ha un costo (per l'azienda o per il lavoratore) e in molti non riescono a permettersela, in Italia, stando agli ultimi dati Covip - la commissione di vigilanza sui fondi pensione - ci sono 9,185 milioni di posizioni in essere (un italiano può essere iscritto a più di una soluzione) presso forme pensionistiche complementari su un totale di circa 23,4 milioni di lavoratori (dato Istat). Pochi professionisti italiani, insomma, godono dei benefici di una pensione complementare. L'attuale sistema italiano di previdenza complementare prevede tre tipologie di forme pensionistiche private a cui è possibile accedere a seconda della propria situazione lavorativa: i fondi pensione negoziali, detti anche chiusi, sono quelli rivolti a specifici gruppi di lavoratori che fanno parte di un determinato settore lavorativo; i fondi pensione aperti, destinati tipicamente a tutti i lavoratori il cui contratto non prevede fondi pensione specifici. Ci sono poi i Piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (Pip) che consistono in polizze assicurative a carattere individuale con finalità previdenziali promosse da compagnie assicurative alle quali possono aderire sia i lavoratori dipendenti sia gli autonomi. I fondi negoziali sono regolati tramite contratti collettivi, anche aziendali nel caso di grandi gruppi, o tra accordi tra lavoratori autonomi e liberi professionisti. Di solito vengono promossi dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro nei confronti dei professionisti che rappresentano. I fondi aperti sono invece tali perché sono sottoscrivibili da tutti i lavoratori e sono promossi dalle istituzioni finanziarie abilitate per legge alla gestione dei fondi stessi: banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio e società di intermediazione mobiliare. Alcuni di questi fondi hanno una disciplina particolare perché nati con il decreto legislativo 124 del 1993 (e vengono denominati fondi pensione preesistenti). Negli anni i numeri delle varie forme pensionistiche private sono stati incoraggianti. Come mostrano i dati Covip, nei 10 anni da inizio 2010 a fine 2019, il rendimento medio annuo composto dei prodotti di previdenza complementare è stato pari al 3,6% per i fondi negoziali, al 3,8% per i fondi aperti e per i Pip di ramo III, e al 2,6% per le gestioni di ramo I. Nello stesso periodo, la rivalutazione media annua composta del Tfr è stata pari al 2%. Aggiungendo ai 10 anni gli ultimi difficili 3 mesi, i rendimenti medi annui composti sono scesi al 3% per i fondi negoziali e i fondi aperti e al 2,4 per i Pip di ramo III. Sono rimasti pari al 2,5% i prodotti di ramo I. La rivalutazione del Tfr nello stesso periodo è stata del 2%. Se considerati nel lungo periodo, insomma, si tratta di rendimenti interessanti. Certo, negli ultimi mesi, come gran parte degli investimenti, la previdenza complementare ha visto il segno meno in gran parte delle sue forme. Al netto dei costi di gestione e della fiscalità, i fondi negoziali hanno perso il 5,2% nel primo trimestre; il 7,5% e il 12,1%, rispettivamente, i fondi aperti e i PIP di ramo III, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria. Per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato e i cui rendimenti dipendono in larga parte dalle cedole incassate sui titoli detenuti, il risultato è stato lievemente positivo (0,4%). I prodotti pensionistici complementari, insomma, possono rappresentare un valido palliativo nel caso arrivi una patrimoniale, senza considerare che i loro rendimenti permettono dopo decenni di contribuzione di far aumentare considerevolmente il proprio gruzzolo. Si consideri, però, che il versamento medio annuo di chi ha sottoscritto un fondo pensione è di circa 2.000 euro. Un valore che fa capire bene quanto gli italiani considerino ancora troppo poco uno strumento redditizio e anti-patrimoniale così importante. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/risparmi-a-rischio-dove-mettere-i-soldi-2646162335.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-cittadino-medio-non-riuscira-a-evitare-la-stangata" data-post-id="2646162335" data-published-at="1591565642" data-use-pagination="False"> «Il cittadino medio non riuscirà a evitare la stangata» Sono in molti a chiedersi se il governo abbia o no intenzione di lanciare una patrimoniale per colpire i risparmi degli italiani. In realtà, una tassa sul patrimonio può essere di diversi tipi e non tutti colpiscono i contribuenti allo stesso modo. Come spiega Marco Cuchel, presidente dell'Associazione nazionale dei commercialisti, il primo passo da compiere è capire se la tassa si abbatterà sui depositi del conto corrente, sui redditi da lavoro o sul mattone (anche prima casa). Molto probabilmente, se l'idea di una patrimoniale dovesse essere messa in atto, il governo sceglierebbe la strada del prelievo forzoso sui conti correnti, come ha fatto Amato nel 1992. Come difendersi dunque? In primis, spiega Cuchel, bisogna capire se la norma riguarderà anche il patrimonio detenuto al di fuori dell'Unione europea. Poi sarà il caso di investire parte della liquidità su strumenti di previdenza complementare che, per legge, non possono essere intaccati da una patrimoniale. Si tratta però di palliativi, evidenzia Cuchel: la verità è che mettersi al riparo è quasi impossibile. Come potrà essere strutturata una nuova patrimoniale nel caso dovesse arrivare? «Vorrei sottolineare che al momento si tratta solo di ipotesi. Di patrimoniale si parla già dal 2018. L'allora ministro dell'Economia, Giovanni Tria, aveva paventato questa ipotesi. Poi era stata accantonata e ora, con la crisi del Covid-19 e il deficit che ne è scaturito, si è tornato a parlare di patrimoniale. Essa è un prelievo forzoso sui risparmi dei cittadini e di coloro che hanno una certa capacità contributiva. Si parlava di un prelievo per i redditi superiori agli 80.000 euro di reddito. L'ipotesi era che la patrimoniale sarebbe stata attivata tra il 2020-2021 a titolo di solidarietà per i problemi legati alla pandemia». Quali beni colpisce? «Di principio, la patrimoniale colpisce i beni mobili detenuti dai cittadini come azioni, obbligazioni, fondi comuni, partecipazioni societarie, depositi sul conto corrente. Potrebbe, però, colpire anche gli immobili abbattendosi su terreni o abitazioni di proprietà. Del resto, noi una patrimoniale ce l'abbiamo ed è l'Imu. Derivata dall'Ici introdotta nel 1993 - un anno dopo la patrimoniale di Amato del 1992 - va a colpire gli immobili dei cittadini che fanno parte del loro patrimonio. Il governo potrebbe scegliere di aumentare l'Imu ma, molto più probabilmente, sarà mirata a intaccare i risparmi e gli investimenti. Molto probabilmente ci sarà un parametro e la patrimoniale non sarà per tutti. Ci sarà un reddito minimo o un deposito minimo tali da far scattare il prelievo forzoso. C'era persino chi paventava di un prelievo sul reddito, ma credo sia una ipotesi estrema. Certo è che la crisi ha colpito tutti e introdurre nuove tasse non farebbe bene alla stabilità sociale». Ci sono modi per non esserne vittima? «Per il cittadino medio è molto difficile trovare modi per non incorrere nella patrimoniale. Per dare una risposta certa bisogna capire che cosa prevede. Di certo, la patrimoniale non potrà intaccare tutti gli investimenti legati alla previdenza complementare come polizze vita, piani pensionistici o piani di accumulo. Spostare una parte delle proprie disponibilità verso questi investimenti dovrebbe permettere di attutire il colpo in arrivo da questa tassa. Dipende insomma da come verrà strutturato il prelievo. Se dovesse prendere piede una patrimoniale sul reddito con un prelievo del 4% sui redditi fino a 80.000 euro, del 5% per quelli fino a 100.000 e del 6% fino a 300.000 euro, allora non ci sarebbe alcun modo per scamparla. In questo caso, però, non sarebbe corretto chiamarla patrimoniale perché colpirebbe il reddito e non il patrimonio». Portare i soldi all'estero potrebbe proteggere da un prelievo forzoso? «Non è detto che sia un modo per salvarsene ma, nel caso in cui la norma non lo prevedesse esplicitamente, un modo per proteggersi potrebbe essere quello di portare i soldi su un conto estero al di fuori dell'Unione europea o fare investimenti finanziari all'estero. Portare risparmi all'estero non è garanzia di salvezza. Dipende da come è strutturata la norma. Se prevede il prelievo sui conti e sugli investimenti degli italiani anche all'estero, allora non se ne esce». Ci sono società che la prospettano come via d'uscita? «Ma non è detto che abbia successo. Io consiglio una polizza vita o un piano d'accumulo, così si riduce la liquidità sul conto e dunque il prelievo. Allo stato, è impossibile dire con certezza che chi porta i soldi all'estero sarà al 100% tutelato e al riparo da un prelievo. So bene che ci sono società che propongono questo tipo di servizio, ma è bene stare attenti perché la sicurezza di non finire sotto una patrimoniale non c'è. Tutti gli scenari restano aperti e solo una volta resi noti i criteri di una patrimoniale si potrà capire come muoversi. Certo è che portare legalmente i soldi all'estero ha un costo ben preciso».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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