2025-01-21
La riscossa del «noi» sul nichilismo
Dietro la vittoria di Donald Trump c’è anche la ribellione all’individualismo e all’abolizione dei legami comunitari. L’economia da sola non basta a vivere se si è in crisi di identità.Che America trova Donald Trump tornando alla Casa Bianca? Un’America spaccata, come del resto divisa era pure l’America di Joe Biden, polarizzata tra due visioni opposte e non riconciliate. Un’America esacerbata, preda di accentuate diseguaglianze, difficili convivenze e un tessuto sociale lacerato. Un’America sfiduciata, che pensa di vivere il momento peggiore della sua storia. Un’America inguaiata in Ucraina e in Medio Oriente. Lo pensano i seguaci di Trump che vedono nella sua vittoria la possibilità di un riscatto e di una rinascita; e lo pensano i seguaci democratici che vedono in Trump alla Casa Bianca la prova di vivere nel peggiore dei momenti storici. Questo, almeno, è il quadro prevalente che viene narrato.Nella sua opera Comunità contro Individualismo, riproposta di recente dalle edizioni del Corriere della Sera, Robert Putnam smentisce questo quadro apocalittico della decadenza americana, ricostruisce gli alti e i bassi della sua storia e l’alternanza di fasi in cui predomina l’io e altre in cui predomina il noi, che per lui sono più benefiche per l’America e gli americani.Gli dà manforte Federico Rampini che traccia nella sua prefazione un quadro molto ottimistico della situazione americana sul piano economico e sociale, sul piano della salute, dell’ambiente e della longevità, nonché della condizione femminile. Secondo Rampini lo stato positivo degli Usa non dipende dalle amministrazioni politiche ma dal fatto che il capitalismo «ha una marcia in più» e l’America è il luogo «dove il capitalismo riesce ancora a dare il meglio di sé». E si appoggia all’analisi di Putnam, che coniò l’espressione «capitale sociale» per indicare la fiducia verso il sistema, le istituzioni e la società. Putnam ribadisce: gli americani sono diventati più sani, più ricchi, più istruiti, vivono più comodamente e più a lungo. Altro che decadenza.E allora perché l’America ha deciso di voltare pagina con Trump? Ci sono un paio di cose che non tornano, o meglio che non sono spiegate da questa doppia analisi e che non spiegano il malessere americano, la sfiducia crescente, la società spaccata e la vittoria di Trump nel segno della Deep America contro il Deep State, della scelta awake contro l’ideologia woke (svegli, non svegliati e sorvegliati). La prima si riassume in una domanda: ammesso che il quadro reale della situazione sia molto migliore della percezione diffusa, ammesso cioè che tutti gli indicatori prima citati confermino davvero che l’America non se la passa affatto male, la questione resta: cosa induce la popolazione e la rappresentazione mediatica a percepire questa decadenza nonostante la buona salute del sistema americano? Perché gli americani e il resto del mondo avvertono il declino nonostante i fattori economici, sociali, demografici, biologici dicano il contrario? E perché sono ricorsi a Trump per un brusco cambio di passo? Avvertono che la vita ha meno senso e valori, meno fondamenti, meno prospettive, meno sicurezze, meno legami e meno relazioni sociali. Ovvero la decadenza di cui avvertono il sentore, non dipende da quei fattori, non è un fatto quantitativo, economico, materiale ma è uno stato psicologico, esistenziale, spirituale. E questa diagnosi può allargarsi dagli Stati Uniti all’Europa, insomma all’Occidente più benestante. È la solitudine, il nichilismo, l’insensatezza del vivere, la paura di subire violenza, di ammalarsi, d’invecchiare e di morire, a rendere la vita occidentale così piena di ombre, fantasmi, malesseri. Quel che chiamano benessere è solo benavere: non è uno star bene ma un disporre di beni. Senza legami, senza fiducia, senza sicurezza, senza comunità.Qui tocchiamo l’altro tema su cui si sofferma lo studio di Putnam che descrive il saliscendi tra individualismo e comunitarismo nelle varie fasi della società americana. Putnam compie un riduzionismo sociologico improprio: identifica il noi, lo spirito comunitario, con le stagioni progressiste; e il primato dell’io, dello spirito individualista, con le stagioni conservatrici; pur avvertendo che individualismo e comunitarismo appartengono a entrambe le visioni, sono patrimonio comune. Non gli sorge il dubbio che tra ideologia progressista e visione comunitaria non ci sia affatto coincidenza o convergenza di vedute, ma conflitto e incompatibilità. In realtà la comunità non va nella direzione in cui è andato il progressismo, almeno dagli anni Sessanta a oggi. Il progressismo liberal, e anche radical, ha sposato una serie di battaglie per i diritti civili e per l’emancipazione che minano i legami sociali più che saldarli o inventarne di nuovi, salvo occasionali movimenti e mobilitazioni. Lo spirito progressista è individualismo libertario, liberazione dai legami comunitari, emancipazione da ogni orizzonte sociale, religioso e tradizionale, rivendicazione di autonomia, autogestione, rispetto alla natura, alla storia e al mondo che precede la nostra vita.I temi dell’inclusione, dell’accoglienza, della parità dei diritti sono nella sfera dell’individualismo libertario, della liberazione dei popoli dalle loro appartenenze, emancipazione dal noi originario, sia esso famigliare che civico, religioso, nazionale. Identificando lo spirito comunitario con lo spirito progressista, l’affermazione del canone woke, dei diritti civili, delle minoranze, del femminismo, dei green e arcobaleno, dovrebbe dunque appagare il noi, rendere gli americani più motivati nella loro appartenenza comunitaria. Invece questo non succede, anzi quell’ideologia mainstream e politically correct suscita insofferenza, rigetto, malessere sociale, sfiducia e diffidenza. La rivolta contro quell’egemonia culturale è una delle ragioni del successo di Trump che infatti promette di smantellare i presidi ideologici e strutturali in cui quell’ideologia si fa norma, censura, prescrizione pubblica e di rivalutare il noi americani, l’identità e le radici. Evidentemente il progressismo non giova allo spirito comunitario ma nuoce, ne è d’ostacolo, mina i legami sociali, i rapporti tra generazioni, tra sessi, tra cittadini e nazione, nuoce al sentire comune. Lo spirito comunitario si ribella al progressismo. Insomma il malessere persistente nella società americana e nella società occidentale dimostra che né il sistema capitalistico né l’ideologia progressista producono fiducia e spirito comunitario ma al contrario individualismo, sfiducia e meno legami sociali. Trump è una risposta all’ideologia progressista, pur restando dentro il sistema capitalistico. Il capitalismo in sé produce beni e opportunità ma non genera sicurezza e valori, non rassicura le identità ed è disarmato, se non complice, rispetto alla sostituzione dell’umano con l’artificiale tramite il primato della tecnica. Fa bene al mercato, ai consumi, alle condizioni materiali di vita; non al resto. Ma in quel «resto» c’è il senso, il cuore e la mente della condizione umana.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)