2021-03-04
«La scuola è la nostra priorità».Infatti si affrettano a chiuderla
I fautori dell'istruzione in presenza si adeguano alla serrata. Michela Marzano su «Repubblica»: «L'insegnamento è elasticità»Ci hanno ripetuto per mesi, giustamente, che la scuola non poteva rimanere chiusa. Ma ora le aule vengono sbarrate di nuovo e i politici e i commentatori battaglieri si arrendono, dicendo che bisogna «fare i conti con la realtà». Peccato che a rimetterci siano gli studenti e pure le loro famiglie. Com'è che dicevano? «Le scuole non devono chiudere»; «Non possiamo danneggiare ancora i nostri ragazzi». Li avete sentiti anche voi, no? Lo ripetevano tutti, in coro: «Basta con la didattica a distanza, torniamo in classe!». Il nuovo ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, ancora ieri ribadiva che in questi mesi «quello che si è perso è soprattutto la socialità, lo stare insieme non la singola disciplina. La scuola non è solo insegnamento, apprendimento ma anche vita comune». Eppure, guarda un po', le scuole chiudono. Da lunedì milioni di studenti torneranno a seguire le lezioni a distanza, dal computerino di casa. E poco importa se questa situazione, finora, ha creato una marea di disagi e, soprattutto, ha messo una seria ipoteca sul futuro di una intera generazione. Secondo un rapporto di Save the Children uscito un paio di giorni fa, in un anno di emergenza pandemica bambini e adolescenti di tutto il mondo hanno perso in media 74 giorni di istruzione a testa, oltre un terzo dell'anno scolastico medio (che a livello globale è di 190 giorni). In Italia i problemi si sono manifestati soprattutto al Sud, dove i ragazzi hanno frequentato circa la metà dei giorni rispetto ai loro coetanei del Nord. I guai per le famiglie, invece, sono più o meno gli stessi a ogni latitudine: genitori che hanno consumato ferie e permessi, e che ora si troveranno di nuovo a gestire i figli esclusi dalle aule.Il ministro Bianchi cerca di rigirare la frittata: «La scuola non chiude, non ha mai chiuso», dice. «Non mi piace parlare di Dad. La scuola continua ad andare avanti e restiamo in collegamento con tutti i nostri ragazzi». Bel tentativo. Ma è chiaro ormai a chiunque che restare a casa davanti a uno schermo non è la stessa cosa che far lezione in presenza, con compagni e professori.Intendiamoci: che sarebbe finita così ce lo aspettavamo. Nell'ultimo anno abbiamo assistito a una serie infinita di repliche del medesimo spettacolo: tutti concordavano (a partire dal fu ministro Lucia Azzolina) sul fatto che le classi dovessero restare aperte, poi però si chiudeva ogni volta. Gli studenti protestavano, e i politici di nuovo promettevano: «Si tornerà in presenza!». Ma, ancora, gli istituti restavano sbarrati. A stupire, adesso, è la velocità con cui i grandi fautori della scuola che resiste si sono adattati all'ennesima serrata. Prendiamo la filosofa Michela Marzano, editorialista di Repubblica. Per diversi mesi ha sostenuto, a ragione, che «la scuola è un luogo fisico di incontro di cui non si può fare a meno». Ma ecco che ieri, in prima pagina sul giornale progressista, ha preso una linea diversa. «Forse è arrivato il momento, anche per me, di fare i conti con la realtà e mettere in fila la lista delle priorità senza perdermi in chiacchiere inutili», ha scritto. «Se lo scopo è quello di ritrovare la vita di prima, dobbiamo innanzitutto uscire dalla crisi sanitaria».Pur garbatamente, e con qualche scrupolo, la Marzano si è rassegnata alle chiusure: «L'insegnamento», ha concluso, «è elasticità. Ma se i primi a non adattarci siamo noi, che cosa possiamo mai sperare di trasmettere ai nostri studenti?». Già, e chissà come mai questa botta di elasticità arriva proprio adesso... Va detto che la Marzano è in buona compagnia. Perché persino i governatori delle Regioni sembrano aver perso per strada ogni afflato battagliero. Giovanni Toti, ad esempio, nota che «ora il Cts ci ha dato parametri precisi e responsabilizza le Regioni certe condizioni, quindi adesso è possibile chiudere le scuole senza lasciar correre il virus solo per tenere fede a un'idea elitaria dell'istruzione e della cultura». Quindi andare in classe sarebbe un'idea elitaria della cultura? Capiamoci: riaprire teatri e cinema è una scelta indispensabile per tutelare il patrimonio nazionale mentre aprire un libro in presenza del professore è roba da oltranzisti chic? A quanto pare le cose stanno proprio così. Il Piemonte ha deciso di sbarrare tutti gli istituti, di ogni ordine e grado. Il Friuli Venezia Giulia sembra orientato a seguire la stessa linea. La Lombardia si balocca con l'arancione rafforzato. L'Emilia Romagna ha già i lucchetti pronti e nessun peso sul cuore. «Dove la trasmissione è molto elevata si possono prendere decisioni come già fatto in alcune realtà e si chiudono le scuole», commenta Stefano Bonaccini del Pd.Tutto benissimo, per carità. Se ne sono convinti, vadano pure avanti tranquilli. Ma, almeno, che tra di noi ci si dica la verità: la scuola in presenza non è più, da tempo, una priorità. Forse non porta voti, forse è una matassa troppo intricata da sbrogliare. Sia pure, ma almeno un pizzico di onestà: d'ora in poi - dal ministro in giù - risparmiateci le tirate sul valore fondamentale dell'istruzione. Se una cosa è importante, si dovrebbe evitare di farla a pezzi.
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