2022-11-29
I resti dei marò trucidati da Tito torneranno ad avere un nome
A sinistra il tenente colonnello Massimiliano Fioretti direttore del Sacrario di Redipuglia. Al centro Paolo Fattorini, direttore della Scuola di specializzazione in Medicina Legale a Trieste. A destra un ex ufficiale dei lagunari
Consegnate al laboratorio dell’ateneo di Trieste 27 cassette che contengono le ossa dei militari della X Mas, torturati e sepolti nella fossa di Ossero. Per il loro riconoscimento «Panorama» aveva raccolto 26.000 euro.Ridare un’identità a quei corpi trucidati e fatti scomparire 77 anni fa è un dovere morale, oltre che un gesto di umanità nei confronti di familiari, che per una vita non si sono dati pace, senza una tomba dove poter ricordare i propri cari. Si tratta dei 27 militari italiani, 21 marò appartenenti alla X Mas e sei militi del battaglione Tramontana di Cherso, che combatterono contro l’avanzata dei partigiani di Tito alla fine della seconda guerra mondiale.Ieri, all’università di Trieste, è cominciata la seconda e definitiva fase del riconoscimento dei resti - 350 prelievi ossei - rinvenuti il 9 maggio 2019 e custoditi nel sacrario dei caduti d’oltremare di Bari, da dove sono stati trasferiti a Redipuglia, per poi essere trasportati all’interno di 27 cassette grigie, ognuna con la scritta «caduto ignoto» e avvolta in un Tricolore, presso la scuola di specializzazione dell’istituto di medicina legale del capoluogo giuliano. Era il 22 aprile 1945, la guerra era pressoché finita. I marò si erano dovuti arrendere ai titini, i quali in barba alla terza convenzione di Ginevra, che protegge i prigionieri di guerra, li torturarono senza alcuna pietà prima di trucidarli e gettarli in una fossa comune a Ossero, città oggi in Croazia sull’isola di Cherso. Il lavoro di riesumazione è stato reso possibile grazie a un’iniziativa della comunità italiana degli esuli di Lussinpiccolo - che ha sede proprio a Trieste - e alla preziosa raccolta fondi avviata due anni fa da Panorama.it, che ha messo insieme 26.000 euro grazie a centinaia di donazioni che hanno coperto le spese - dall’acquisto dei reagenti, all’utilizzo delle strumentazioni fino al costo del personale - delle università di Bari e Trieste. I due atenei nel 2019 hanno firmato una convenzione con il ministero della Difesa per far tornare alla luce questo caso a distanza di così tanti anni, dando così il via libera al commissariato generale per le onoranze ai caduti, in collaborazione con le autorità croate, alla riesumazione dei resti dei soldati italiani. «Finalmente sono arrivati a Trieste», ha raccontato emozionata Licia Giadrossi, presidente della comunità di Lussinpiccolo, a Fausto Biloslavo, giornalista che da anni porta avanti un prezioso lavoro d’inchiesta sul tema sulle pagine di Panorama e che era presente ieri quando il tenente colonnello Massimiliano Fioretti ha ricevuto le cassette contenenti i resti dei marò. «La nostra speranza è dare un nome e un cognome a questi ragazzi uccisi dai titini, che sembravano scomparsi per sempre. Così giovani, nel turbinio di una guerra finita».Alcuni corpi sono stati trovati con il foro del proiettile sul cranio. Un dettaglio che ricondurrebbe senza rischio di smentita a una vera e propria esecuzione. Secondo le ricostruzioni, i 21 marò - erano 22 ma uno, Mario Sartori di Genova, decise di suicidarsi dopo l’ultima battaglia a Neresine, il 20 aprile 1945, per non cadere prigioniero - e i sei militari del battaglione Tramontana, dopo la resa, furono prima torturati e poi costretti a raggiungere scalzi e seminudi Ossero, dove dovettero scavarsi una fossa dietro il muro Nord del cimitero. Dentro quella fossa ci finirono fucilati, nonostante lo status di prigionieri di guerra. A distanza di quasi 80 anni, ridare un nome e un cognome a quei ragazzi non significa voler riscrivere la storia e nemmeno giustificare le azioni dei componenti della X Mas che avevano aderito alla Repubblica sociale e che erano finiti dalla parte sbagliata della storia, piuttosto riportare alla luce i crimini di guerra, da chiunque siano stati commessi. Non può esistere alcuna giustificazione per le torture, per le esecuzioni e per l’occultamento dei cadaveri che la Jugoslavia comandata da Tito voleva nascondere per sempre. I parenti di quei 27 ragazzi, di cui i crimini titini volevano cancellare la memoria, hanno il diritto di conoscere la verità e poter seppellire quelle ossa sotto un nome e un cognome. Per questo motivo, grazie alle ricerche di alcuni soci e all’elenco dei prigionieri trucidati, sono stati rintracciati 14 parenti sparsi per l’Italia, che si sono resi disponibili al riconoscimento, attraverso il test del Dna. «Siamo pronti a iniziare le indagini genetiche comparando il Dna dei familiari dei caduti a quello dei reperti ossei contenuti in queste cassette, ma bisognerà attendere circa nove mesi per giungere a delle conclusioni», spiega Paolo Fattorini, direttore della scuola di specializzazione dell’istituto di medicina legale di Trieste. Affinché si possa finalmente ridare un’identità a questi resti, l’esperto di cold case, che in passato ha lavorato a casi come il giallo di via Poma e all’identificazione dei 366 corpi vittime del naufragio di Lampedusa nel 2013, confida nelle tecniche innovative e nelle metodologie next generation, attraverso le quali si possono ottenere dati genetici che permettono un’identificazione certa: «Grazie a queste procedure siamo in grado di scoprire anche le caratteristiche della vittima, come il colore di occhi e capelli, ma si può stabilire anche se aveva le lentiggini o una calvizia precoce, per risalire all’identità dello scheletro», aveva raccontato lo stesso Fattorini a Panorama. Le cassette contenenti i resti, arrivate a Trieste da Bari scortate dai militari sono passate nelle mani di un gruppo di anatomopatologi guidati dal professor Franco Introna, che ha cominciato il lavoro di ricostruzione degli scheletri, facendo tornare alla luce le torture e le esecuzioni subite prima della barbara sepoltura.
c
La consulenza super partes parla chiaro: il profilo genetico è compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio. Un dato che restringe il cerchio, mette sotto pressione la difesa e apre un nuovo capitolo nell’indagine sul delitto Poggi.
La Casina delle Civette nel parco di Villa Torlonia a Roma. Nel riquadro, il principe Giovanni Torlonia (IStock)
Dalle sue finestre vedeva il Duce e la sua famiglia, il principe Giovanni Torlonia. Dal 1925 fu lui ad affittare il casino nobile (la villa padronale della nobile casata) per la cifra simbolica di una lira all’anno al capo del Governo, che ne fece la sua residenza romana. Il proprietario, uomo schivo e riservato ma amante delle arti, della cultura e dell’esoterismo, si era trasferito a poca distanza nel parco della villa, nella «Casina delle Civette». Nata nel 1840 come «capanna svizzera» sui modelli del Trianon e Rambouillet con tanto di stalla, fu trasformata in un capolavoro Art Nouveau dal principe Giovanni a partire dal 1908, su progetto dell’architetto Enrico Gennari. Pensata inizialmente come riproduzione di un villaggio medievale (tipico dell’eclettismo liberty di quegli anni) fu trasformata dal 1916 nella sua veste definitiva di «Casina delle civette». Il nome derivò dal tema ricorrente dell’animale notturno nelle splendide vetrate a piombo disegnate da uno dei maestri del liberty italiano, Duilio Cambellotti. Gli interni e gli arredi riprendevano il tema, includendo molti simboli esoterici. Una torretta nascondeva una minuscola stanza, detta «dei satiri», dove Torlonia amava ritirarsi in meditazione.
Mussolini e Giovanni Torlonia vissero fianco a fianco fino al 1938, alla morte di quest’ultimo all’età di 65 anni. Dopo la sua scomparsa, per la casina delle Civette, luogo magico appoggiato alla via Nomentana, finì la pace. E due anni dopo fu la guerra, con villa Torlonia nel mirino dei bombardieri (il Duce aveva fatto costruire rifugi antiaerei nei sotterranei della casa padronale) fino al 1943, quando l’illustre inquilino la lasciò per sempre. Ma l’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno del 1944 non significò la salvezza per la Casina delle Civette, anzi fu il contrario. Villa Torlonia fu occupata dal comando americano, che utilizzò gli spazi verdi del parco come parcheggio e per il transito di mezzi pesanti, anche carri armati, di fatto devastandoli. La Casina di Giovanni Torlonia fu saccheggiata di molti dei preziosi arredi artistici e in seguito abbandonata. Gli americani lasceranno villa Torlonia soltanto nel 1947 ma per il parco e le strutture al suo interno iniziarono trent’anni di abbandono. Per Roma e per i suoi cittadini vedere crollare un capolavoro come la casina liberty generò scandalo e rabbia. Solo nel 1977 il Comune di Roma acquisì il parco e le strutture in esso contenute. Iniziò un lungo iter burocratico che avrebbe dovuto dare nuova vita alle magioni dei Torlonia, mentre la casina andava incontro rapidamente alla rovina. Il 12 maggio 1989 una bimba di 11 anni morì mentre giocava tra le rovine della Serra Moresca, altra struttura Liberty coeva della casina delle Civette all’interno del parco. Due anni più tardi, proprio quando sembrava che i fondi per fare della casina il museo del Liberty fossero sbloccati, la maledizione toccò la residenza di Giovanni Torlonia. Per cause non accertate, il 22 luglio 1991 un incendio, alimentato dalle sterpaglie cresciute per l’incuria, mandò definitivamente in fumo i progetti di restauro.
Ma la civetta seppe trasformarsi in fenice, rinascendo dalle ceneri che l’incendio aveva generato. Dopo 8 miliardi di finanziamenti, sotto la guida della Soprintendenza capitolina per i Beni culturali, iniziò la lunga e complessa opera di restauro, durata dal 1992 al 1997. Per la seconda vita della Casina delle Civette, oggi aperta al pubblico come parte dei Musei di Villa Torlonia.
Continua a leggereRiduci
Oltre quaranta parlamentari, tra cui i deputati di Forza Italia Paolo Formentini e Antonio Giordano, sostengono l’iniziativa per rafforzare la diplomazia parlamentare sul corridoio India-Middle East-Europe. Trieste indicata come hub europeo, focus su commercio e cooperazione internazionale.
È stato ufficialmente lanciato al Parlamento italiano il gruppo di amicizia dedicato all’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), sotto la guida di Paolo Formentini, vicepresidente della Commissione Affari esteri, e di Antonio Giordano. Oltre quaranta parlamentari hanno già aderito all’iniziativa, volta a rafforzare la diplomazia parlamentare in un progetto considerato strategico per consolidare i rapporti commerciali e politici tra India, Paesi del Golfo ed Europa. L’Italia figura tra i firmatari originari dell’IMEC, presentato ufficialmente al G20 ospitato dall’India nel settembre 2023 sotto la presidenza del Consiglio Giorgia Meloni.
Formentini e Giordano sono sostenitori di lunga data del corridoio IMEC. Sotto la presidenza di Formentini, la Commissione Esteri ha istituito una struttura permanente dedicata all’Indo-Pacifico, che ha prodotto raccomandazioni per l’orientamento della politica italiana nella regione, sottolineando la necessità di legami più stretti con l’India.
«La nascita di questo intergruppo IMEC dimostra l’efficacia della diplomazia parlamentare. È un terreno di incontro e coesione e, con una iniziativa internazionale come IMEC, assume un ruolo di primissimo piano. Da Presidente del gruppo interparlamentare di amicizia Italia-India non posso che confermare l’importanza di rafforzare i rapporti Roma-Nuova Delhi», ha dichiarato il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Unione europea.
Il senatore ha spiegato che il corridoio parte dall’India e attraversa il Golfo fino a entrare nel Mediterraneo attraverso Israele, potenziando le connessioni tra i Paesi coinvolti e favorendo economia, cooperazione scientifica e tecnologica e scambi culturali. Terzi ha richiamato la visione di Shinzo Abe sulla «confluenza dei due mari», oggi ampliata dalle interconnessioni della Global Gateway europea e dal Piano Mattei.
«Come parlamentari italiani sentiamo la responsabilità di sostenere questo percorso attraverso una diplomazia forte e credibile. L’attività del ministro degli Esteri Antonio Tajani, impegnato a Riad sul dossier IMEC e pronto a guidare una missione in India il 10 e 11 dicembre, conferma l’impegno dell’Italia, che intende accompagnare lo sviluppo del progetto con iniziative concrete, tra cui un grande evento a Trieste previsto per la primavera 2026», ha aggiunto Deborah Bergamini, responsabile relazioni internazionali di Forza Italia.
All’iniziativa hanno partecipato ambasciatori di India, Israele, Egitto e Cipro, insieme ai rappresentanti diplomatici di Germania, Francia, Stati Uniti e Giordania. L’ambasciatore cipriota ha confermato che durante la presidenza semestrale del suo Paese sarà dedicata particolare attenzione all’IMEC, considerato strategico per il rapporto con l’India e il Medio Oriente e fondamentale per l’Unione europea.
La presenza trasversale dei parlamentari testimonia un sostegno bipartisan al rapporto Italia-India. Tra i partecipanti anche la senatrice Tiziana Rojc del Partito democratico e il senatore Marco Dreosto della Lega. Trieste, grazie alla sua rete ferroviaria merci che collega dodici Paesi europei, è indicata come principale hub europeo del corridoio.
Il lancio del gruppo parlamentare segue l’incontro tra il presidente Meloni e il primo ministro Modi al G20 in Sudafrica, che ha consolidato il partenariato strategico, rilanciato gli investimenti bilaterali e discusso la cooperazione per la stabilità in Indo-Pacifico e Africa. A breve è prevista una nuova missione economica guidata dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Tajani.
«L’IMEC rappresenta un passaggio strategico per rafforzare il ruolo del Mediterraneo nelle grandi rotte globali, proponendosi come alternativa competitiva alla Belt and Road e alle rotte artiche. Attraverso la rete di connessioni, potrà garantire la centralità economica del nostro mare», hanno dichiarato Formentini e Giordano, auspicando che altri parlamenti possano costituire gruppi analoghi per sostenere il progetto.
Continua a leggereRiduci