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2020-12-11
Renzi continua il teatrino della crisi. Pur di non votare riciccia Cottarelli
Giuseppe Conte e Matteo Renzi (Ansa)
Il giorno dopo la sparata in Senato di Matteo Renzi, archiviata almeno per il momento la pratica Mes, la maggioranza giallorossa, o almeno quelli che in questa maggioranza contano qualcosa, sono già pronti alla prossima puntata della telenovela «Matteo vs Giuseppi». I due, il premier e l'ex premier, in fondo non possono sopravvivere l'uno senza l'altro. Il primo, presidente del Consiglio per caso, che molti giornali descrivono come una sorta di Napoleone, ha bisogno dei voti di Italia viva in Parlamento; il secondo, ex premier in cerca di visibilità per il suo partitino, gioca ad alimentare questa idea, per passare poi come colui il quale riuscì a frenare Napoleone.
«La cosa migliore per Renzi», confida alla Verità una altissima fonte di governo, «è tenere lì Conte per potergli sparare politicamente addosso, pompando l'immagine del premier accentratore, per costruirsi l'immagine di colui il quale ha il coraggio di sfidare il despota antidemocratico. Tutta fuffa propagandistica: ma ti pare che Teresa Bellanova, con tutto il rispetto», aggiunge la fonte, non riuscendo a trattenere una risata, «sventi un golpe alle due di notte bloccando il testo sulla governance del Recovery plan? Renzi sta giocando la sua partita in maniera teatrale, enfatizza tutto, come la storia dell'emendamento in legge di Bilancio per varare la task force: bene, quell'emendamento non ci sarà mai, ma non certo per opera sua».
«Non ci sarà nessun emendamento in legge di Bilancio che riguarda il Recovery fund, come qualcuno teme», conferma ad Agorà, su Rai 3, il sottosegretario alla Salute, Sandra Zampa. «Non credo ci sarà nessuna crisi di governo», aggiunge la Zampa, «so che ci sono già stati chiarimenti e che il presidente Conte ha già sciolto il nodo». È stato il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, a convincere Conte a fare marcia indietro sull'idea dell'emendamento, altro che Renzi. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, l'ex Rottamatore: a quanto ci risulta starebbe addirittura cercando di convincere Luigi Di Maio a far cadere Conte, con la promessa di mandare lui, Giggino, a Palazzo Chigi. «C'è tanta discussione su questa cabina di regia», sottolinea il ministro degli Esteri, «sul Recovery fund. Penso una cosa: non si può fare a meno dei poteri che consentono di velocizzare le procedure. Non lo si vuole fare fuori dai ministeri ma dentro i ministeri? Io credo che si possa trovare una soluzione. Credo che possiamo discutere di come formare una cabina di regia che permetta da una parte di non togliere assolutamente il potere ai Comuni, alle Regioni e ai ministeri», aggiunge Di Maio, «di agire dal punto di vista dell'azione amministrativa. Però contestualmente ci servono norme che rendano tutto più veloce: per spendere in Italia 209 miliardi di euro in così pochi anni, avremo necessariamente bisogno di norme straordinarie. Non possiamo assolutamente pensare di lasciare le norme ordinarie. Troviamo una soluzione ma basta scontri politici», raccomanda Di Maio, «voglio fare un appello all'unità. Troviamo una soluzione insieme senza azioni o iniziative unilaterali, da una parte e dall'altra».
Di Maio, dunque, si schiera, seppure con le comprensibili sfumature dialettiche, contro l'accentramento di poteri nelle mani di Conte. Lo stesso fa Nicola Zingaretti. «Occorre», scrive il segretario dei dem su Facebook, «un passo in avanti di tutti. Sono emersi problemi: vanno valutati e risolti nel quadro di un limpido confronto tra l'insieme del governo e le forze politiche che lo sostengono. Siamo tutti sulla stessa barca. La ricomposizione si può determinare se ognuno cerca di comprendere le ragioni dell'altro. Questo significa porre i temi in modo costruttivo e non distruttivo e, d'altra parte, non avvertire le critiche come un atto di lesa maestà». La maestà, in questo caso, sarebbe Conte. «Avremo di fronte tra qualche giorno», aggiunge Zingaretti, «una proposta sul Recovery fund. È una proposta, non un pacchetto conchiuso in sé stesso. È figlia del lavoro positivo di questi mesi, ma è doverosamente aperta al confronto in Parlamento, anche con le opposizioni, e nel Paese. Abbiamo in mano la possibilità di cambiare l'Italia. È da irresponsabili dare spazio a rigidità e incomprensioni. La collegialità non è una perdita di tempo e davvero tutti ci devono investire. Ricomporre le differenze per continuare degnamente a guidare il Paese», sottolinea il leader del Pd, «non è una perdita di tempo. Evitare che prevalgano interessi di partito e che ognuno vada per conto proprio non è una perdita di tempo».
Considerato che ormai Di Maio è tornato a guidare il M5s, i leader delle due principali forze politiche che sostengono la maggioranza, quindi, richiamano Conte e Renzi a non proseguire in questo duello più propagandistico che di merito. Sia nel Pd che nel M5s, del resto, sono in pochissimi a prendere sul serio gli ultimatum dell'ex Rottamatore. «Può anche accadere», sospira un big della maggioranza, «che ci scappi l'incidente di percorso e Conte vada a casa. A questo punto, il presidente della Repubblica svolgerà le consultazioni e, pur di non arrivare allo scioglimento del Parlamento, il M5s sarà pronto a digerire un governo guidato da Carlo Cottarelli, imbottito di tecnici e magari sostenuto pure da Forza Italia o parte di essa. Per Renzi sarebbe la fine: non sarebbe più numericamente determinante e quell'area di centro che vorrebbe aggregare, senza riuscirci, finirebbe per coagularsi intorno al premier tecnico. Come finirà? Si andrà al rimpasto, Italia viva piazzerà un ministro in più nel governo e si tirerà avanti».
Il M5s cade a pezzi: via altri quattro
Quarantasette. È il numero, che si presta fin troppo facilmente a ironie derivanti dalla smorfia, nella mente di Luigi Di Maio e di tutta l'ala governista del M5s da ieri mattina. Da quando, cioè, quattro deputati dissidenti hanno colto al balzo la palla fornita dal voto sulla riforma del Mes per salutare tutti gli ex colleghi del Movimento e andare alla ricerca di nuove avventure politiche, ricominciando dal gruppo Misto. Si tratta, per la precisione, di Fabio Bernardini, Carlo Ugo De Girolamo, Antonio Lombardo e Mara Lapia, elementi da tempo in rotta con il gruppo dirigente pentastellato, dei quali un paio hanno anticipato una decisione che sarebbe stata verosimilmente assunta dai probiviri grillini.
Quello che è rilevante, però, è che, statistiche alla mano, la diaspora M5s in Parlamento ha assunto dimensioni nemmeno lontanamente raggiunte, nelle precedenti legislature, da altri partiti. Con i quattro deputati in questione, infatti, gli eletti M5s nelle due Camere che non fanno più parte del gruppo con il quale si sono insediati in Parlamento, sono arrivati alla cifra monstre di 47 (16 senatori e 31 deputati). Se volessimo tradurre il tutto in percentuali, si potrebbe dire che il M5s, ancor prima di confrontarsi con il voto reale delle prossime politiche e vedersi con ogni probabilità ridimensionato in Parlamento, ha già perso un numero di eletti pari al 14 per cento dei suffragi. Un'emorragia continua, dal cui computo sono stati tra l'altro esclusi quei parlamentari che furono espulsi ancor prima di essere eletti, al tempo dello scandalo sui mancati rimborsi, scoppiato nell'ultima campagna elettorale.
Lo strazio, però, sembra ben lungi dal terminare: Fabio Bernardini, infatti, motivando il suo addio al gruppo, ha sibillinamente fatto comprendere che l'esodo potrebbe continuare, quando ha fatto riferimento ai 13 deputati che mercoledì hanno votato contro la risoluzione di maggioranza sul Mes (di cui faceva parte), affermando che questi «sono stati minacciati di espulsione ed emarginati» e parlando di un «clima tossico». Di certo, l'addio era nell'aria da tempo per la deputata Mara Lapia, avvocato di Nuoro che ha giustificato la propria decisione accusando M5s di aver «consumato sul Mes l'ultimo tradimento di tutti i suoi valori fondamentali», ma che già ai tempi del referendum sul taglio dei parlamentari, che pure era una battaglia storica della galassia pentastellata, aveva assunto una posizione di totale dissenso dalla linea del Movimento, arrivando a lanciare strali su Di Maio nel corso di un'infuocata conferenza stampa. Simbolica e profetica, in questo senso, la quasi rissa da Transatlatico che la Lapia ha avuto con l'ormai ex collega Gilda Sportiello, sedata a fatica dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico d'Incà, nel corso del dibattito sul Mes. Uno degli approdi possibili, per lei e gli altri transfughi dell'ultima ora, potrebbe essere ad esempio quello di Paolo Lattanzio e Michele Nitti, deputati eletti nelle fila di M5s, prima passati al Misto e da ieri ufficialmente al Pd, con tanto di entusiastico benvenuto del capogruppo dem Graziano Delrio, mentre al Senato è aperto da tempo, sull'altra sponda politica, un canale con la Lega di Matteo Salvini.
Luigi Di Maio, per il momento, nelle sue uscite pubbliche preferisce glissare: in una diretta Facebook tenuta nel primo pomeriggio di ieri, il ministro degli Esteri ha rivendicato quella che a suo avviso è stata una vittoria del Movimento sul Mes, e lanciato un appello alla coesione della maggioranza sulla questione della cabina di regia del Recovery fund. La priorità, per il momento, è il consolidamento della propria leadership all'interno del Movimento, la cui consultazione online sulle conclusioni degli Stati generali si chiuderà oggi alle 12: «Il tempo è scaduto», ha detto Di Maio, «votiamo e ripartiamo, non c'è più tempo. Serve un M5s forte per un governo forte per la settima potenzia mondiale».
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Riduci
Nella maggioranza quasi tutti scommettono sul bluff: «È il primo a non voler far cadere l'avvocato». Escluse le elezioni anticipate. Ma se dovesse salire la tensione su Giuseppe Conte, in maggioranza gira il nome dell'economista.Nuovo esodo alla Camera dopo il voto sul Mes, mentre il Pd accoglie due ex grillini passati dal Misto. Sono già scappati in 47, eppure Giggino esulta: «Siamo forti».Lo speciale contiene due articoli.Il giorno dopo la sparata in Senato di Matteo Renzi, archiviata almeno per il momento la pratica Mes, la maggioranza giallorossa, o almeno quelli che in questa maggioranza contano qualcosa, sono già pronti alla prossima puntata della telenovela «Matteo vs Giuseppi». I due, il premier e l'ex premier, in fondo non possono sopravvivere l'uno senza l'altro. Il primo, presidente del Consiglio per caso, che molti giornali descrivono come una sorta di Napoleone, ha bisogno dei voti di Italia viva in Parlamento; il secondo, ex premier in cerca di visibilità per il suo partitino, gioca ad alimentare questa idea, per passare poi come colui il quale riuscì a frenare Napoleone. «La cosa migliore per Renzi», confida alla Verità una altissima fonte di governo, «è tenere lì Conte per potergli sparare politicamente addosso, pompando l'immagine del premier accentratore, per costruirsi l'immagine di colui il quale ha il coraggio di sfidare il despota antidemocratico. Tutta fuffa propagandistica: ma ti pare che Teresa Bellanova, con tutto il rispetto», aggiunge la fonte, non riuscendo a trattenere una risata, «sventi un golpe alle due di notte bloccando il testo sulla governance del Recovery plan? Renzi sta giocando la sua partita in maniera teatrale, enfatizza tutto, come la storia dell'emendamento in legge di Bilancio per varare la task force: bene, quell'emendamento non ci sarà mai, ma non certo per opera sua». «Non ci sarà nessun emendamento in legge di Bilancio che riguarda il Recovery fund, come qualcuno teme», conferma ad Agorà, su Rai 3, il sottosegretario alla Salute, Sandra Zampa. «Non credo ci sarà nessuna crisi di governo», aggiunge la Zampa, «so che ci sono già stati chiarimenti e che il presidente Conte ha già sciolto il nodo». È stato il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, a convincere Conte a fare marcia indietro sull'idea dell'emendamento, altro che Renzi. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, l'ex Rottamatore: a quanto ci risulta starebbe addirittura cercando di convincere Luigi Di Maio a far cadere Conte, con la promessa di mandare lui, Giggino, a Palazzo Chigi. «C'è tanta discussione su questa cabina di regia», sottolinea il ministro degli Esteri, «sul Recovery fund. Penso una cosa: non si può fare a meno dei poteri che consentono di velocizzare le procedure. Non lo si vuole fare fuori dai ministeri ma dentro i ministeri? Io credo che si possa trovare una soluzione. Credo che possiamo discutere di come formare una cabina di regia che permetta da una parte di non togliere assolutamente il potere ai Comuni, alle Regioni e ai ministeri», aggiunge Di Maio, «di agire dal punto di vista dell'azione amministrativa. Però contestualmente ci servono norme che rendano tutto più veloce: per spendere in Italia 209 miliardi di euro in così pochi anni, avremo necessariamente bisogno di norme straordinarie. Non possiamo assolutamente pensare di lasciare le norme ordinarie. Troviamo una soluzione ma basta scontri politici», raccomanda Di Maio, «voglio fare un appello all'unità. Troviamo una soluzione insieme senza azioni o iniziative unilaterali, da una parte e dall'altra». Di Maio, dunque, si schiera, seppure con le comprensibili sfumature dialettiche, contro l'accentramento di poteri nelle mani di Conte. Lo stesso fa Nicola Zingaretti. «Occorre», scrive il segretario dei dem su Facebook, «un passo in avanti di tutti. Sono emersi problemi: vanno valutati e risolti nel quadro di un limpido confronto tra l'insieme del governo e le forze politiche che lo sostengono. Siamo tutti sulla stessa barca. La ricomposizione si può determinare se ognuno cerca di comprendere le ragioni dell'altro. Questo significa porre i temi in modo costruttivo e non distruttivo e, d'altra parte, non avvertire le critiche come un atto di lesa maestà». La maestà, in questo caso, sarebbe Conte. «Avremo di fronte tra qualche giorno», aggiunge Zingaretti, «una proposta sul Recovery fund. È una proposta, non un pacchetto conchiuso in sé stesso. È figlia del lavoro positivo di questi mesi, ma è doverosamente aperta al confronto in Parlamento, anche con le opposizioni, e nel Paese. Abbiamo in mano la possibilità di cambiare l'Italia. È da irresponsabili dare spazio a rigidità e incomprensioni. La collegialità non è una perdita di tempo e davvero tutti ci devono investire. Ricomporre le differenze per continuare degnamente a guidare il Paese», sottolinea il leader del Pd, «non è una perdita di tempo. Evitare che prevalgano interessi di partito e che ognuno vada per conto proprio non è una perdita di tempo». Considerato che ormai Di Maio è tornato a guidare il M5s, i leader delle due principali forze politiche che sostengono la maggioranza, quindi, richiamano Conte e Renzi a non proseguire in questo duello più propagandistico che di merito. Sia nel Pd che nel M5s, del resto, sono in pochissimi a prendere sul serio gli ultimatum dell'ex Rottamatore. «Può anche accadere», sospira un big della maggioranza, «che ci scappi l'incidente di percorso e Conte vada a casa. A questo punto, il presidente della Repubblica svolgerà le consultazioni e, pur di non arrivare allo scioglimento del Parlamento, il M5s sarà pronto a digerire un governo guidato da Carlo Cottarelli, imbottito di tecnici e magari sostenuto pure da Forza Italia o parte di essa. Per Renzi sarebbe la fine: non sarebbe più numericamente determinante e quell'area di centro che vorrebbe aggregare, senza riuscirci, finirebbe per coagularsi intorno al premier tecnico. Come finirà? Si andrà al rimpasto, Italia viva piazzerà un ministro in più nel governo e si tirerà avanti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/renzi-continua-il-teatrino-della-crisi-pur-di-non-votare-riciccia-cottarelli-2649442426.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-m5s-cade-a-pezzi-via-altri-quattro" data-post-id="2649442426" data-published-at="1607632059" data-use-pagination="False"> Il M5s cade a pezzi: via altri quattro Quarantasette. È il numero, che si presta fin troppo facilmente a ironie derivanti dalla smorfia, nella mente di Luigi Di Maio e di tutta l'ala governista del M5s da ieri mattina. Da quando, cioè, quattro deputati dissidenti hanno colto al balzo la palla fornita dal voto sulla riforma del Mes per salutare tutti gli ex colleghi del Movimento e andare alla ricerca di nuove avventure politiche, ricominciando dal gruppo Misto. Si tratta, per la precisione, di Fabio Bernardini, Carlo Ugo De Girolamo, Antonio Lombardo e Mara Lapia, elementi da tempo in rotta con il gruppo dirigente pentastellato, dei quali un paio hanno anticipato una decisione che sarebbe stata verosimilmente assunta dai probiviri grillini. Quello che è rilevante, però, è che, statistiche alla mano, la diaspora M5s in Parlamento ha assunto dimensioni nemmeno lontanamente raggiunte, nelle precedenti legislature, da altri partiti. Con i quattro deputati in questione, infatti, gli eletti M5s nelle due Camere che non fanno più parte del gruppo con il quale si sono insediati in Parlamento, sono arrivati alla cifra monstre di 47 (16 senatori e 31 deputati). Se volessimo tradurre il tutto in percentuali, si potrebbe dire che il M5s, ancor prima di confrontarsi con il voto reale delle prossime politiche e vedersi con ogni probabilità ridimensionato in Parlamento, ha già perso un numero di eletti pari al 14 per cento dei suffragi. Un'emorragia continua, dal cui computo sono stati tra l'altro esclusi quei parlamentari che furono espulsi ancor prima di essere eletti, al tempo dello scandalo sui mancati rimborsi, scoppiato nell'ultima campagna elettorale. Lo strazio, però, sembra ben lungi dal terminare: Fabio Bernardini, infatti, motivando il suo addio al gruppo, ha sibillinamente fatto comprendere che l'esodo potrebbe continuare, quando ha fatto riferimento ai 13 deputati che mercoledì hanno votato contro la risoluzione di maggioranza sul Mes (di cui faceva parte), affermando che questi «sono stati minacciati di espulsione ed emarginati» e parlando di un «clima tossico». Di certo, l'addio era nell'aria da tempo per la deputata Mara Lapia, avvocato di Nuoro che ha giustificato la propria decisione accusando M5s di aver «consumato sul Mes l'ultimo tradimento di tutti i suoi valori fondamentali», ma che già ai tempi del referendum sul taglio dei parlamentari, che pure era una battaglia storica della galassia pentastellata, aveva assunto una posizione di totale dissenso dalla linea del Movimento, arrivando a lanciare strali su Di Maio nel corso di un'infuocata conferenza stampa. Simbolica e profetica, in questo senso, la quasi rissa da Transatlatico che la Lapia ha avuto con l'ormai ex collega Gilda Sportiello, sedata a fatica dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico d'Incà, nel corso del dibattito sul Mes. Uno degli approdi possibili, per lei e gli altri transfughi dell'ultima ora, potrebbe essere ad esempio quello di Paolo Lattanzio e Michele Nitti, deputati eletti nelle fila di M5s, prima passati al Misto e da ieri ufficialmente al Pd, con tanto di entusiastico benvenuto del capogruppo dem Graziano Delrio, mentre al Senato è aperto da tempo, sull'altra sponda politica, un canale con la Lega di Matteo Salvini. Luigi Di Maio, per il momento, nelle sue uscite pubbliche preferisce glissare: in una diretta Facebook tenuta nel primo pomeriggio di ieri, il ministro degli Esteri ha rivendicato quella che a suo avviso è stata una vittoria del Movimento sul Mes, e lanciato un appello alla coesione della maggioranza sulla questione della cabina di regia del Recovery fund. La priorità, per il momento, è il consolidamento della propria leadership all'interno del Movimento, la cui consultazione online sulle conclusioni degli Stati generali si chiuderà oggi alle 12: «Il tempo è scaduto», ha detto Di Maio, «votiamo e ripartiamo, non c'è più tempo. Serve un M5s forte per un governo forte per la settima potenzia mondiale».
Ursula von der Leyen (Ansa)
Per quanto riguarda, invece, la direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (Csrd), che impone alle aziende di comunicare il proprio impatto ambientale e sociale, l’accordo prevede si applichi solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo di 450 milioni di euro.
Con le modifiche decise due giorni fa, l’80% delle aziende che sarebbero state soggette alla norma saranno ora liberate dagli obblighi. Festeggia Ursula von der Leyen: «Accolgo con favore l’accordo politico sul pacchetto di semplificazione Omnibus I. Con un risparmio fino a 4,5 miliardi di euro ridurrà i costi amministrativi, taglierà la burocrazia e renderà più semplice il rispetto delle norme di sostenibilità», ha detto il presidente della Commissione.
In un comunicato stampa, la Commissione dice: «Le misure proposte per ridurre l’ambito di applicazione della Csrd genereranno notevoli risparmi sui costi per le aziende. Le modifiche alla Csddd eliminano inutili complessità e, in ultima analisi, riducono gli oneri di conformità, preservando al contempo gli obiettivi della direttiva».
Dunque, ricapitolando, la revisione libera dall’obbligo di conformità l’80% dei soggetti obbligati dalla vecchia norma, il che significa evidentemente che per l’80% dei casi quella norma era inutile, anzi dannosa, visto che comportava costi ingenti per il suo rispetto e nessuna utilità pratica. Se vi fosse stata una qualche utilità la norma sarebbe rimasta anche per questi, è chiaro.
Non solo. Von der Leyen si rallegra di avere fatto risparmiare 4,5 miliardi di euro, come se a scaricare quella montagna di costi sulle aziende fosse stato qualcun altro o il destino cinico e baro, e non la norma che lei stessa e la sua maggioranza hanno voluto. La Commissione si rallegra di aver semplificato cose che essa stessa ha complicato, di avere tolto burocrazia dopo averla messa.
In questa commedia si potrebbe sospettare una regia di Eugène Ionesco, se fosse ancora vivo. La verità è che già la scorsa primavera, Germania e Francia avevano chiesto l’abrogazione completa delle norme. Nelle dichiarazioni a seguito dell’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento, con la benedizione della Commissione, non è da meno il sagace ministro danese dell’Industria, Morten Bodskov (la Danimarca ha la presidenza di turno del Consiglio Ue): «Non stiamo rimuovendo gli obiettivi green, stiamo rendendo più semplice raggiungerli. Pensavamo che legislazione verde più complessa avrebbe creato più posti di lavoro green, ma non è così: anzi, ha generato lavoro per la contabilità». C’è da chiedersi se da quelle parti siano davvero sorpresi dell’effetto negativo generato dall’imposizione di inutile burocrazia sulle aziende. Sul serio a Bruxelles qualcuno pensa che complicare la vita alle imprese generi posti di lavoro? Sono dichiarazioni ben più che preoccupanti.
Fine di un incubo per migliaia di aziende europee, dunque, ma i problemi restano, essendo la norma di difficile applicazione pratica anche per le multinazionali. Sulla revisione delle due direttive hanno giocato certamente un ruolo le pressioni degli Stati Uniti, dopo che Donald Trump a più riprese ha sottolineato come vi siano barriere non di prezzo all’ingresso nel mercato europeo che devono essere eliminate. Due di queste barriere sono proprio le direttive Csrd e Csddd, che restano in vigore per le grandi aziende. Non a caso, il portavoce dell’azienda americana del petrolio Exxon Mobil ha fatto notare che si tratta di norme extraterritoriali, definendole «inaccettabili», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder ha detto che le norme rendono difficile la fornitura all’Europa dell’energia di cui ha bisogno.
La sensazione è che si vada verso un regime di esenzioni ad hoc, si vedrà. Ma i lamenti arrivano anche dalla parte opposta. La finanza green brontola perché teme un aumento dei rischi, senza i piani climatici delle aziende, che però nessuno sinora ha mai visto. Misteri degli algoritmi Esg.
Ora le modifiche, che fanno parte del pacchetto Omnibus I presentato lo scorso febbraio dalla Commissione, dovranno essere approvate dal Consiglio Ue, dove votano i ministri e dove non dovrebbe incontrare ostacoli, e dal Parlamento europeo, dove invece è possibile qualche sorpresa nel voto. La posizione del Parlamento che ha portato all’accordo di martedì è frutto di una intesa tra i popolari del Ppe e la destra dei Patrioti e di Ecr. Il gruppo dei Patrioti esulta, sottolineando come l’accordo sia frutto di una nuova maggioranza di centrodestra che rende superata la maggioranza attuale tra Ppe, Renew e Socialisti.
Il risvolto politico della vicenda è che si è rotto definitivamente il «cordone sanitario» steso a Bruxelles attorno al gruppo che comprende il Rassemblement national francese di Marine Le Pen, il partito ungherese Fidesz e la Lega di Matteo Salvini.
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Riduci
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Bce, pur riconoscendo «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi», continua ad avere «dubbi sulla finalità della norma». Con la lettera, Giorgetti rassicura che l’emendamento non mira a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori del bilancio di Bankitalia e non contiene nessun escamotage per aggirare il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il ministro potrebbe inoltre fornire un ulteriore chiarimento direttamente alla presidente Lagarde, oggi, quando i due si incontreranno per i lavori dell’Eurogruppo. Se la Bce si riterrà soddisfatta delle precisazioni, il ministero dell’Economia darà indicazioni per riformulare l’emendamento.
Una nota informativa di Fdi, smonta i pregiudizi ideologici e le perplessità che sono dietro alla nota della Bce. «L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia è volto a specificare un concetto che dovrebbe essere condiviso da tutti: ovvero che le riserve auree sono di proprietà dei popoli che le hanno accumulate negli anni, e quindi», si legge, «si tratta di una previsione che tutti danno per scontata. Eppure non è mai stata codificata nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in altri Stati, anche membri dell’Ue. Affermare che la proprietà delle riserve auree appartenga al popolo non confligge, infatti, in alcun modo con i trattati e i regolamenti europei». Quindi ribadire un principio scontato, e cioè che le riserve auree sono di proprietà del popolo italiano, non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. «Già nel 2019 la Bce, allora guidata da Mario Draghi, aveva chiarito che la questione della proprietà legale e delle competenze del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), con riferimento alle riserve auree degli Stati membri, è definita in ultima istanza dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)». La nota ricorda che «il parere della Bce del 2019, analogamente a quello redatto lo scorso 2 dicembre, evidenziava che il Trattato non determina le competenze del Sebc e della Bce rispetto alle riserve ufficiali, usando il concetto di proprietà. Piuttosto, il Trattato interviene solo sulla dimensione della detenzione e gestione esclusiva delle riserve. Pertanto, dire che la proprietà delle riserve auree sia del popolo italiano non lede in alcun modo la prerogativa della Banca d’Italia di detenere e gestire le riserve».
Altro punto: Fdi spiega che «nel Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Ue) si parla di “riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”, quindi si prevede implicitamente che la proprietà delle riserve sia in capo agli Stati. L’emendamento di Fdi vuole esplicitare nell’ordinamento italiano questa previsione». C’è chi sostiene che affermare che la proprietà delle riserve auree di Bankitalia è del popolo italiano non serva a nulla. Ma Fdi dice che «l’Italia non può correre il rischio che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani. Per questo c’è bisogno di una norma che faccia chiarezza sulla proprietà».
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Riduci
Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.
Christine Lagarde (Ansa)
Come accade, ad esempio, in quel carrozzone chiamato Unione europea dove tutti, a partire dalla lìder maxima, Ursula von der Leyen, non dimenticano mai di inserire nella lista delle priorità l’aumento del proprio stipendio. Ne ha parlato la Bild, il giornale più letto e venduto d’Europa, raccontando come la presidente della Commissione europea abbia aumentato il suo stipendio, e quello degli euroburocrati, due volte l’anno. E chiunque non sia allergico alla meritocrazia così come alle regole non scritte dell’accountability (l’onere morale di rispondere del proprio operato) non potrà non scandalizzarsi pensando che donna Ursula, dopo aver trasformato l’Ue in un nano economico, ammazzando l’industria europea con il folle progetto del Green deal, percepisca per questo capolavoro gestionale ben 35.800 euro al mese, contro i 6.700 netti che, ad esempio, guadagna il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Allo stesso modo funzionano le altre istituzioni dell’Unione europea. L’Ue impiega circa 60.000 persone all’interno delle sue varie istituzioni e organi, distribuiti tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Corte di giustizia dell’Unione europea e il Comitato economico e sociale). La funzione pubblica europea ha tre categorie di agenti: gli amministratori, gli assistenti e gli assistenti segretari. L’Ue contrattualizza inoltre molti agenti contrattuali. Secondo i dati della Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 2019, questi funzionari comunitari guadagnano tra 4.883 euro e 18.994 euro mensili (gradi da 5 a 16 del livello 1).
Il «vizietto» di alzarsi lo stipendio ha fatto scuola anche presso la Banca centrale europea (Bce), che ha sede a Francoforte, in Germania, ed è presieduta dalla francese, Christine Lagarde. Secondo quanto riassunto nel bilancio della Bce, lo stipendio base annuale della presidente è aumentato del 4,7 per cento, arrivando a 466.092 euro rispetto ai 444.984 euro percepiti nel 2023 (cui si aggiungono specifiche indennità e detrazioni fiscali comunitarie, diverse da quelle nazionali), ergo 38.841 euro al mese. Il vicepresidente Luis de Guindos, spagnolo, percepisce circa 400.000 euro (valore stimato in base ai rapporti precedenti, di solito corrispondente all’85-90% dello stipendio della presidente). Gli altri membri del comitato esecutivo guadagnano invece circa 330.000-340.000 euro ciascuno. Ai membri spettano anche le indennità di residenza (15% dello stipendio base), di rappresentanza e per figli a carico, che aumentano il netto effettivo. Il costo totale annuale del personale della Bce è di 844 milioni di euro, valore che include stipendi, indennità, contributi previdenziali e costi per le pensioni di tutti i dipendenti della banca. Il dato incredibile è che questa voce è aumentata di quasi 200 milioni in due anni: nel 2023, infatti, il costo totale annuale del personale era di 676 milioni di euro. Secondo una nota ufficiale della Bce, l’incremento del 2024 è dovuto principalmente a modifiche nelle regole dei piani pensionistici e ai benefici post impiego, oltre ai normali adeguamenti salariali legati all’inflazione, cresciuta del 2,4 per cento a dicembre dello scorso anno. La morale è chiara ed è la stessa riassunta ieri dal direttore, Maurizio Belpietro: per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, ma se si tratta dello stipendio dei funzionari Ue, il discorso non vale.
Stessa solfa alla Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo: gli stipendi variano notevolmente a seconda della posizione (avvocato, cancelliere, giudice, personale amministrativo), ma sono generalmente elevati, con giuristi principianti che possono guadagnare da 2.000 a 5.000 euro al mese e stipendi più alti per i magistrati, anche se cifre precise per i giudici non sono facilmente disponibili pubblicamente. Gli stipendi si basano sulle griglie della funzione pubblica europea e aumentano con l’anzianità, passando da 2.600 euro per il personale esecutivo a oltre 18.000 euro per alcuni alti funzionari.
Il problema, va precisato, non risiede nel fatto che le persone competenti siano pagate bene, com’è giusto che sia, ma che svolgano bene il proprio lavoro e soprattutto che ci sia trasparenza sui salari. Dei risultati delle politiche di Von der Leyen e Lagarde i giudici non sono esattamente entusiastici, ma il conto lo pagano, come al solito, i cittadini europei.
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