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2020-12-11
Renzi continua il teatrino della crisi. Pur di non votare riciccia Cottarelli
Giuseppe Conte e Matteo Renzi (Ansa)
Il giorno dopo la sparata in Senato di Matteo Renzi, archiviata almeno per il momento la pratica Mes, la maggioranza giallorossa, o almeno quelli che in questa maggioranza contano qualcosa, sono già pronti alla prossima puntata della telenovela «Matteo vs Giuseppi». I due, il premier e l'ex premier, in fondo non possono sopravvivere l'uno senza l'altro. Il primo, presidente del Consiglio per caso, che molti giornali descrivono come una sorta di Napoleone, ha bisogno dei voti di Italia viva in Parlamento; il secondo, ex premier in cerca di visibilità per il suo partitino, gioca ad alimentare questa idea, per passare poi come colui il quale riuscì a frenare Napoleone.
«La cosa migliore per Renzi», confida alla Verità una altissima fonte di governo, «è tenere lì Conte per potergli sparare politicamente addosso, pompando l'immagine del premier accentratore, per costruirsi l'immagine di colui il quale ha il coraggio di sfidare il despota antidemocratico. Tutta fuffa propagandistica: ma ti pare che Teresa Bellanova, con tutto il rispetto», aggiunge la fonte, non riuscendo a trattenere una risata, «sventi un golpe alle due di notte bloccando il testo sulla governance del Recovery plan? Renzi sta giocando la sua partita in maniera teatrale, enfatizza tutto, come la storia dell'emendamento in legge di Bilancio per varare la task force: bene, quell'emendamento non ci sarà mai, ma non certo per opera sua».
«Non ci sarà nessun emendamento in legge di Bilancio che riguarda il Recovery fund, come qualcuno teme», conferma ad Agorà, su Rai 3, il sottosegretario alla Salute, Sandra Zampa. «Non credo ci sarà nessuna crisi di governo», aggiunge la Zampa, «so che ci sono già stati chiarimenti e che il presidente Conte ha già sciolto il nodo». È stato il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, a convincere Conte a fare marcia indietro sull'idea dell'emendamento, altro che Renzi. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, l'ex Rottamatore: a quanto ci risulta starebbe addirittura cercando di convincere Luigi Di Maio a far cadere Conte, con la promessa di mandare lui, Giggino, a Palazzo Chigi. «C'è tanta discussione su questa cabina di regia», sottolinea il ministro degli Esteri, «sul Recovery fund. Penso una cosa: non si può fare a meno dei poteri che consentono di velocizzare le procedure. Non lo si vuole fare fuori dai ministeri ma dentro i ministeri? Io credo che si possa trovare una soluzione. Credo che possiamo discutere di come formare una cabina di regia che permetta da una parte di non togliere assolutamente il potere ai Comuni, alle Regioni e ai ministeri», aggiunge Di Maio, «di agire dal punto di vista dell'azione amministrativa. Però contestualmente ci servono norme che rendano tutto più veloce: per spendere in Italia 209 miliardi di euro in così pochi anni, avremo necessariamente bisogno di norme straordinarie. Non possiamo assolutamente pensare di lasciare le norme ordinarie. Troviamo una soluzione ma basta scontri politici», raccomanda Di Maio, «voglio fare un appello all'unità. Troviamo una soluzione insieme senza azioni o iniziative unilaterali, da una parte e dall'altra».
Di Maio, dunque, si schiera, seppure con le comprensibili sfumature dialettiche, contro l'accentramento di poteri nelle mani di Conte. Lo stesso fa Nicola Zingaretti. «Occorre», scrive il segretario dei dem su Facebook, «un passo in avanti di tutti. Sono emersi problemi: vanno valutati e risolti nel quadro di un limpido confronto tra l'insieme del governo e le forze politiche che lo sostengono. Siamo tutti sulla stessa barca. La ricomposizione si può determinare se ognuno cerca di comprendere le ragioni dell'altro. Questo significa porre i temi in modo costruttivo e non distruttivo e, d'altra parte, non avvertire le critiche come un atto di lesa maestà». La maestà, in questo caso, sarebbe Conte. «Avremo di fronte tra qualche giorno», aggiunge Zingaretti, «una proposta sul Recovery fund. È una proposta, non un pacchetto conchiuso in sé stesso. È figlia del lavoro positivo di questi mesi, ma è doverosamente aperta al confronto in Parlamento, anche con le opposizioni, e nel Paese. Abbiamo in mano la possibilità di cambiare l'Italia. È da irresponsabili dare spazio a rigidità e incomprensioni. La collegialità non è una perdita di tempo e davvero tutti ci devono investire. Ricomporre le differenze per continuare degnamente a guidare il Paese», sottolinea il leader del Pd, «non è una perdita di tempo. Evitare che prevalgano interessi di partito e che ognuno vada per conto proprio non è una perdita di tempo».
Considerato che ormai Di Maio è tornato a guidare il M5s, i leader delle due principali forze politiche che sostengono la maggioranza, quindi, richiamano Conte e Renzi a non proseguire in questo duello più propagandistico che di merito. Sia nel Pd che nel M5s, del resto, sono in pochissimi a prendere sul serio gli ultimatum dell'ex Rottamatore. «Può anche accadere», sospira un big della maggioranza, «che ci scappi l'incidente di percorso e Conte vada a casa. A questo punto, il presidente della Repubblica svolgerà le consultazioni e, pur di non arrivare allo scioglimento del Parlamento, il M5s sarà pronto a digerire un governo guidato da Carlo Cottarelli, imbottito di tecnici e magari sostenuto pure da Forza Italia o parte di essa. Per Renzi sarebbe la fine: non sarebbe più numericamente determinante e quell'area di centro che vorrebbe aggregare, senza riuscirci, finirebbe per coagularsi intorno al premier tecnico. Come finirà? Si andrà al rimpasto, Italia viva piazzerà un ministro in più nel governo e si tirerà avanti».
Il M5s cade a pezzi: via altri quattro
Quarantasette. È il numero, che si presta fin troppo facilmente a ironie derivanti dalla smorfia, nella mente di Luigi Di Maio e di tutta l'ala governista del M5s da ieri mattina. Da quando, cioè, quattro deputati dissidenti hanno colto al balzo la palla fornita dal voto sulla riforma del Mes per salutare tutti gli ex colleghi del Movimento e andare alla ricerca di nuove avventure politiche, ricominciando dal gruppo Misto. Si tratta, per la precisione, di Fabio Bernardini, Carlo Ugo De Girolamo, Antonio Lombardo e Mara Lapia, elementi da tempo in rotta con il gruppo dirigente pentastellato, dei quali un paio hanno anticipato una decisione che sarebbe stata verosimilmente assunta dai probiviri grillini.
Quello che è rilevante, però, è che, statistiche alla mano, la diaspora M5s in Parlamento ha assunto dimensioni nemmeno lontanamente raggiunte, nelle precedenti legislature, da altri partiti. Con i quattro deputati in questione, infatti, gli eletti M5s nelle due Camere che non fanno più parte del gruppo con il quale si sono insediati in Parlamento, sono arrivati alla cifra monstre di 47 (16 senatori e 31 deputati). Se volessimo tradurre il tutto in percentuali, si potrebbe dire che il M5s, ancor prima di confrontarsi con il voto reale delle prossime politiche e vedersi con ogni probabilità ridimensionato in Parlamento, ha già perso un numero di eletti pari al 14 per cento dei suffragi. Un'emorragia continua, dal cui computo sono stati tra l'altro esclusi quei parlamentari che furono espulsi ancor prima di essere eletti, al tempo dello scandalo sui mancati rimborsi, scoppiato nell'ultima campagna elettorale.
Lo strazio, però, sembra ben lungi dal terminare: Fabio Bernardini, infatti, motivando il suo addio al gruppo, ha sibillinamente fatto comprendere che l'esodo potrebbe continuare, quando ha fatto riferimento ai 13 deputati che mercoledì hanno votato contro la risoluzione di maggioranza sul Mes (di cui faceva parte), affermando che questi «sono stati minacciati di espulsione ed emarginati» e parlando di un «clima tossico». Di certo, l'addio era nell'aria da tempo per la deputata Mara Lapia, avvocato di Nuoro che ha giustificato la propria decisione accusando M5s di aver «consumato sul Mes l'ultimo tradimento di tutti i suoi valori fondamentali», ma che già ai tempi del referendum sul taglio dei parlamentari, che pure era una battaglia storica della galassia pentastellata, aveva assunto una posizione di totale dissenso dalla linea del Movimento, arrivando a lanciare strali su Di Maio nel corso di un'infuocata conferenza stampa. Simbolica e profetica, in questo senso, la quasi rissa da Transatlatico che la Lapia ha avuto con l'ormai ex collega Gilda Sportiello, sedata a fatica dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico d'Incà, nel corso del dibattito sul Mes. Uno degli approdi possibili, per lei e gli altri transfughi dell'ultima ora, potrebbe essere ad esempio quello di Paolo Lattanzio e Michele Nitti, deputati eletti nelle fila di M5s, prima passati al Misto e da ieri ufficialmente al Pd, con tanto di entusiastico benvenuto del capogruppo dem Graziano Delrio, mentre al Senato è aperto da tempo, sull'altra sponda politica, un canale con la Lega di Matteo Salvini.
Luigi Di Maio, per il momento, nelle sue uscite pubbliche preferisce glissare: in una diretta Facebook tenuta nel primo pomeriggio di ieri, il ministro degli Esteri ha rivendicato quella che a suo avviso è stata una vittoria del Movimento sul Mes, e lanciato un appello alla coesione della maggioranza sulla questione della cabina di regia del Recovery fund. La priorità, per il momento, è il consolidamento della propria leadership all'interno del Movimento, la cui consultazione online sulle conclusioni degli Stati generali si chiuderà oggi alle 12: «Il tempo è scaduto», ha detto Di Maio, «votiamo e ripartiamo, non c'è più tempo. Serve un M5s forte per un governo forte per la settima potenzia mondiale».
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Nella maggioranza quasi tutti scommettono sul bluff: «È il primo a non voler far cadere l'avvocato». Escluse le elezioni anticipate. Ma se dovesse salire la tensione su Giuseppe Conte, in maggioranza gira il nome dell'economista.Nuovo esodo alla Camera dopo il voto sul Mes, mentre il Pd accoglie due ex grillini passati dal Misto. Sono già scappati in 47, eppure Giggino esulta: «Siamo forti».Lo speciale contiene due articoli.Il giorno dopo la sparata in Senato di Matteo Renzi, archiviata almeno per il momento la pratica Mes, la maggioranza giallorossa, o almeno quelli che in questa maggioranza contano qualcosa, sono già pronti alla prossima puntata della telenovela «Matteo vs Giuseppi». I due, il premier e l'ex premier, in fondo non possono sopravvivere l'uno senza l'altro. Il primo, presidente del Consiglio per caso, che molti giornali descrivono come una sorta di Napoleone, ha bisogno dei voti di Italia viva in Parlamento; il secondo, ex premier in cerca di visibilità per il suo partitino, gioca ad alimentare questa idea, per passare poi come colui il quale riuscì a frenare Napoleone. «La cosa migliore per Renzi», confida alla Verità una altissima fonte di governo, «è tenere lì Conte per potergli sparare politicamente addosso, pompando l'immagine del premier accentratore, per costruirsi l'immagine di colui il quale ha il coraggio di sfidare il despota antidemocratico. Tutta fuffa propagandistica: ma ti pare che Teresa Bellanova, con tutto il rispetto», aggiunge la fonte, non riuscendo a trattenere una risata, «sventi un golpe alle due di notte bloccando il testo sulla governance del Recovery plan? Renzi sta giocando la sua partita in maniera teatrale, enfatizza tutto, come la storia dell'emendamento in legge di Bilancio per varare la task force: bene, quell'emendamento non ci sarà mai, ma non certo per opera sua». «Non ci sarà nessun emendamento in legge di Bilancio che riguarda il Recovery fund, come qualcuno teme», conferma ad Agorà, su Rai 3, il sottosegretario alla Salute, Sandra Zampa. «Non credo ci sarà nessuna crisi di governo», aggiunge la Zampa, «so che ci sono già stati chiarimenti e che il presidente Conte ha già sciolto il nodo». È stato il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, a convincere Conte a fare marcia indietro sull'idea dell'emendamento, altro che Renzi. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, l'ex Rottamatore: a quanto ci risulta starebbe addirittura cercando di convincere Luigi Di Maio a far cadere Conte, con la promessa di mandare lui, Giggino, a Palazzo Chigi. «C'è tanta discussione su questa cabina di regia», sottolinea il ministro degli Esteri, «sul Recovery fund. Penso una cosa: non si può fare a meno dei poteri che consentono di velocizzare le procedure. Non lo si vuole fare fuori dai ministeri ma dentro i ministeri? Io credo che si possa trovare una soluzione. Credo che possiamo discutere di come formare una cabina di regia che permetta da una parte di non togliere assolutamente il potere ai Comuni, alle Regioni e ai ministeri», aggiunge Di Maio, «di agire dal punto di vista dell'azione amministrativa. Però contestualmente ci servono norme che rendano tutto più veloce: per spendere in Italia 209 miliardi di euro in così pochi anni, avremo necessariamente bisogno di norme straordinarie. Non possiamo assolutamente pensare di lasciare le norme ordinarie. Troviamo una soluzione ma basta scontri politici», raccomanda Di Maio, «voglio fare un appello all'unità. Troviamo una soluzione insieme senza azioni o iniziative unilaterali, da una parte e dall'altra». Di Maio, dunque, si schiera, seppure con le comprensibili sfumature dialettiche, contro l'accentramento di poteri nelle mani di Conte. Lo stesso fa Nicola Zingaretti. «Occorre», scrive il segretario dei dem su Facebook, «un passo in avanti di tutti. Sono emersi problemi: vanno valutati e risolti nel quadro di un limpido confronto tra l'insieme del governo e le forze politiche che lo sostengono. Siamo tutti sulla stessa barca. La ricomposizione si può determinare se ognuno cerca di comprendere le ragioni dell'altro. Questo significa porre i temi in modo costruttivo e non distruttivo e, d'altra parte, non avvertire le critiche come un atto di lesa maestà». La maestà, in questo caso, sarebbe Conte. «Avremo di fronte tra qualche giorno», aggiunge Zingaretti, «una proposta sul Recovery fund. È una proposta, non un pacchetto conchiuso in sé stesso. È figlia del lavoro positivo di questi mesi, ma è doverosamente aperta al confronto in Parlamento, anche con le opposizioni, e nel Paese. Abbiamo in mano la possibilità di cambiare l'Italia. È da irresponsabili dare spazio a rigidità e incomprensioni. La collegialità non è una perdita di tempo e davvero tutti ci devono investire. Ricomporre le differenze per continuare degnamente a guidare il Paese», sottolinea il leader del Pd, «non è una perdita di tempo. Evitare che prevalgano interessi di partito e che ognuno vada per conto proprio non è una perdita di tempo». Considerato che ormai Di Maio è tornato a guidare il M5s, i leader delle due principali forze politiche che sostengono la maggioranza, quindi, richiamano Conte e Renzi a non proseguire in questo duello più propagandistico che di merito. Sia nel Pd che nel M5s, del resto, sono in pochissimi a prendere sul serio gli ultimatum dell'ex Rottamatore. «Può anche accadere», sospira un big della maggioranza, «che ci scappi l'incidente di percorso e Conte vada a casa. A questo punto, il presidente della Repubblica svolgerà le consultazioni e, pur di non arrivare allo scioglimento del Parlamento, il M5s sarà pronto a digerire un governo guidato da Carlo Cottarelli, imbottito di tecnici e magari sostenuto pure da Forza Italia o parte di essa. Per Renzi sarebbe la fine: non sarebbe più numericamente determinante e quell'area di centro che vorrebbe aggregare, senza riuscirci, finirebbe per coagularsi intorno al premier tecnico. Come finirà? Si andrà al rimpasto, Italia viva piazzerà un ministro in più nel governo e si tirerà avanti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/renzi-continua-il-teatrino-della-crisi-pur-di-non-votare-riciccia-cottarelli-2649442426.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-m5s-cade-a-pezzi-via-altri-quattro" data-post-id="2649442426" data-published-at="1607632059" data-use-pagination="False"> Il M5s cade a pezzi: via altri quattro Quarantasette. È il numero, che si presta fin troppo facilmente a ironie derivanti dalla smorfia, nella mente di Luigi Di Maio e di tutta l'ala governista del M5s da ieri mattina. Da quando, cioè, quattro deputati dissidenti hanno colto al balzo la palla fornita dal voto sulla riforma del Mes per salutare tutti gli ex colleghi del Movimento e andare alla ricerca di nuove avventure politiche, ricominciando dal gruppo Misto. Si tratta, per la precisione, di Fabio Bernardini, Carlo Ugo De Girolamo, Antonio Lombardo e Mara Lapia, elementi da tempo in rotta con il gruppo dirigente pentastellato, dei quali un paio hanno anticipato una decisione che sarebbe stata verosimilmente assunta dai probiviri grillini. Quello che è rilevante, però, è che, statistiche alla mano, la diaspora M5s in Parlamento ha assunto dimensioni nemmeno lontanamente raggiunte, nelle precedenti legislature, da altri partiti. Con i quattro deputati in questione, infatti, gli eletti M5s nelle due Camere che non fanno più parte del gruppo con il quale si sono insediati in Parlamento, sono arrivati alla cifra monstre di 47 (16 senatori e 31 deputati). Se volessimo tradurre il tutto in percentuali, si potrebbe dire che il M5s, ancor prima di confrontarsi con il voto reale delle prossime politiche e vedersi con ogni probabilità ridimensionato in Parlamento, ha già perso un numero di eletti pari al 14 per cento dei suffragi. Un'emorragia continua, dal cui computo sono stati tra l'altro esclusi quei parlamentari che furono espulsi ancor prima di essere eletti, al tempo dello scandalo sui mancati rimborsi, scoppiato nell'ultima campagna elettorale. Lo strazio, però, sembra ben lungi dal terminare: Fabio Bernardini, infatti, motivando il suo addio al gruppo, ha sibillinamente fatto comprendere che l'esodo potrebbe continuare, quando ha fatto riferimento ai 13 deputati che mercoledì hanno votato contro la risoluzione di maggioranza sul Mes (di cui faceva parte), affermando che questi «sono stati minacciati di espulsione ed emarginati» e parlando di un «clima tossico». Di certo, l'addio era nell'aria da tempo per la deputata Mara Lapia, avvocato di Nuoro che ha giustificato la propria decisione accusando M5s di aver «consumato sul Mes l'ultimo tradimento di tutti i suoi valori fondamentali», ma che già ai tempi del referendum sul taglio dei parlamentari, che pure era una battaglia storica della galassia pentastellata, aveva assunto una posizione di totale dissenso dalla linea del Movimento, arrivando a lanciare strali su Di Maio nel corso di un'infuocata conferenza stampa. Simbolica e profetica, in questo senso, la quasi rissa da Transatlatico che la Lapia ha avuto con l'ormai ex collega Gilda Sportiello, sedata a fatica dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico d'Incà, nel corso del dibattito sul Mes. Uno degli approdi possibili, per lei e gli altri transfughi dell'ultima ora, potrebbe essere ad esempio quello di Paolo Lattanzio e Michele Nitti, deputati eletti nelle fila di M5s, prima passati al Misto e da ieri ufficialmente al Pd, con tanto di entusiastico benvenuto del capogruppo dem Graziano Delrio, mentre al Senato è aperto da tempo, sull'altra sponda politica, un canale con la Lega di Matteo Salvini. Luigi Di Maio, per il momento, nelle sue uscite pubbliche preferisce glissare: in una diretta Facebook tenuta nel primo pomeriggio di ieri, il ministro degli Esteri ha rivendicato quella che a suo avviso è stata una vittoria del Movimento sul Mes, e lanciato un appello alla coesione della maggioranza sulla questione della cabina di regia del Recovery fund. La priorità, per il momento, è il consolidamento della propria leadership all'interno del Movimento, la cui consultazione online sulle conclusioni degli Stati generali si chiuderà oggi alle 12: «Il tempo è scaduto», ha detto Di Maio, «votiamo e ripartiamo, non c'è più tempo. Serve un M5s forte per un governo forte per la settima potenzia mondiale».
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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