2022-03-27
Il Regno Unito torna protagonista. La realtà smonta le bugie anti Brexit
Londra ha un ruolo centrale nel conflitto, non si limita a subire gli eventi. E può stringere accordi senza i diktat di Bruxelles.Ma come? Non vi avevano raccontato che, dopo Brexit, la Gran Bretagna avrebbe affrontato una sciagura dopo l’altra, tra un definitivo isolamento geopolitico e una devastante crisi economica? Ci vorrebbe un Requiem per i «competenti». Avevano detto, all’epoca del referendum (giugno 2016) che il «Remain» avrebbe stravinto: e invece trionfò il «Leave». Poi, avevano pronosticato che Boris Johnson non sarebbe mai diventato primo ministro: e invece siede a Downing Street (non senza problemi, va detto: e non tanto per le contestate riunioni durante il lockdown, ma perché non taglia le tasse come dovrebbe). Poi avevano detto che Johnson, con i suoi modi ruvidi, non avrebbe mai strappato ai negoziatori di Bruxelles un’intesa più forte di quella - deludente e infatti rifiutata dal Parlamento britannico - ottenuta in prima istanza da Theresa May: e invece Johnson, minacciando la carta del «no deal», ha smontato le trincee di Bruxelles. Poi i nostri «esperti», per due anni, si sono sganasciati dalle risate sulla strategia anti Covid del Regno Unito, definendola (nei giorni pari) suicida e (in quelli dispari) assassina. Risultato? La Gran Bretagna ha cancellato tutte le restrizioni da luglio scorso (prima di ogni altro Paese) ed è tornata ai livelli di crescita economica pre Covid. E però, disse uno stizzito Sergio Mattarella in una delle sue meno felici uscite di questi anni, polemizzando proprio contro Johnson, che noi italiani amiamo la libertà «ma anche la serietà». Come a dire che a non essere serio era lui, lo scapigliato premier britannico: meglio noi, si capisce, che stiamo ancora nelle grinfie di Roberto Speranza.Rileggere le previsioni economiche post Brexit degli ultimi anni fa tragicamente sorridere. Altezzosi report internazionali preconizzavano scenari nefasti: problemi con cibo, farmaci e carburante, rischio di disordini, cali del Pil fino all’8%, crollo della sterlina, deprezzamento degli immobili. Ovviamente, nulla di tutto questo si è verificato. I britannici sono stati razionali nella loro scelta di uscire dall’edificio in fiamme dell’Ue. Hanno la sterlina; sono un membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu; sono una potenza militare anche nucleare; la loro economia va complessivamente a gonfie vele. Uscendo, si sono resi liberi di negoziare accordi commerciali a 360 gradi: con gli Usa, con i Paesi legati al Commonwealth, con la stessa Ue, con i giganti asiatici. E senza dover chiedere il permesso ai burocrati di Bruxelles.Questo ritorno alla Global Britain è reso evidente dalla tragica circostanza del conflitto in Ucraina. Dal primo minuto, Johnson e il suo Paese sono stati protagonisti. In primo luogo, essendo fraternamente collaborativi con i Paesi europei. E dimostrando ciò che doveva essere chiaro a tutti: uscire dall’Ue e dalla sua gabbia non significava abbandonare i valori occidentali, ma anzi era un modo per esaltarli. Non dispiaccia a Mario Draghi: «atlantismo» ed «europeismo» non sono necessariamente sinonimi, anzi. In secondo luogo, c’è una rilevantissima dimensione militare. Il Regno Unito è forse il principale sostenitore della difesa ucraina. Non solo: per rilanciare il suo ruolo nella Nato, Johnson si è anche affrettato a rispolverare la Jef (Joint expeditionary force, la cosiddetta Nato del Nord), che coinvolge in posizione di guida la Gran Bretagna e poi i Paesi scandinavi (Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca), i tre baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e altre forze dell’Europa centrale (Olanda), più l’Islanda. Obiettivo? Dare un segnale di vicinanza all’Ucraina, alla Polonia, ma anche marcare un protagonismo britannico sul fronte Nord ed Est della Nato. A ben vedere, si tratta di un’operazione assolutamente complementare con l’acuta suggestione proposta ieri sulla Verità da Claudio Antonelli, e cioè un’eventuale iniziativa italiana sul versante mediterraneo. In questo senso, anziché esercitare un ruolo gregario rispetto a Parigi, varrebbe la pena di esplorare geometrie intelligenti anche con Londra. Da ultimo, c’è anche un protagonismo britannico nella dimensione morale e della parola. È stato notevole il videomessaggio diJohnson poco dopo l’inizio dell’invasione russa: un leader dai toni churchilliani, che parla in nome di principi sacri, che si rivolge agli ucraini, e - cosa ancora più significativa - parla con rispetto al popolo russo, sapendo distinguere tra loro e chi li guida. QuiJohnson ha attinto a piene mani da ciò che forse gli è più caro, la sua splendida e intelligente biografia di Winston Churchill (The Churchill factor, Il fattore Churchill, e la tesi sta nel sottotitolo del volume: «How one man made history», Come un uomo fece la storia). In quel libro Johnson ha mano felice, partendo dalla celebre riunione del gabinetto di guerra del maggio 1940 (durata tre giorni), nel descrivere la capacità di Churchill di capovolgere il corso delle cose. L’avanzata di Adolf Hitler sembra irrefrenabile. Sotto il tallone nazista, sono già cadute Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Norvegia, Danimarca, Olanda e Belgio. La Francia sta per capitolare. L’Italia è pronta a sostenere la Germania. La Russia si muove nella logica del Patto Ribbentrop-Molotov. L’America è ancora distante dal conflitto. La Gran Bretagna appare quindi isolatissima, fragile, senza alleati, con un destino segnato. Tutti vogliono l’appeasement, cioè un cedimento di fatto ai nazisti. Eppure Churchill tiene duro. E sappiamo come finirà la guerra, alcuni anni dopo. Johnson non ha dimenticato quella pagina di orgoglio britannico.