2021-07-09
Grazie al referendum contro le centrali è possibile riportare il nucleare in Italia
Il voto anti atomo del 2012 in realtà ha lasciato aperta la porta. Questa è l'unica strada per poter tagliare le emissioni fossili.Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazioneLa storia è vecchia ma forse vale ugualmente la pena di raccontarla, a beneficio di quanti non la ricordano o non l'hanno mai conosciuta nei dettagli. È la storia di come si giunse al referendum del 2012 che determinò il definitivo abbandono, in Italia, dell'impiego dell'energia nucleare per la produzione di elettricità; un abbandono tra le cui negative conseguenze rientrano anche le maggiori difficoltà che oggi l'Italia deve affrontare per adeguarsi a quello che sembra il principale obiettivo della cosiddetta «green economy», e cioè la drastica riduzione delle emissioni globali di CO2. A produrre tali emissioni, infatti, sono soltanto, tra le centrali elettriche, quelle a combustibili fossili, rappresentanti la quasi totalità delle centrali operanti in Italia, e non anche quelle a combustibile nucleare, che, nella maggioranza degli altri Paesi europei, continuano invece ad assicurare una parte cospicua, se non addirittura prevalente, della produzione di elettricità. L'inizio della storia può farsi risalire al disastro della centrale nucleare di Chernobyl, avvenuto nel 1986. Fino a quel momento i movimenti ambientalisti avevano dedicato la loro preoccupata attenzione soprattutto al fenomeno delle cosiddette «piogge acide» che uccidevano - si diceva - le foreste e la cui causa veniva riportata essenzialmente alle emissioni di centrali elettriche e impianti industriali in genere, alimentati da combustibili fossili, mentre le centrali nucleari, proprio perché non davano luogo a emissioni nocive in atmosfera, venivano guardate con occhio più benevolo. Dopo Chernobyl, di punto in bianco, delle piogge acide non si parlò quasi più e cominciò, invece, la demonizzazione del nucleare, assai più facile e politicamente più redditizia, per via del maggior impatto emotivo producibile mediante la rappresentazione delle conseguenze a lungo termine della possibile contaminazione radioattiva non solo sull'ambiente ma anche sulla salute degli esseri umani. Il fenomeno, pur se comune, in varia misura, a tutto il mondo occidentale, assunse però solo in Italia una consistenza tale da dar luogo al blocco del già avviato programma di costruzione di nuove centrali nucleari e alla dismissione o trasformazione delle tre già funzionanti (Latina, Trino Vercellese e Caorso). Ciò anche a seguito del successo di un referendum popolare, tenuto nel 1987 e presentato propagandisticamente come espressione di un rifiuto puro e semplice del nucleare, pur avendo esso a oggetto soltanto alcune norme finalizzate a creare incentivi di vario genere a sostegno dell'impiego dell'energia nucleare nella produzione di elettricità.Questa situazione rimase sostanzialmente immutata fino a quando, nel 2009, su iniziativa del governo presieduto dall'onorevole Silvio Berlusconi, si riaprì il varco all'uso dell'energia nucleare con la promulgazione della legge numero 99/2009 che, all'articolo 26, stabiliva l'iter amministrativo mediante il quale dovevano essere «definite le tipologie degli impianti per la produzione di energia elettrica nucleare» da realizzarsi nel territorio nazionale; legge poi seguita dal decreto legislativo numero 31/2010, recante la disciplina di dettaglio per il conseguimento del suddetto obiettivo. I gruppi ambientalisti promossero quasi subito un nuovo referendum per l'abrogazione di tali norme. Esso fu ammesso unitamente ad altri tre referendum che avevano per oggetto altre norme tra cui, in particolare, quella contenuta nella legge numero 51/2010 che consentiva al presidente del Consiglio dei ministri di addurre come legittimo impedimento alla partecipazione a processi penali a suo carico l'esistenza di impegni di governo. Il governo dell'epoca, ancora presieduto dall'onorevole Berlusconi, era soprattutto preoccupato che l'esito della consultazione referendaria fosse in favore dell'abrogazione di tale norma e scelse quindi come obiettivo quello di scoraggiare la partecipazione dei cittadini alla votazione, in modo che essa non raggiungesse il prescritto «quorum» del 50% e il risultato fosse quindi invalido. A tal fine pensò di ricorrere a un disinvolto (ma formalmente legittimo) stratagemma: quello di abrogare le norme che costituivano oggetto del quesito referendario di presumibile maggior interesse e cioè appunto quelle che consentivano la ripresa del programma nucleare. Tale abrogazione fu infatti disposta con la legge numero 75/2011 di conversione del dl numero 31/2011 che, in sostituzione delle norme abrogate, stabilì, all'articolo 5, commi 1 e 8: a) che non si procedesse alla realizzazione di nuovi impianti nucleari se non quando fossero state acquisite «ulteriori evidenze scientifiche… sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea»; b) che il Consiglio dei ministri, entro 12 mesi, adottasse una «strategia energetica nazionale» in materia di energia, tenendo obbligatoriamente conto di una serie infinita di esigenze, ivi comprese, in primo luogo, quelle attinenti alla «sicurezza nella produzione di energia» e alla «sostenibilità ambientale».A questo punto, entrava quindi in gioco l'ufficio centrale per il referendum, cioè uno speciale collegio previsto dalla legge sul referendum e composto da magistrati della Corte di cassazione. A esso spetta, infatti, di stabilire, in caso di sopravvenuta abrogazione della norma oggetto del quesito referendario, se la norma a essa eventualmente sostituita sia o meno una sostanziale riproduzione di quella abrogata, con la conseguenza, in caso positivo, che il referendum deve ugualmente aver luogo, avendo per oggetto, in luogo della norma abrogata, quella che le è subentrata.Nella specie, tutto avrebbe dovuto indurre il collegio a escludere che la nuova norma costituisse una sostanziale riproduzione di quella abrogata dal momento che, come si è visto, essa, lungi dal consentire la realizzazione di nuovi impianti nucleari, la proibiva, addirittura, espressamente, fino a quando non si fossero concretizzate, in un ipotetico futuro, le necessarie condizioni di sicurezza. Invece la decisione fu, inopinatamente, in senso contrario e la motivazione, quale risulta dalla relativa ordinanza (reperibile sul sito Internet della Corte di cassazione), fu, in sintesi, la seguente: poiché la volontà di coloro che avevano proposto il referendum era quella di escludere in assoluto e per sempre la possibilità che in Italia si desse luogo alla realizzazione di centrali nucleari, il solo fatto che la nuova norma prevedesse invece, sia pure a determinate condizioni, una tale possibilità implicava che essa fosse da considerare sostanzialmente riproduttiva della precedente e, pertanto, tale da dover essere sostituita a quest'ultima nel quesito referendario. Ora, il meno che si possa dire di una tale motivazione è che essa si basa su di un presupposto palesemente privo di fondamento giuridico: quello, cioè, che ai fini dell'individuazione dell'oggetto di un quesito referendario possa attribuirsi rilievo, oltre che al testuale tenore e all'oggettivo significato delle norme in esso indicate, anche alle più o meno riconoscibili o dichiarate intenzioni di coloro che lo hanno proposto. Il che appare di tale evidenza da lasciar ragionevolmente sospettare che non siano state soltanto considerazioni di natura puramente tecnico giuridica quelle che hanno dato luogo alla decisione in questione (assunta, del resto, non certo all'unanimità, come desumibile anche dal fatto che la motivazione, contrariamente a quanto normalmente avviene, non risulta redatta dal relatore ma da un diverso componente del collegio). La cosa più divertente, però (si fa per dire) è che, con quella decisione e con il conseguente, scontato successo del referendum abrogativo, è stata cancellata proprio l'unica norma che formalmente impediva, come si è visto, in assenza di «ulteriori evidenze scientifiche» in materia di sicurezza, la realizzazione di nuove centrali nucleari. Venuta meno detta norma, quindi, un qualsiasi governo che volesse riprendere il programma nucleare abbandonato nel 2011 non incontrerebbe, grazie a quanto ottenuto dai movimenti antinuclearisti, alcun ostacolo di natura giuridica ma dovrebbe solo fronteggiare una prevedibile opposizione di carattere meramente politico. Questa, però, tutto potrebbe fare tranne che invocare legittimamente a proprio sostegno il risultato del referendum, dovendo piuttosto applicare a sé stessa il vecchio detto sui pifferi di montagna, i quali, com'è noto, andarono per suonare e furono suonati.