2018-09-21
La famiglia Trevallion
La famiglia anglo-australiana è stata separata quasi un mese fa, ma i giudici ancora non hanno deciso sulla sorte dei bimbi. Osservati da «esperti» come animali in gabbia, mentre le loro informazioni, pure le più riservate, continuano a essere date in pasto ai media.
Viene da domandarsi da chi siano davvero danneggiati i bambini del bosco. Dalla famiglia, da papà Nathan e mamma Catherine che li facevano vivere in una antica casa di campagna con bagno esterno? Oppure dalle solerti istituzioni che da qualche tempo li stanno trattenendo in una casa famiglia per il loro «migliore interesse»? La domanda a questo punto è più che lecita. I piccoli Trevallion stanno in una struttura protetta da circa un mese. Sono stati portati via da casa il 20 novembre, con un robusto dispiegamento di forze e solo grazie all’intervento dell’allora avvocato della famiglia, Giovanni Angelucci, si ottenne che la madre potesse seguirli. Da allora vivono sotto osservazione, vedono il padre molto poco e in orari prestabiliti, incontrano la mamma in occasione dei pasti. Il tribunale dei minori dell’Aquila continua a rinviare la decisione sulla loro sorte: potranno tornare a casa per Natale?
Viene spontaneo interrogarsi su questi tempi dilatati. Se la situazione dei Trevallion era così grave da condurre all’allontanamento dei bambini, possibile che ci voglia così tanto a stabilire se debbano o no ritornare con i genitori? Il buon senso ma soprattutto la legge dicono che i minori vanno allontanati dalla famiglia solamente in caso di grave emergenza, di rischi evidenti per la salute fisica o psichica dei piccoli. Ebbene, a quanto pare i rischi non sono poi così evidenti se serve un mese per giudicare. In compenso, sappiamo per certo che l’allontanamento da casa e genitori provoca traumi.
Non è tutto. Inizialmente, ai Trevallion fu rimproverato di aver esposto i bambini sul palcoscenico mediatico a causa di una intervista concessa alle Iene. Ebbene, martedì il Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Abruzzo ha diffuso dichiarazioni piuttosto dure, spiegando che è stata «violata la privacy di questi bambini. Sono state pubblicate informazioni riservate, sulla scolarizzazione, sulle vaccinazioni o sullo stile di vita che dovevano transitare in un fascicolo non sui media. La riservatezza viene prima del diritto di cronaca».
Il fatto è che qualcuno queste informazioni le ha diffuse, sappiamo che cosa hanno scritto e detto gli assistenti sociali e la tutor della famiglia.
Lo dice anche Danila Solinas, una dei due nuovi avvocati dei Trevallion, che avevano cominciato il mandato scegliendo silenzio totale e collaborazione con i giudici, ma ora forse un po’ hanno cambiato idea, visto che i risultati si fanno desiderare. «Non parlo né di delusione né di aspettative disattese per il mancato ricongiungimento immediato», dice Solinas. «Non mi aspetto che il tribunale elargisca favori, ma che applichi la legge. Semmai mi chiedo come si concili il rigoroso rispetto della riservatezza dei minori con la diffusione di elementi sensibili che li riguardano». Già, come si concilia questa esposizione con il bene superiore dei bambini?
Per altro, quel che leggiamo delle valutazioni delle autorità non è incoraggiante. L’assistente sociale Veruska D’Angelo, per esempio, esprime valutazioni che sollevano qualche dubbio. «Si ribadisce», scrive, «che anche l’individuazione delle problematiche riguardanti la situazione abitativa, socioeconomica, igienico sanitaria, socioculturale ed educativo relazionale è stata condivisa e sottoscritta dai genitori e dall’avvocato, riconoscendo e condividendo dunque tali aspetti».
Secondo l’assistente sociale, il «disagio maggiore» dei piccoli Trevallion nel vivere con altri bambini «si può osservare quando si attivano fra loro confronti sia per le proprie esperienze personali che per le proprie competenze, in quanto si evidenziano deprivazioni di attività condivisibili con il gruppo dei pari, per esempio da un semplice gioco ad attività più specifiche come i compiti scolastici e le conoscenze generali».
Insomma, non conoscono i giochi che fanno gli altri. Davvero terribile. Leggiamo ancora: «Il loro sonno è stato turbato dalla presenza, all’interno della stanza, di oggetti di uso comune quali l’interruttore della luce e il pulsante di scarico dello sciacquone del bagno». E poi «L’igiene personale dei minori è apparsa subito scarsa e insufficiente. Gli operatori sono riusciti a fare la doccia ai bambini soltanto nella serata del secondo giorno di collocamento ma solo con acqua, non volendo usare i saponi messi a disposizione... Uno dei fratelli ha dimostrato timore nei confronti del soffione della doccia. Rispetto al cambio degli indumenti i bambini hanno spiegato che indossano gli stessi vestiti per un’intera settimana e in genere il sabato li cambiano».
Capito? Si sono cambiati i vestiti una volta la settimana e uno di loro aveva timore del soffione della doccia perché era abituato a lavarsi in altro modo. Sembra quasi uno scherzo: si devono allontanare i bambini da casa perché si cambiano solo una volta alla settimana? Meritano di essere separati da madre e padre perché non hanno la doccia ma si lavano in altra maniera? Bisognerebbe dirlo a tutti gli illustri ecologisti che negli anni passati hanno spiegato in tv e sui giornali che non si deve sprecare acqua.
In ogni caso, l’assistente sociale ci tiene a spiegare che i piccoli «reagiscono con gioia e gratitudine alle varie attenzioni che ricevono, dai vestiti puliti e profumati che annusano continuamente oltre ad annusare le persone che li circondano, alle varie attività ludiche proposte, esprimendo spesso di voler restare “al caldo”».
Si tratta degli stessi bambini che alle autorità hanno dichiarato di trovarsi benissimo a casa. Utopia Rose, la più grande, ha fornito un racconto idilliaco: «Ci piace giocare insieme, all’aperto. Costruiamo una casetta e ci occupiamo dell’orto. Amiamo lavorare la lana con i ferri, lo facciamo tutti e tre. Siamo vegani e mangiamo quasi tutte cose prodotte da noi. Io cucino a colazione i pancake per tutti. Ci piacciono molto le cose che mangiamo e ci piace prepararle insieme, come i panini con le uova delle nostre galline. I parenti che vivono in Australia li vediamo in videochiamata con il tablet».
Non risulta che, da maggio a novembre scorso, gli assistenti sociali abbiano visitato con frequenza la casa della famiglia. Non risulta nemmeno che ci siano state altre audizioni dei bambini. Sembra che tutto si basi soltanto sulla valutazione di alcuni esperti i quali appaiono molto interessati a normalizzare i Trevallion, a rimarcare quanto piacciano le comodità ai bambini, a sottolineare tutte le stranezze mostrate da questi. A che cosa è servito allontanarli? A osservarli per un mese come bestioline allo zoo e a esporli alle feroci valutazioni del pubblico? Forse è il caso di domandarselo.
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Addobbi natalizi a Senigallia (Marche) di notte (iStock)
- Dalle rive dell’Adriatico alle vette dell’Appennino, borghi e città si vestono a festa e sfilano tra villaggi di legno, mercatini artigianali, prodotti tradizionali e presepi.
- La tradizione è servita in tavola. Dai vincisgrassi al fritto misto all’ascolana, al vino cotto, trionfo di sapori tipici marchigiani.
Lo speciale contiene due articoli.
ll profumo del frustingo e del vino cotto si mescola all’aria fredda, le luminarie illuminano i vicoli acciottolati già bui alle cinque del pomeriggio, gli addobbi e gli alberi di Natale decorano piazze e vetrine nei centri storici, mentre il rintocco delle campane e le musiche stile Jingle Bells fanno da colonna sonora a mercatini e presepi.
Dalle calme acque dell’Adriatico fino alle vette silenziose dell’Appennino, le Marche si trasformano nel periodo dell’Avvento. Diventano un teatro a cielo aperto sospeso tra memoria e meraviglia. In scena storie e tradizioni, colori e sapori di città e paesi che, vestiti a festa e allestiti a regola d’arte, sembrano volere raccontare la propria versione della magia natalizia, invitando a scoprirla, chiamando a viverla.
In una gara di soli vincenti, in uno spettacolo di soli protagonisti, piccole e grandi province marchigiane regalano tutte qualcosa di speciale. A partire da «Il Natale che non ti aspetti». Un evento diffuso che coinvolge fino al 6 gennaio una ventina di borghi tra Pesaro e Urbino. Da tranquilli centri diventano mondi incantati. Si animano e scendono in strada con mercatini artigianali, performance itineranti, giochi e giostre per far sognare adulti e bambini. Lo stesso succede con il «Grande Natale di Corinaldo», che accende di vita e di festa il piccolo borgo, tra i più belli d’Italia: spettacoli, mercatini, eventi, che toccano l’apice con la Festa conclusiva della Befana, il 6 gennaio. Altrettanto coinvolgente e forse ancor più suggestiva, «Candele a Candelara» (www.candelara.it; nell’immagine in alto a destra, scorci del borgo durante l’evento. Foto: Archivio fotografico Regione Marche - Associazione Turistica Pro Loco di Candelara APS).
Arrivata alla 22esima edizione, la festa delle fiammelle di cera va in scena nel borgo medievale vicino a Pesaro fino al 14 dicembre, con un calendario di eventi, visite guidate, attrazioni e divertimenti, oltre all’immancabile rito nel cuore del borgo. Qui ogni sera si spengono le luci artificiali per lasciare posto a migliaia di fiammelle tremolanti accese. Per qualche minuto tutto sembra sospeso: il tempo rallenta, il silenzio avvolge le vie, l’atmosfera si carica di poesia e la grande bellezza delle piccole cose semplici affiora e travolge.
Spostandosi ad Ancona con il naso all’insù, ecco che il periodo di Natale ha il passo della modernità che danza con la tradizione o, meglio, vola: una ruota panoramica alta trenta metri domina il centro, regalando una vista unica sul porto e sulla città illuminata. Da lassù si vedono i mercatini tra piazza Cavour e corso Garibaldi rimpicciolirsi e i fiumi di persone che girano per il centro diventare sinuose serpentine.
A Macerata e dintorni, invece, il Natale porta allegria, sulla scia della pista di pattinaggio su ghiaccio in piazza Cesare Battisti, dei villaggi di Babbo Natale che accolgono con renne ed elfi, e dei tanti mercatini che tentano il palato con dolci e salati, caldarroste e vin brulè, e attirano con prodotti perfetti da regalare a Natale. Mentre Fermo e Porto San Giorgio invitano a immergersi in compagnia in villaggi natalizi pieni di luci e mercatini, riscoprendo il valore dello stare insieme al di là dei display. Stessa cosa succede nella provincia di Ascoli Piceno, ma in una formula ancora più intensa, complice «Piceno Incantato», cartellone che raccoglie attorno a piazza Arringo concerti, gospel, villaggi natalizi, presepi artigianali e viventi. A proposito di presepi, da non perdere il Presepe di San Marco a Fano. Costruito nelle cantine settecentesche di Palazzo Fabbri, copre una superficie di ben 350 metri quadrati. Ed è composto da una cinquantina di diorami (scene), che riproducono episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, con più di 500 statue a movimenti meccanizzati creati ad hoc da maestri artigiani. Una rarità, ma soprattutto un’opera d’arte. Info: www.letsmarche.it
La tradizione è servita in tavola
Non solo olive ascolane. Nelle Marche, terra fertile e generosa, sono tante, tantissime le ricette e le specialità che imbandiscono la tavola, dando forse il meglio d’inverno. Ingredienti di stagione, sapori intensi, piatti robusti e vini corposi sposano a regola d’arte le temperature che si fanno via via più fredde, stuzzicando il palato e riscaldando l’atmosfera. Al bando diete e via libera a calorie e piatti di sostanza. Ecco che le cucine tornano a profumare di tradizione e la convivialità marchigiana diventa, più che un invito al ristorante, un rito semplice, lento e gustoso, servito in indirizzi intimi, curati, con prezzi e porzioni che a Milano e Roma si sognano, e incorniciato da colline morbide e pendii che guardano il mare.
Nel menù ingredienti semplici, genuini, figli di una terra che non ha mai tradito il legame con la stagionalità. Il brodetto, con le sue note calde e avvolgenti, diventa un abbraccio capace di scaldare e colorare le giornate più grigie. Le paste tirate a mano tornano protagoniste, con i vincisgrassi che la fanno da padrone. Imponente e generosa, questa pasta all’uovo, cotta al forno, stratificata con ragù ricco di carni miste e una vellutata besciamella, è un inno calorico alle tradizioni contadine e all’amore profondo per la cucina casalinga.
I cappelletti in brodo di cappone, piccoli scrigni di pasta fatta a mano con ripieno, immersi in un brodo fumante, riportano all’infanzia, ai pranzi delle feste, a un’idea di famiglia che non si lascia scalfire dal tempo. Nei camini e forni accesi, l’arrosto di maiale diffonde un profumo che vola nell’aria, mentre le erbe spontanee, raccolte nei campi addormentati dall’inverno, insaporiscono minestre e ripieni con un carattere rustico e sincero.
I formaggi stagionati, dalle tome ai pecorini più strutturati, raccontano il lavoro meticoloso dei casari, custodi di saperi antichi. E poi ci sono i legumi, piccoli tesori che diventano zuppe dense e nutrienti: ceci, cicerchie, fagioli che profumano di terra buona e di gesti lenti. E poi c’è la gioia della gola per eccellenza: il fritto misto all’ascolana. Che nel piatto presenta pezzi di carne e verdure avvolti in una pastella leggera e dorata che scrocchia a ogni morso, raccontando un’arte culinaria che sa essere golosa e raffinata al tempo stesso. Da accompagnare, senza esitazione, con un calice di Rosso Piceno o di Rosso Conero, che con i loro profumi avvolgenti e il tannino morbido sposano perfettamente le note decise di questo piatto. In alternativa la Lacrima di Morro d’Alba, vino locale, raro e aromatico, regala un tocco di originalità.
Non manca poi il carrello dei dessert. Sfilano veri tesori dolciari. Sul podio, in ordine sparso, il miele, prodotto con cura da apicoltori del territorio, il mitico frustingo, dolce natalizio a base di frutta secca e spezie, e i cavallucci, biscotti speziati che raccontano storie antiche e profumano le feste (e non solo). Da abbinare rigorosamente a un’altra specialità marchigiana: il vino cotto. Ottenuto dalla lenta riduzione del mosto d’uva, nel calice è una liquida e dolce coccola.
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Matteo Salvini (Ansa)
La Cassazione rigetta il ricorso della Procura di Palermo e assolve definitivamente il ministro per i fatti dell’agosto 2019.
Con il rigetto del ricorso della Procura di Palermo «per saltum», ovvero dribblando l’appello, la Corte di Cassazione, dopo circa quattro ore di camera di consiglio, ha messo una pietra tombale sul caso Open Arms. Ieri i giudici della Quinta sezione penale hanno confermato l’assoluzione di Matteo Salvini. Sentenza definitiva. Le accuse erano quelle che hanno attraversato anni di dibattito politico e giudiziario: sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Alla fine resta una formula che già in primo grado pesava come un macigno: assolto «perché il fatto non sussiste».
«Cinque anni di processo, difendere i confini non è reato». Per commentare la decisione dei giudici Salvini sceglie di accompagnare queste parole con una foto in cui è sorridente e col pugno destro verso l’alto, in segno di vittoria. All’epoca, da ministro dell’Interno, era finito a processo per quello che era passato come lo sbarco negato a 147 migranti (tra i quali c’erano dei minorenni), soccorsi nell’agosto 2019 dalla Ong Open Arms nel corso di tre operazioni. Una vicenda che per anni è stata raccontata come il simbolo di una questione politica, prima ancora che come un fatto giuridico. Ora, però, il piano politico esce dall’aula. Resta il diritto. E il diritto, certifica la Cassazione, afferma che il reato non c’è. Nonostante il tentativo della Procura di mantenere in vita il procedimento con il ricorso arrivato direttamente in Cassazione, «per saltum», senza passare dalla Corte d’appello. Una scelta processuale che esponeva il ricorso a un vaglio ancora più rigido, proprio perché la Cassazione non è un terzo giudice del fatto. E per questo è stata duramente contestata dalla difesa. Anche la Procura generale della Cassazione aveva chiesto di rigettare il ricorso. Le argomentazioni erano state anticipate con una memoria di circa 50 pagine, depositata alcune settimane fa. I sostituti procuratori generali Luigi Giordano e Antonietta Picardi hanno ritenuto corretto il verdetto di primo grado, sostenendo che il ricorso della Procura palermitana si era «soffermato esclusivamente sulla condotta privativa della libertà personale (l’azione), senza affrontare i profili ricostruttivi dell’elemento della colpevolezza e ciò senza tener in considerazione che fossero presenti e valorizzati, nella sentenza impugnata, elementi di esclusione (o, quantomeno di forte dubbio) del dolo relativi alle contestazioni di accusa». Per i sostituti procuratori generali ciò valeva a configurare «un deficit dimostrativo della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati ascritti all’imputato». La sentenza di Palermo, d’altra parte, aveva già messo nero su bianco un punto chiave: il Pos (Place of safety, ovvero un porto sicuro) non doveva essere concesso. Un nodo giuridico decisivo, perché senza l’obbligo di indicare un porto sicuro viene meno la base stessa dell’accusa. Il passaggio ha retto anche al vaglio della Suprema Corte. Era quello il tallone d’Achille dell’inchiesta palermitana. Se il Pos non è dovuto cade il presupposto del sequestro di persona. Cade l’idea di una condotta arbitraria. L’ipotesi di dolo non regge. L’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Salvini, aveva insistito su un punto preciso: «Siamo di fronte alla completa infondatezza di un ricorso generico che contesta a raffica qualsiasi violazione di legge e chiede di fare un processo completamente diverso. Non è affatto un ricorso per saltum». Il cuore della critica era nel metodo. Secondo la difesa, la Procura non contestava errori di diritto, ma cercava di riscrivere i fatti. Un’operazione che in Cassazione non è consentita. «Tutte le presunte violazioni di legge sono ancorate a circostanze di fatto che sono state stravolte», aveva spiegato Bongiorno. C’era poi il confronto con il caso Diciotti, spesso evocato nel dibattito pubblico come se fosse sovrapponibile. Ma, anche qui, la difesa aveva messo un paletto netto: «La Diciotti è una nave della Guardia costiera italiana, l’altra è di una Ong spagnola». La differenza di bandiera e di status giuridico cambia radicalmente il quadro delle responsabilità. Contesti giuridici diversi, responsabilità diverse, cornici normative che non si possono confondere senza forzature. Nella sentenza impugnata, aveva ricordato ancora Bongiorno, «ci sono precise indicazioni di tutte le opzioni che aveva Open Arms e i report (acquisiti già in primo grado, ndr) sono la prova che non c’è stato sequestro di persona». Un punto centrale. Perché il sequestro presuppone l’assenza di alternative, una costrizione, una privazione illegittima della libertà. «Nel ricorso si dice l’opposto di quello che è scritto nella sentenza», aveva concluso l’avvocato. Una frattura che la Cassazione non ha ricomposto, ma certificato. Dall’altra parte, le parti civili hanno insistito fino all’ultimo per l’accoglimento del ricorso dei pm. Hanno chiesto l’annullamento della sentenza di assoluzione, sostenendo che «la prova dell’esistenza del dolo c’era nei fatti e nelle testimonianze». I legali delle parti civili hanno parlato di una violazione delle norme internazionali e costituzionali, sostenendo che «a 140 naufraghi che si trovavano di fronte alle coste italiane non era stato permesso di sbarcare per giorni, violando le norme internazionali e costituzionali oltre che la loro dignità». Già in primo grado, però, era stato stabilito che l’obbligo di tutelare i profughi, fatti sbarcare al termine di un braccio di ferro solo dopo l’intervento dei pm di Agrigento, lo aveva la Spagna. Perché il suo Centro di coordinamento e soccorso marittimo aveva «operato, sin da subito, un sia pur minimo coordinamento da “primo contatto”»; perché Malta, «nel declinare la propria responsabilità per i primi due eventi di salvataggio aveva chiaramente indicato la Spagna (Stato di bandiera) quale unica autorità che avrebbe dovuto assistere il natante». E ora la Cassazione chiude il cerchio.
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Vincenzo Onorato (Imagoeconomica)
La Procura etichettò come corruzione alcuni biglietti regalati dalle compagnie Moby, Tirrenia e Cin. I giudici ora impongono la restituzione della corrispondenza: ci vuole una notizia di reato solida prima del sequestro.
Non c’è miglior sponsor per il Sì al referendum sulla riforma della Giustizia dell’attività dei pm. Che ogni giorno vengono bacchettati dai giudici della Cassazione per la loro tendenza a debordare e a non rispettare i diritti degli indagati e delle loro difese. Ieri è arrivata la bocciatura alla pervicace insistenza (in diritto) della Procura di Palermo che voleva mandare in ceppi il vicepremier Matteo Salvini. Ma nelle stesse ore gli ermellini hanno spedito dietro la lavagna anche i pm della Procura di Genova, considerata un fortino delle toghe progressiste.
L’inchiesta è conosciuta a livello mediatico come Traghettopoli e ruota intorno ai biglietti regalati dalle compagnie Moby, Tirrenia e Cin a vip di vario genere. Per gli avvocati si tratta di banali regalie, magari punibili con semplici sanzioni amministrative e procedimenti disciplinari per i pubblici ufficiali. Per la Procura ci troveremmo di fronte a deprecabili casi di corruzione. Al centro dello scontro una questione giuridica: il sequestro del materiale informatico contenente messaggi di posta privati in assenza di una notizia di reato. O, meglio, secondo le difese, è stato prima disposto il sequestro e poi è stato cercato il reato. A ritroso.
In un procedimento che era iniziato per tutt’altre ipotesi: alcune navi dell’armatore Vincenzo Onorato non avrebbero rispettato i requisiti previsti dalla normativa internazionale in materia ambientale. Ma anche in questo caso l’ipotesi iniziale di frode in pubbliche forniture è definitivamente caduta. E, così, la Corte di Cassazione, che già in procedimenti passati di paletti ne aveva fissati parecchi, annullando l’ordinanza «senza rinvio», ha fatto saltare definitivamente il sequestro informatico disposto dalla Procura di Genova, imponendo l’«immediata restituzione del materiale in sequestro» alle compagnie. Compresa la copia forense. È qui entra in gioco la questione decisiva della proporzione. Non si può trovare un regalo (in questo caso un elenco di biglietti gratuiti), etichettarlo, senza prove, come mazzetta e cercare, successivamente, la dimostrazione del proprio assunto, rovistando in cellulari e caselle di posta. Perché quando si sequestra della corrispondenza privata bisogna indicare con precisione che cosa si stia cercando. Bisogna circoscrivere. Non solo usando le parole chiave. È necessario delimitare anche un preciso arco temporale per la caccia. Ma per farlo bisogna avere una pista solida, una notizia di reato con un corrotto e un corruttore. E magari occorre conoscere l’atto contrario ai doveri d’ufficio che ha determinato il regalo. Altrimenti si sta solo rovistando.
Era accaduto di recente a Brescia, con i sequestri all’ex procuratore aggiunto Mario Venditti. A Genova, però, l’annullamento della Cassazione viene considerato un colpo secco al cuore dell’indagine, perché riguardava il materiale prelevato dalle caselle di posta elettronica di 14 dirigenti del Gruppo Moby. File che, secondo gli investigatori, avrebbero contenuto le tracce di oltre 34.000 viaggi omaggio sui traghetti di Vincenzo Onorato. Tra chi ha viaggiato almeno una volta senza pagare sui traghetti del gruppo Onorato ci sono anche un paio di giudici, l’ex presidente di Regione Sardegna Christian Solinas, l’ex numero uno dei porti di Genova e Savona Paolo Signorini, il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo. Per le difese (il ricorso era stato presentato dagli avvocati Pasquale Pantano, Oreste Dominioni, Angelo Paone, Nicola Zanobini e Luca della Casa) è una vittoria piena. Il nodo dei dati era emerso già ai primi di dicembre, quando a Genova, si erano confrontati con il pm Walter Cotugno sull’utilizzabilità di quel materiale gli avvocati degli oltre 120 indagati. Un elenco lungo e trasversale: ufficiali della Guardia costiera, direttori marittimi, manager del gruppo armatoriale, funzionari pubblici, politici, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine.
La decisione della Cassazione ora ridisegna i confini dell’inchiesta, già divisa in due tronconi. Da una parte quello per l’ipotesi di corruzione che coinvolge i pubblici ufficiali che, secondo il pm, avrebbero beneficiato degli omaggi in cambio di favori per gli armatori, addolcendo i controlli e le ispezioni sulle navi. Secondo gli inquirenti esisteva un vademecum sul trattamento «Vip»: dai direttori marittimi e comandanti del porto fino agli addetti di Capitaneria (ai quali sarebbe stato destinato uno sconto del 30%). L’altro filone, quello che ha, come detto, dato il via all’indagine, con le ipotesi di falso e frode (caduta), riguardava i motori di tre traghetti (sequestrati e poi dissequestrati dal Riesame). Ed è proprio mentre si indagava sulle forniture che è saltata fuori la storia dei viaggi in saldo. Nasce così il sequestro del materiale informatico, confermato dal Riesame. Gli avvocati si sono opposti e hanno presentato ricorso in Cassazione. Ma il pm ha deciso di andare avanti. E ha fissato per lo scorso 3 dicembre un accertamento tecnico irripetibile per estrarre le mail di suo interesse (attraverso una procedura regolamentata dall’articolo 360 del codice). In attesa della decisione del Palazzaccio i legali hanno preso tempo chiedendo che la ricerca nei dispositivi elettronici fosse effettuata davanti a un giudice terzo, con tutte le garanzie dell’incidente probatorio che è un vero e proprio istituto giuridico, in cui il gip nomina un proprio perito. Un passaggio che, in gran parte, adesso, non sarà più necessario svolgere. Con buona pace della Procura.
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