2023-10-22
La giornalista che striglia Hamas è un messaggio di Riad al mondo
Khaled Meshal, uno dei leader del gruppo terrorista, messo alle corde in diretta dalla conduttrice di Al Arabiya Rasha Nabil. I sauditi, proprietari del network, irritati dall’escalation ispirata dal Qatar e che ha fatto saltare i loro piani. La dialettica e il dibattito all’interno del mondo arabo sono molto più complessi e vivaci di come spesso ce li immaginiamo noi, che tendiamo a fare dell’umma islamica una cosa sola, priva di sfumature al suo interno. Chi invece avrebbe dovuto saperlo bene, ma forse se ne era dimenticato per un momento, è l’ex capo politico di Hamas, Khaled Meshal, oggi tra i suoi leader più influenti, che in un’intervista concessa all’emittente Al Arabiya si è trovato a fare i conti con le domande incalzanti e per niente «sedute» della giornalista in studio, Rasha Nabil. «Il vostro attacco è stato una dichiarazione di guerra e molta gente si domanda come vi aspettavate che avrebbe reagito Israele? Avete preso questa decisione da soli?», ha chiesto al conduttrice. Meshal ha spiegato che Hamas è «ben consapevole delle conseguenze» dell’attacco contro Israele, ma ha elogiato le brigate Al Qassam per «aver colto di sorpresa il nemico» con un attacco «ingegnoso» avvenuto «nel contesto di una legittima resistenza». La Nabil, tuttavia, non ha mollato e con tono fermo ha replicato: «Lei parla di resistenza legittima, però quello che gli occidentali hanno visto in tv è stata la violenza di Hamas contro i civili israeliani. E ora Hamas viene paragonata all’Isis». E poi ancora: «Come potete chiedere all’Occidente supporto alla causa palestinese, quando è evidente quello che ha fatto Hamas ai civili israeliani? Sa che Israele ha ottenuto molto supporto grazie a queste scene?». Meshal, visibilmente contrariato, ha replicato: «Questa è un’accusa fabbricata da Netanyahu e purtroppo l’Occidente lo sostiene». Ha poi rimarcato che Hamas «concentra la sua resistenza sulle forze di occupazione, sui soldati». Quanto alle vittime civili «ce ne sono in ogni guerra», ha detto, «non siamo responsabili noi per loro». Alla domanda se volesse scusarsi per la morte di civili negli attacchi, ha risposto duramente: «Le scuse dovrebbero essere richieste a Israele». L’esponente di Hamas ha aggiunto che «la nazione palestinese è come qualsiasi altra nazione. Nessuna nazione viene liberata senza sacrifici», facendo gli esempi della Russia nella seconda guerra mondiale, degli afghani contro russi e americani e degli algerini contro i francesi. Relativamente agli ostaggi, Meshal ha detto che per liberarli «Israele dovrà svuotare le sue carceri», facendo riferimento ai prigionieri palestinesi in mano israeliana. Quando poi l’interlocutore ha provato a rivolgere appelli ai libanesi, la giornalista ha risposto per le rime che «la situazione in Libano è complessa, l’ultima cosa di cui hanno bisogno è un’altra guerra. Può vedere sui social, dicono che Khaled Meshal è seduto in una stanza con l’aria condizionata e parla di guerra, jihad e bombardamenti». Per il leader di Hamas si è trattato di un appuntamento mediatico impegnativo, perché rivolto a un pubblico tendenzialmente «amico» e perché la giornalista ha fatto osservazioni critiche in grado di attirare il consenso anche di un’opinione pubblica tendenzialmente filo palestinese, come ad esempio quando ha fatto notare che l’azione del 7 ottobre ha portato consensi a Israele e ha messo in difficoltà proprio gli abitanti di Gaza. Anche l’accento posto sulle divisioni nell’opinione pubblica arabo-islamica o sulla «bella vita» dei leader di Hamas in esilio rispetto ai civili sotto le bombe tocca un nervo scoperto. Ma perché la giornalista del Cairo si è presa tante libertà con Meshal? Per comprenderlo bisogna verosimilmente tener conto del contesto geopolitico. Fondata nel 2003 in contrapposizione alla qatarina Al Jazeera, Al Arabiya è stata creata dalla società di produzione Mbc Group, presieduta da Shaykh Walid Al Ibrahim, zio materno del principe saudita Abd Al Aziz Bin Fahd, con interventi anche del gruppo libanese Hariri e altri investitori giordani e kuwaitiani. Il network ha sede nella Dubai Media City, anche se nel 2021 è stato disposto di spostarla a Riad entro il prossimo anno. La concorrenza con Al Jazeera non è solo commerciale: una delle ragioni che ha portato alla nascita del canale sono proprio le critiche ai Saud mosse dall’emittente qatarina negli anni Novanta. Al Arabiya rappresenta quindi uno strumento di soft power di quella parte del mondo arabo che fa capo a Dubai e soprattutto a Riad, così come il network concorrente lo è del Qatar. Stato, quest’ultimo, che sostiene Hamas, pur non avendo pessimi rapporti con Israele, e che nella crisi in corso cerca di ritagliarsi un ruolo di mediazione, essendo considerato interlocutore «presentabile» (a differenza dell’Iran), ma allo stesso tempo influente sui leader di Gaza. Dall’altra parte, gli Emirati hanno normalizzato ufficialmente i loro rapporti con Israele nel 2020 con gli Accordi di Abramo e sono stati gli unici a condannare esplicitamente Hamas nel comunicato successivo all’attacco del 7 ottobre. Più complessa la posizione dei sauditi, che con Israele stavano per arrivare a una delicata intesa diplomatica, saltata proprio a causa della guerra scoppiata improvvisamente. Essendo i custodi dei luoghi santi dell’islam, i sauditi devono sempre muoversi con i piedi di piombo (spesso mandando avanti proprio gli Eau, più liberi di agire spregiudicatamente). Né è pensabile che in una polarizzazione netta fra Palestina e Israele, come quella che si è venuta a creare nelle ultime settimane, Riad possa prendere le parti del secondo. Ecco perché ha interesse a evitare escalation. Di certo l’attacco di Hamas ha rotto le uova nel paniere ai Saud, tirandoli di fatto per la giacca. E non è escluso che, sull’asse iraniano e qatarino, qualcuno non abbia considerato anche questo aspetto, al momento di ispirare l’azione di Hamas. Di sicuro, a giudicare dal trattamento subito da Meshal nella tv di casa, a Riad non l’hanno presa bene.
Jose Mourinho (Getty Images)