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2023-06-08
Viale Mazzini non cancella Damilano malgrado le balle russe sul Carroccio
Marco Damilano (Imagoeconomica)
Ruber Silente, il mago del giornalismo d’inchiesta che ha la responsabilità della patacca Metropol, l’ha fatta franca anche ieri. Dalla riunione della commissione di Vigilanza sulla Rai, Marco Damilano è uscito senza un’ammaccatura e avrà il suo bel programmino in Viale Mazzini, pagato 1.000 euro a puntata con i soldi dei cittadini. In più, in qualunque momento si ritenesse minacciato dal famoso ritorno dei fascisti (che ieri però lo hanno graziato), potrà sempre dimettersi sbattendo la porta per andare dagli amici di La 7, dove già era una presenza fissa. Insomma, il centrodestra che si occupa di Rai ha anche abilmente creato il martire di domani.
Era un anno che non si riuniva la Vigilanza, dove ieri si sono presentati il presidente della Rai, Marinella Soldi, l’amministratore delegato, Roberto Sergio, e il direttore generale, Giampaolo Rossi, con tanti buoni propositi e per battere cassa. Sergio, parlando davanti alle telecamere dell’Ansa al termine dell’audizione, è stato assai ecumenico: «C’è un rapporto da ricostruire, sia all’interno che all’esterno dell’azienda, bisogna cercare di abbassare un pochino i toni, mantenendoli in linea con gli obblighi di pluralismo e la possibilità per ognuno di esprimersi». Sarà con questa filosofia che i nuovi vertici di Viale Mazzini hanno confermato Il cavallo e la torre, il programma di Damilano su Rai 3, nonostante questo giornale abbia scoperchiato lo scandalo della falsa inchiesta su Matteo Salvini e il petrolio russo, che avrebbe dovuto incastrare per sempre il leader della Lega. Era l’estate del 2019 e i servizi uscirono sul settimanale L’Espresso, all’epoca diretto proprio da Damilano. Che oggi si è rinchiuso in uno sdegnoso silenzio.
Il «caso Damilano», come lo ha chiamato il Corriere della Sera nei giorni scorsi, in realtà si è brevemente affacciato nell’aula della Vigilanza, ieri, ma senza effetto alcuno. Il senatore Giorgio Maria Bergesio non ha fatto tanti giri di parole: «Il caso Metropol è una vergogna, Damilano dovrebbe essere accompagnato alla porta». Duro anche il forzista Maurizio Gasparri, per il quale «la sinistra ha da sempre una quota di impunità che nessuno potrebbe permettersi. Dopo lo scandalo che La Verità ha scoperto, Damilano dovrebbe essere accompagnato alla porta».
In realtà non si tratta di punire nessuno. Il giornalismo d’inchiesta, che Damilano ha solo visto praticare, ma che ha cavalcato assai bene quando lavorava per Carlo De Benedetti, presenta un sacco di trappole e trabocchetti. Faccendieri, massoni e spioni in libera uscita, spacciatori seriali di carte, audio e video, registrazioni abusive, documenti falsi più o meno. Nel caso del Metropol, però, come hanno spiegato su queste pagine Giacomo Amadori e François De Tonquedec, c’è il fondato sospetto che gli apprendisti stregoni siano stati direttamente prodotti e azionati dai giornalisti dell’Espresso, Giovanni Tizian e Stefano Vergine. Il 9 febbraio del 2021, il pm milanese Sergio Spadaro chiede a Tizian come ha conosciuto Gianluca Meranda, l’avvocato massone che avrebbe dovuto incastrare Salvini a Mosca nell’ottobre del 2018. Il cronista resta nel vago: «Ci siamo conosciuti a una festa nel 2018 a Roma. Non ricordo dove fosse la festa ma comunque è stato un incontro assolutamente casuale. Confermo di avere incontrato Meranda in alcune occasioni, il più delle volte presso il suo studio a Roma, altre volte in posti pubblici». Prima di chiudere il verbale, Tizian ha ancora l’occasione di illuminare la genesi del Bufalagate, quando il pm gli chiede se il manager Glauco Verdoia e Meranda avessero rapporti con la massoneria e/o con i servizi segreti. Risposta di Tizian: «Non lo so».
Una parola sulla bufala russa, in realtà sfacciatamente made in Rome, dovrebbe dirla anche Damilano, romano, 55 anni, figlio di un giornalista della Rai (Andrea) e cresciuto nella Rete di Leoluca Orlando. Insomma, quanto di più vicino possibile a un suo grande sponsor come Walter Veltroni, con il quale condivide l’aria da eterno bravo ragazzo. Dovrebbe uscire dall’afasia non solo per responsabilità da ex direttore, ma perché nella patacca-complotto del Metropol anche lui ha intinto la penna. «Matteo Salvini ha occultato, omesso, oscurato», è l’attacco del suo editoriale sull’Espresso del 21 luglio 2019, intitolato «La superficie della menzogna». «Al Viminale siede uno sprovveduto o un bugiardo, o entrambe le cose, uno sbruffoncello, come disse di lui Carola Rackete», sancì il figlio dell’Azione cattolica, prima di trasformarsi in Ruber Silente, nuovo personaggio da Harry Potter. E non poteva mancare un predicozzo, sempre rivolto a Salvini, sul «tacere imbarazzato del ministro dell’Interno alle nostre domande».
Ma sì, tacere, tacere e ancora tacere, in attesa che cali l’oblio. In certe sacrestie lo insegnano bene e Damilano mostra di aver imparato la lezione. Il fatto che la Guardia di finanza di Milano abbia dimostrato i contatti costanti tra Tizian e Meranda, con il sospetto che il caso Metropol sia stato orchestrato a tavolino, non merita una parola da parte del direttore che tutto pubblicò, filosofeggiando anche in prima persona. Adesso ha un altro anno di contratto in Rai, sponsorizzato dal Pd che lo ha salvato a spese nostre dal cambio di proprietà dell’Espresso. E che lo si tratti bene, altrimenti è subito dittatura.
La nuova Rai si aggrappa al canone
Ieri prima audizione in commissione Vigilanza per i nuovi vertici Rai: l’ad, Roberto Sergio, la presidente, Marinella Soldi, e il direttore generale, Giampaolo Rossi. Il primo ha affrontato la questione del canone che il leader della Lega, Matteo Salvini, ha sempre detto di voler abolire. La presidente grillina della commissione, Barbara Floridia, in apertura di seduta ha annunciato di aver chiesto l’audizione del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per avere una risposta univoca del governo. Sui conti la Soldi è stata molto chiara: «Vorrei trasferirvi un senso di urgenza. L’azienda, pur avendo chiuso l’ultimo bilancio in pareggio, affronta una situazione di indebitamento pari a 580 milioni di euro nel 2022. Per un rinnovo necessario delle forme di finanziamento, serve un piano industriale credibile e realistico da approvare non oltre il 2023».
L’ad Sergio ha tenuto a puntualizzare: «Io non sono stato indicato per accettare l’idea che il canone non ci sia più. Rimane la fonte primaria e caratteristica del servizio pubblico, che procura quasi il 70% delle risorse complessive di gruppo e quello italiano è comunque è il più basso in Europa». Ha inoltre respinto l’ipotesi di togliere il canone dalla bolletta, aggiungendo che «qualora si intendesse procedere a una revisione del sistema di riscossione, sarà indispensabile valutare l’efficacia della soluzione alternativa e i correlati rischi», ricordando che prima c’era un’evasione del tributo del 30%. Sergio ha anche annunciato che oggi i vertici Rai chiederanno un appuntamento al Mef per saperne di più: «Stante l’attuale situazione, immaginiamo che anche nel 2024 sia riscosso come è stato riscosso fino a ora».
Mentre sul pluralismo televisivo ha rivendicato la modalità partecipativa nella costruzione dei palinsesti e ha ribadito che «nessuna trasmissione d’inchiesta sarà cancellata». Non è mancata poi una frecciatina alla Annunziata: «Sono stati confermati anche quei programmi che alcuni temevano potessero subire un qualche ostracismo, a dimostrazione che l’approccio che ci muove è tutto fuorché ideologico».
La Soldi però ha attaccato di fatto il governo per la violazione della parità di genere: «Le recenti nomine tutte al maschile nei tg della Rai costituiscono un strappo grave alla policy aziendale sulla parità di genere. Finora abbiamo ottenuto una significativa riduzione del gender gap, in termini di carriere e di retribuzioni tra il 2021 e il 2022, ma un simile sforzo purtroppo non è stato fatto nelle ultime nomine». La «smentita» è arrivata dallo stesso Sergio: «Quello del gender gap è un tema particolarmente sensibile per la Rai. Chiaramente, ciò che conta è la tendenza e il passo per ridurre il gap, su entrambi i fronti sono stati fatti significativi progressi e posso già assicurare che ulteriori avanzamenti verranno fatti nelle nomine che a breve completeranno la squadra di vertice».
Più appuntita la risposta della vicepresidente della Vigilanza, Augusta Montaruli (Fdi): «La questione di genere sta a cuore anche a noi, che per fortuna oggi in Italia abbiamo il primo premier donna. Ma quando si parla di gender policy della Rai più che di nomine e quote sarebbe utile occuparsi della differenza salariale tra uomo e donna a cominciare, ad esempio, dai compensi degli eccellenti fuoriusciti Fabio Fazio e Lucia Annunziata, visto che sui loro stipendi vige tutt’ora un inspiegabile mistero».
Infine il nuovo dg, Giampaolo Rossi, ha parlato della necessità di trasformare la Rai in una digital media company, passaggio indispensabile per la sopravvivenza dell’azienda. Ha condiviso l’importanza del canone per assicurare il servizio pubblico e ha lanciato gli Stati generali per «coinvolgere la società civile su una discussione sul ruolo del servizio pubblico». Per poi concludere: «Lavoriamo per garantire un pluralismo che spesso sulla Rai non c’è stato».
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L’ex direttore dell’«Espresso», che pubblicò il falso scoop sul Metropol, esce indenne dalla commissione Vigilanza. «Salvini, sprovveduto o bugiardo, tace», scriveva nel 2019. Ma oggi è lui ad aver perso la parola.La presidente Soldi annuncia ben 580 milioni di debiti e critica le ultime nomine tutte al maschile. L’ad Sergio: «Se cambia la riscossione il vero rischio è l’evasione».Lo speciale contiene due articoli.Ruber Silente, il mago del giornalismo d’inchiesta che ha la responsabilità della patacca Metropol, l’ha fatta franca anche ieri. Dalla riunione della commissione di Vigilanza sulla Rai, Marco Damilano è uscito senza un’ammaccatura e avrà il suo bel programmino in Viale Mazzini, pagato 1.000 euro a puntata con i soldi dei cittadini. In più, in qualunque momento si ritenesse minacciato dal famoso ritorno dei fascisti (che ieri però lo hanno graziato), potrà sempre dimettersi sbattendo la porta per andare dagli amici di La 7, dove già era una presenza fissa. Insomma, il centrodestra che si occupa di Rai ha anche abilmente creato il martire di domani. Era un anno che non si riuniva la Vigilanza, dove ieri si sono presentati il presidente della Rai, Marinella Soldi, l’amministratore delegato, Roberto Sergio, e il direttore generale, Giampaolo Rossi, con tanti buoni propositi e per battere cassa. Sergio, parlando davanti alle telecamere dell’Ansa al termine dell’audizione, è stato assai ecumenico: «C’è un rapporto da ricostruire, sia all’interno che all’esterno dell’azienda, bisogna cercare di abbassare un pochino i toni, mantenendoli in linea con gli obblighi di pluralismo e la possibilità per ognuno di esprimersi». Sarà con questa filosofia che i nuovi vertici di Viale Mazzini hanno confermato Il cavallo e la torre, il programma di Damilano su Rai 3, nonostante questo giornale abbia scoperchiato lo scandalo della falsa inchiesta su Matteo Salvini e il petrolio russo, che avrebbe dovuto incastrare per sempre il leader della Lega. Era l’estate del 2019 e i servizi uscirono sul settimanale L’Espresso, all’epoca diretto proprio da Damilano. Che oggi si è rinchiuso in uno sdegnoso silenzio.Il «caso Damilano», come lo ha chiamato il Corriere della Sera nei giorni scorsi, in realtà si è brevemente affacciato nell’aula della Vigilanza, ieri, ma senza effetto alcuno. Il senatore Giorgio Maria Bergesio non ha fatto tanti giri di parole: «Il caso Metropol è una vergogna, Damilano dovrebbe essere accompagnato alla porta». Duro anche il forzista Maurizio Gasparri, per il quale «la sinistra ha da sempre una quota di impunità che nessuno potrebbe permettersi. Dopo lo scandalo che La Verità ha scoperto, Damilano dovrebbe essere accompagnato alla porta». In realtà non si tratta di punire nessuno. Il giornalismo d’inchiesta, che Damilano ha solo visto praticare, ma che ha cavalcato assai bene quando lavorava per Carlo De Benedetti, presenta un sacco di trappole e trabocchetti. Faccendieri, massoni e spioni in libera uscita, spacciatori seriali di carte, audio e video, registrazioni abusive, documenti falsi più o meno. Nel caso del Metropol, però, come hanno spiegato su queste pagine Giacomo Amadori e François De Tonquedec, c’è il fondato sospetto che gli apprendisti stregoni siano stati direttamente prodotti e azionati dai giornalisti dell’Espresso, Giovanni Tizian e Stefano Vergine. Il 9 febbraio del 2021, il pm milanese Sergio Spadaro chiede a Tizian come ha conosciuto Gianluca Meranda, l’avvocato massone che avrebbe dovuto incastrare Salvini a Mosca nell’ottobre del 2018. Il cronista resta nel vago: «Ci siamo conosciuti a una festa nel 2018 a Roma. Non ricordo dove fosse la festa ma comunque è stato un incontro assolutamente casuale. Confermo di avere incontrato Meranda in alcune occasioni, il più delle volte presso il suo studio a Roma, altre volte in posti pubblici». Prima di chiudere il verbale, Tizian ha ancora l’occasione di illuminare la genesi del Bufalagate, quando il pm gli chiede se il manager Glauco Verdoia e Meranda avessero rapporti con la massoneria e/o con i servizi segreti. Risposta di Tizian: «Non lo so». Una parola sulla bufala russa, in realtà sfacciatamente made in Rome, dovrebbe dirla anche Damilano, romano, 55 anni, figlio di un giornalista della Rai (Andrea) e cresciuto nella Rete di Leoluca Orlando. Insomma, quanto di più vicino possibile a un suo grande sponsor come Walter Veltroni, con il quale condivide l’aria da eterno bravo ragazzo. Dovrebbe uscire dall’afasia non solo per responsabilità da ex direttore, ma perché nella patacca-complotto del Metropol anche lui ha intinto la penna. «Matteo Salvini ha occultato, omesso, oscurato», è l’attacco del suo editoriale sull’Espresso del 21 luglio 2019, intitolato «La superficie della menzogna». «Al Viminale siede uno sprovveduto o un bugiardo, o entrambe le cose, uno sbruffoncello, come disse di lui Carola Rackete», sancì il figlio dell’Azione cattolica, prima di trasformarsi in Ruber Silente, nuovo personaggio da Harry Potter. E non poteva mancare un predicozzo, sempre rivolto a Salvini, sul «tacere imbarazzato del ministro dell’Interno alle nostre domande». Ma sì, tacere, tacere e ancora tacere, in attesa che cali l’oblio. In certe sacrestie lo insegnano bene e Damilano mostra di aver imparato la lezione. Il fatto che la Guardia di finanza di Milano abbia dimostrato i contatti costanti tra Tizian e Meranda, con il sospetto che il caso Metropol sia stato orchestrato a tavolino, non merita una parola da parte del direttore che tutto pubblicò, filosofeggiando anche in prima persona. Adesso ha un altro anno di contratto in Rai, sponsorizzato dal Pd che lo ha salvato a spese nostre dal cambio di proprietà dell’Espresso. 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Sui conti la Soldi è stata molto chiara: «Vorrei trasferirvi un senso di urgenza. L’azienda, pur avendo chiuso l’ultimo bilancio in pareggio, affronta una situazione di indebitamento pari a 580 milioni di euro nel 2022. Per un rinnovo necessario delle forme di finanziamento, serve un piano industriale credibile e realistico da approvare non oltre il 2023». L’ad Sergio ha tenuto a puntualizzare: «Io non sono stato indicato per accettare l’idea che il canone non ci sia più. Rimane la fonte primaria e caratteristica del servizio pubblico, che procura quasi il 70% delle risorse complessive di gruppo e quello italiano è comunque è il più basso in Europa». Ha inoltre respinto l’ipotesi di togliere il canone dalla bolletta, aggiungendo che «qualora si intendesse procedere a una revisione del sistema di riscossione, sarà indispensabile valutare l’efficacia della soluzione alternativa e i correlati rischi», ricordando che prima c’era un’evasione del tributo del 30%. Sergio ha anche annunciato che oggi i vertici Rai chiederanno un appuntamento al Mef per saperne di più: «Stante l’attuale situazione, immaginiamo che anche nel 2024 sia riscosso come è stato riscosso fino a ora». Mentre sul pluralismo televisivo ha rivendicato la modalità partecipativa nella costruzione dei palinsesti e ha ribadito che «nessuna trasmissione d’inchiesta sarà cancellata». Non è mancata poi una frecciatina alla Annunziata: «Sono stati confermati anche quei programmi che alcuni temevano potessero subire un qualche ostracismo, a dimostrazione che l’approccio che ci muove è tutto fuorché ideologico». La Soldi però ha attaccato di fatto il governo per la violazione della parità di genere: «Le recenti nomine tutte al maschile nei tg della Rai costituiscono un strappo grave alla policy aziendale sulla parità di genere. Finora abbiamo ottenuto una significativa riduzione del gender gap, in termini di carriere e di retribuzioni tra il 2021 e il 2022, ma un simile sforzo purtroppo non è stato fatto nelle ultime nomine». La «smentita» è arrivata dallo stesso Sergio: «Quello del gender gap è un tema particolarmente sensibile per la Rai. Chiaramente, ciò che conta è la tendenza e il passo per ridurre il gap, su entrambi i fronti sono stati fatti significativi progressi e posso già assicurare che ulteriori avanzamenti verranno fatti nelle nomine che a breve completeranno la squadra di vertice». Più appuntita la risposta della vicepresidente della Vigilanza, Augusta Montaruli (Fdi): «La questione di genere sta a cuore anche a noi, che per fortuna oggi in Italia abbiamo il primo premier donna. Ma quando si parla di gender policy della Rai più che di nomine e quote sarebbe utile occuparsi della differenza salariale tra uomo e donna a cominciare, ad esempio, dai compensi degli eccellenti fuoriusciti Fabio Fazio e Lucia Annunziata, visto che sui loro stipendi vige tutt’ora un inspiegabile mistero». Infine il nuovo dg, Giampaolo Rossi, ha parlato della necessità di trasformare la Rai in una digital media company, passaggio indispensabile per la sopravvivenza dell’azienda. Ha condiviso l’importanza del canone per assicurare il servizio pubblico e ha lanciato gli Stati generali per «coinvolgere la società civile su una discussione sul ruolo del servizio pubblico». Per poi concludere: «Lavoriamo per garantire un pluralismo che spesso sulla Rai non c’è stato».
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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