2023-06-08
Viale Mazzini non cancella Damilano malgrado le balle russe sul Carroccio
Marco Damilano (Imagoeconomica)
L’ex direttore dell’«Espresso», che pubblicò il falso scoop sul Metropol, esce indenne dalla commissione Vigilanza. «Salvini, sprovveduto o bugiardo, tace», scriveva nel 2019. Ma oggi è lui ad aver perso la parola.La presidente Soldi annuncia ben 580 milioni di debiti e critica le ultime nomine tutte al maschile. L’ad Sergio: «Se cambia la riscossione il vero rischio è l’evasione».Lo speciale contiene due articoli.Ruber Silente, il mago del giornalismo d’inchiesta che ha la responsabilità della patacca Metropol, l’ha fatta franca anche ieri. Dalla riunione della commissione di Vigilanza sulla Rai, Marco Damilano è uscito senza un’ammaccatura e avrà il suo bel programmino in Viale Mazzini, pagato 1.000 euro a puntata con i soldi dei cittadini. In più, in qualunque momento si ritenesse minacciato dal famoso ritorno dei fascisti (che ieri però lo hanno graziato), potrà sempre dimettersi sbattendo la porta per andare dagli amici di La 7, dove già era una presenza fissa. Insomma, il centrodestra che si occupa di Rai ha anche abilmente creato il martire di domani. Era un anno che non si riuniva la Vigilanza, dove ieri si sono presentati il presidente della Rai, Marinella Soldi, l’amministratore delegato, Roberto Sergio, e il direttore generale, Giampaolo Rossi, con tanti buoni propositi e per battere cassa. Sergio, parlando davanti alle telecamere dell’Ansa al termine dell’audizione, è stato assai ecumenico: «C’è un rapporto da ricostruire, sia all’interno che all’esterno dell’azienda, bisogna cercare di abbassare un pochino i toni, mantenendoli in linea con gli obblighi di pluralismo e la possibilità per ognuno di esprimersi». Sarà con questa filosofia che i nuovi vertici di Viale Mazzini hanno confermato Il cavallo e la torre, il programma di Damilano su Rai 3, nonostante questo giornale abbia scoperchiato lo scandalo della falsa inchiesta su Matteo Salvini e il petrolio russo, che avrebbe dovuto incastrare per sempre il leader della Lega. Era l’estate del 2019 e i servizi uscirono sul settimanale L’Espresso, all’epoca diretto proprio da Damilano. Che oggi si è rinchiuso in uno sdegnoso silenzio.Il «caso Damilano», come lo ha chiamato il Corriere della Sera nei giorni scorsi, in realtà si è brevemente affacciato nell’aula della Vigilanza, ieri, ma senza effetto alcuno. Il senatore Giorgio Maria Bergesio non ha fatto tanti giri di parole: «Il caso Metropol è una vergogna, Damilano dovrebbe essere accompagnato alla porta». Duro anche il forzista Maurizio Gasparri, per il quale «la sinistra ha da sempre una quota di impunità che nessuno potrebbe permettersi. Dopo lo scandalo che La Verità ha scoperto, Damilano dovrebbe essere accompagnato alla porta». In realtà non si tratta di punire nessuno. Il giornalismo d’inchiesta, che Damilano ha solo visto praticare, ma che ha cavalcato assai bene quando lavorava per Carlo De Benedetti, presenta un sacco di trappole e trabocchetti. Faccendieri, massoni e spioni in libera uscita, spacciatori seriali di carte, audio e video, registrazioni abusive, documenti falsi più o meno. Nel caso del Metropol, però, come hanno spiegato su queste pagine Giacomo Amadori e François De Tonquedec, c’è il fondato sospetto che gli apprendisti stregoni siano stati direttamente prodotti e azionati dai giornalisti dell’Espresso, Giovanni Tizian e Stefano Vergine. Il 9 febbraio del 2021, il pm milanese Sergio Spadaro chiede a Tizian come ha conosciuto Gianluca Meranda, l’avvocato massone che avrebbe dovuto incastrare Salvini a Mosca nell’ottobre del 2018. Il cronista resta nel vago: «Ci siamo conosciuti a una festa nel 2018 a Roma. Non ricordo dove fosse la festa ma comunque è stato un incontro assolutamente casuale. Confermo di avere incontrato Meranda in alcune occasioni, il più delle volte presso il suo studio a Roma, altre volte in posti pubblici». Prima di chiudere il verbale, Tizian ha ancora l’occasione di illuminare la genesi del Bufalagate, quando il pm gli chiede se il manager Glauco Verdoia e Meranda avessero rapporti con la massoneria e/o con i servizi segreti. Risposta di Tizian: «Non lo so». Una parola sulla bufala russa, in realtà sfacciatamente made in Rome, dovrebbe dirla anche Damilano, romano, 55 anni, figlio di un giornalista della Rai (Andrea) e cresciuto nella Rete di Leoluca Orlando. Insomma, quanto di più vicino possibile a un suo grande sponsor come Walter Veltroni, con il quale condivide l’aria da eterno bravo ragazzo. Dovrebbe uscire dall’afasia non solo per responsabilità da ex direttore, ma perché nella patacca-complotto del Metropol anche lui ha intinto la penna. «Matteo Salvini ha occultato, omesso, oscurato», è l’attacco del suo editoriale sull’Espresso del 21 luglio 2019, intitolato «La superficie della menzogna». «Al Viminale siede uno sprovveduto o un bugiardo, o entrambe le cose, uno sbruffoncello, come disse di lui Carola Rackete», sancì il figlio dell’Azione cattolica, prima di trasformarsi in Ruber Silente, nuovo personaggio da Harry Potter. E non poteva mancare un predicozzo, sempre rivolto a Salvini, sul «tacere imbarazzato del ministro dell’Interno alle nostre domande». Ma sì, tacere, tacere e ancora tacere, in attesa che cali l’oblio. In certe sacrestie lo insegnano bene e Damilano mostra di aver imparato la lezione. Il fatto che la Guardia di finanza di Milano abbia dimostrato i contatti costanti tra Tizian e Meranda, con il sospetto che il caso Metropol sia stato orchestrato a tavolino, non merita una parola da parte del direttore che tutto pubblicò, filosofeggiando anche in prima persona. Adesso ha un altro anno di contratto in Rai, sponsorizzato dal Pd che lo ha salvato a spese nostre dal cambio di proprietà dell’Espresso. E che lo si tratti bene, altrimenti è subito dittatura.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rai-damilano-2661140456.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-nuova-rai-si-aggrappa-al-canone" data-post-id="2661140456" data-published-at="1686261363" data-use-pagination="False"> La nuova Rai si aggrappa al canone Ieri prima audizione in commissione Vigilanza per i nuovi vertici Rai: l’ad, Roberto Sergio, la presidente, Marinella Soldi, e il direttore generale, Giampaolo Rossi. Il primo ha affrontato la questione del canone che il leader della Lega, Matteo Salvini, ha sempre detto di voler abolire. La presidente grillina della commissione, Barbara Floridia, in apertura di seduta ha annunciato di aver chiesto l’audizione del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per avere una risposta univoca del governo. Sui conti la Soldi è stata molto chiara: «Vorrei trasferirvi un senso di urgenza. L’azienda, pur avendo chiuso l’ultimo bilancio in pareggio, affronta una situazione di indebitamento pari a 580 milioni di euro nel 2022. Per un rinnovo necessario delle forme di finanziamento, serve un piano industriale credibile e realistico da approvare non oltre il 2023». L’ad Sergio ha tenuto a puntualizzare: «Io non sono stato indicato per accettare l’idea che il canone non ci sia più. Rimane la fonte primaria e caratteristica del servizio pubblico, che procura quasi il 70% delle risorse complessive di gruppo e quello italiano è comunque è il più basso in Europa». Ha inoltre respinto l’ipotesi di togliere il canone dalla bolletta, aggiungendo che «qualora si intendesse procedere a una revisione del sistema di riscossione, sarà indispensabile valutare l’efficacia della soluzione alternativa e i correlati rischi», ricordando che prima c’era un’evasione del tributo del 30%. Sergio ha anche annunciato che oggi i vertici Rai chiederanno un appuntamento al Mef per saperne di più: «Stante l’attuale situazione, immaginiamo che anche nel 2024 sia riscosso come è stato riscosso fino a ora». Mentre sul pluralismo televisivo ha rivendicato la modalità partecipativa nella costruzione dei palinsesti e ha ribadito che «nessuna trasmissione d’inchiesta sarà cancellata». Non è mancata poi una frecciatina alla Annunziata: «Sono stati confermati anche quei programmi che alcuni temevano potessero subire un qualche ostracismo, a dimostrazione che l’approccio che ci muove è tutto fuorché ideologico». La Soldi però ha attaccato di fatto il governo per la violazione della parità di genere: «Le recenti nomine tutte al maschile nei tg della Rai costituiscono un strappo grave alla policy aziendale sulla parità di genere. Finora abbiamo ottenuto una significativa riduzione del gender gap, in termini di carriere e di retribuzioni tra il 2021 e il 2022, ma un simile sforzo purtroppo non è stato fatto nelle ultime nomine». La «smentita» è arrivata dallo stesso Sergio: «Quello del gender gap è un tema particolarmente sensibile per la Rai. Chiaramente, ciò che conta è la tendenza e il passo per ridurre il gap, su entrambi i fronti sono stati fatti significativi progressi e posso già assicurare che ulteriori avanzamenti verranno fatti nelle nomine che a breve completeranno la squadra di vertice». Più appuntita la risposta della vicepresidente della Vigilanza, Augusta Montaruli (Fdi): «La questione di genere sta a cuore anche a noi, che per fortuna oggi in Italia abbiamo il primo premier donna. Ma quando si parla di gender policy della Rai più che di nomine e quote sarebbe utile occuparsi della differenza salariale tra uomo e donna a cominciare, ad esempio, dai compensi degli eccellenti fuoriusciti Fabio Fazio e Lucia Annunziata, visto che sui loro stipendi vige tutt’ora un inspiegabile mistero». Infine il nuovo dg, Giampaolo Rossi, ha parlato della necessità di trasformare la Rai in una digital media company, passaggio indispensabile per la sopravvivenza dell’azienda. Ha condiviso l’importanza del canone per assicurare il servizio pubblico e ha lanciato gli Stati generali per «coinvolgere la società civile su una discussione sul ruolo del servizio pubblico». Per poi concludere: «Lavoriamo per garantire un pluralismo che spesso sulla Rai non c’è stato».
Volodymyr Zelensky (Getty Images)
Chiara Appendino (Imagoeconomica)