
Leggenda vuole che sia stato lui, sbarcato sulla costa in fuga da Troia, a portare le frise, piccole ciambelline secche (senza buco) con farina di grano e orzo. Stranamente qui l'olio per uso alimentare, franto nei trappeti ipogei, è conquista relativamente recente.Siamo nel tacco d'Italia, quella Puglia salentina incrocio di civiltà, ponte naturale tra il mondo greco e la nascente civiltà romana. Un tempo la Grecia Salentina si estendeva lungo la Messapia, ovvero quelle campagne che collegavano la mediterranea Otranto con la ionica Gallipoli. Di qui sono passati Micenei, Corinti, Illiri e poi Romani, Longobardi, Bizantini, Saraceni, Normanni, Svevi. Nella Grecia Salentina si parlava il griko, tradizione resistente giunta sino a noi. Una contrazione etnica e linguistica, frutto della modernità, che vede tuttora nove Comuni ancora fregiarsi delle loro antiche radici. Un orgoglio identitario ben sintetizzato dallo storico Domenicano Tondi, originario di Zollino: «Roma ebbe vinta la Grecia, ma la vinta Grecia vinse Roma con le arti e le lettere sue. Greco parliamo, ma non perché siamo stranieri, siamo la più vecchia gente del luogo». Cugini di prossimità li troviamo nella Bovesia, ovvero l'Aspromonte reggino, dove si parla il grecanico, in un'area più ristretta di cinque Comuni. Con queste premesse il viaggio goloso lascia basiti per la varietà e l'originalità di alcune preparazioni, mentre altre sono l'evidente frutto di contaminazioni crociate estese verso confini ben più ampi di tutta l'area regionale. La Puglia non è solo il granaio d'Italia, ma pure in fatto di produzione olearia non si scherza, con gli oltre venticinque milioni di piante, molte ultracentenarie. Eppure l'olio per uso alimentare è conquista relativamente recente. Fino al XVIII secolo da qui partivano i bastimenti verso le principali città d'Europa cariche di olio per l'illuminazione urbana mentre con un derivato della lavorazione particolarmente grasso si fornivano i laboratori di Marsiglia, il più ricercato sapone dell'epoca, una tradizione basta sull'uso della lavorazione delle olive iniziata nella siriana Aleppo. Dopo la raccolta le olive venivano depositate nei trappeti ipogei. Altra storia nella storia. La conformazione del terreno della penisola salentina era ricca di grotte e anfratti dove, in epoca romana, venivano conservate e lavorate le granaglie. Con l'arrivo dei bizantini si capì che con la lavorazione delle olive si poteva ottenere di più da un'agricoltura traino dell'economia locale. Questi frantoi sotterranei, ovvero i trappeti, erano ideali sotto vari aspetti. Assicuravano una temperatura costante ideale per la conservazione prima e la lavorazione poi delle olive. Inoltre, tenendo conto della «vivacità» storica del passaggio di milizie diverse a contendersi i territori, consentivano una certa «riservatezza» per i proprietari terrieri del tempo. Un piccolo mondo a parte. La comunicazione con l'esterno assicurata da un unico foro sulla volta. Da qui venivano scaricati i cesti di olive, di qui entrava la luce. Poi all'interno la più totale autosufficienza. Mole azionate da pazienti ciuchi. Torchi per la spremitura. Uomini, stalle, depositi vari della mercanzia. Una sorta di ciurma sotterranea guidata da un nachiro (rinvio all'arabo nocchiero) a coordinare i trappitari, ovvero i lavoranti. Fare il trappitaro aveva i suoi vantaggi. È vero che si lavorava per mesi lontano dal mondo e dalle famiglie. Tuttavia il pasto era assicurato ogni giorno. Il fattore faceva arrivare caldaie con verdure di stagione, rape e mugnoli, una varietà locale di cavolo broccolo, il tutto condito al momento con l'olio fresco di spremitura. Non solo. A fine stagione (corrispondente in pratica all'arrivo della primavera) si tornava a casa con un salario e alcune fiasche di olio, buone per tutta la famiglia. Al tempo erano oltre un migliaio i trappeti nel Salento. Ne sono giunti sino a noi circa centocinquanta, restaurati o recuperati. Capitale trappesca Sternatia, dove esistevano ben diciannove frantoi, tutti collegati tra loro da camminamenti sotterranei. Una cucina semplice e di resistenza umana in cui il pane era alimento principe. Nella civiltà rurale un posto importante riservato alle frise, sorta di piccole ciambelline secche (senza buco), lavorate con farina di grano e orzo. Leggenda vuole siano arrivate con Enea, sbarcato sulla costa in fuga da Troia. In realtà erano un modo per avere un prodotto a lunga conservazione che si potesse riutilizzare nel tempo. Leggermente inumidite in acqua e poi condite con quanto offriva stagione: un po' d'olio, pomodoro, finocchio, peperoncino. Ritornate di attualità a fine Ottocento quando, con il declino del latifondo, le campagne vennero date in uso a piccoli affittuari. Questi, nella stagione estiva, abitavano assieme alle famiglie in rustici essenziali, i furnieddhri, spesso lontani dai centri abitati. Non vi era la possibilità di preparare pane fresco, ed ecco tornare utili le frise, conservate in grandi giare di creta, le capase. Originali gli sceblasti, che in griko sta per «senza forma». Un pane condito con olive, capperi e quant'altro. Infornato ancora morbido (senza forma) a cottura ultimata lasciava trasparire in superficie i vari ingredienti. Pane devozionale protagonista dei riti di Ognissanti e altri di tradizione locale. Salendo di grano anche con la pasta la festa è assicurata. Tralasciando i ciceri e tria che sono uno dei simboli cittadini, cioè Lecce, ecco i curti e cruessi, sorta di maccheroncini fatti in casa. Conditi con acciuga o ricotta forte, anche se il tocco in più arriva con la preparazione cu lu cuettu, il mosto cotto. Pasta sbollentata in acqua e poi cottura finale nel mosto bollente. Il tutto decorato poi al piatto con mollica fritta. Altra eccellenza le sagne 'cannullate, ovvero tagliatelle arricciate a mano, sì da ricordare i trucioli di legno nelle botteghe dei falegnami, evidente omaggio a san Giuseppe. Condite in vario modo, ad esempio con muddica (mollica fritta) o cime di rapa. L'unica pasta a non avere uova nell'impasto. Sulle verdure è una jam session infinita. Una citazione la meritano tutta i lampascioni, il bulbo selvatico più antico del territorio. Innumerevoli i riferimenti nei testi classici, da Ovidio, a Plinio il vecchio, Galeno, che ne suggeriva l'aiutino afrodisiaco. Raccolte dai pampasciunari, sorta di rabdomanti di delizie per boschi e sterpaglie. Molto duttili in cucina. Il loro fascino nell'insolita nota amarognola cui segue un lungo retrogusto dolce e delicato. Vincenzo Buonassisi li consiglia con bucatini e sardizza, la salsiccia locale, solo carni magre con grattugiata assassina di buccia di limone. Altra curiosità la paparina, ovvero la piantina del papavero prima di fare il fiore. Bollita sino a diventare cremosa con olio e aglio. Con una fetta di pane la consolazione dei lavoranti sui campi d'estate. Nella Grecia Salentina regna la ricotta scante, una crema di formaggio piccante, fatta maturare dentro orci di terracotta. Un tempo il cavallo era compagno di vita, al lavoro prima e in cucina dopo. «Salutarlo a tavola era un modo per ricordarlo». I pezzetti, carni cotte a lungo in grandi calderoni per tutta la comunità offerti dai maggiorenti locali. Ora in pignate, pentole di terracotta, la carne a farcire gustosi panini. Per non parlare del quatarone, un'antologia di frattaglie e tagli minori equini. Una preparazione che non tiene conto del tempo. Le carni lavate e sbollentate più volte. Verdure cotte sino a diventare cremose. Poi si unisce il tutto per farlo maritare in cottura altre tre quattro ore. Un tempo specialità delle macellerie con uso di cucina. Una sorta di cibo di strada ante litteram. I fichi farciti con mandorle e pezzetti di limone, conservati in scatole di latta per le grandi occasioni assieme ad anice e cannella. Sui dolci la coddura, una scultura dolce modellata ad personam. Pupa, bambole per le bambine. Cadduzzhu, gallo per i bambini. A forma di cuore per gli innamorati. Decorata con uova sode e da consumare rigorosamente tutti assieme a Pasquetta.
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