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2024-03-25
La doppia faccia del Qatar
L'emiro del Qatar Tamim Bin Hamad Al-Thani con Joe Biden (Ansa)
Il Qatar da decenni sostiene politicamente e finanziariamente l’organizzazione terroristica Hamas, che è il braccio armato della Fratellanza musulmana. Nonostante questo, il piccolo emirato del gas nel Golfo Persico è riuscito a diventare il principale negoziatore tra Hamas e Israele, anche se è evidente che non si tratta certo di un attore neutrale, così come non è un segreto per nessuno che negli anni altre organizzazioni terroristiche hanno ricevuto denaro dagli emiri di Doha.
Il Qatar ha una lunga storia di sostegno alla Fratellanza musulmana e alle sue propaggini. Durante il periodo in cui la Fratellanza era al potere in Egitto, il Qatar fornì al governo dell’allora presidente Mohammed Morsi circa 7,5 miliardi di dollari. Secondo quanto riportato da Reuters, il Qatar avrebbe anche assistito il regime di Morsi con sovvenzioni e forniture energetiche. Durante la presidenza di Morsi fino a 850.000 dollari sarebbero stati segretamente trasferiti alla Fratellanza dall’ex primo ministro del Qatar, Sheikh Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani. Come scrive il Counter Extremism Project, un documento datato 28 marzo 2013 fornisce dettagli sull’assegnazione dei fondi da parte di Hamad bin Jassim a una lunga lista di leader egiziani dei Fratelli musulmani. I tribunali egiziani hanno anche accusato Morsi e i suoi collaboratori di aver divulgato segreti di Stato al Qatar. Il Qatar ha fornito un sostegno totale alla Fratellanza musulmana che include anche il ruolo della rete satellitare di proprietà qatariota, al Jazeera. Quest’ultima è stata più volte accusata di essere vicina alla massima espressione dell’islam politico, tanto che per anni ha trasmesso tra il 1996 e il 2022 il programma televisivo del predicatore salafita estremista Yusuf al Qaradawi, deceduto a Doha nel 2022 a 96 anni, che veniva chiamato Sharia wa al-Haya (Legge e Vita). Al Qaradawi rispondeva alle domande degli spettatori su una varietà di argomenti, tra cui la preghiera, il digiuno, il matrimonio, la famiglia e l’eredità. Offriva la sua opinione anche su eventi politici e sociali in corso nel mondo musulmano e altrove e forniva analisi e spiegazioni di versetti del Corano. All’inizio degli anni 2000 Hamas ha condotto un’incessante campagna di attentati suicidi contro Israele che ha goduto di un certo grado di legittimità religiosa proprio grazie a Yusuf al Qaradawi.
Al Jazeera, di proprietà del governo del Qatar, svolge effettivamente il ruolo di portavoce mediatico dello Stato e la rete ha spesso enfatizzato le azioni violente di Hamas, fornendo una copertura particolarmente accesa durante i conflitti contro Israele. Dopo l’attacco del 7 ottobre, al Jazeera ha trasmesso la chiamata alle armi del capo militare di Hamas, Mohammad Deif (oggi nascosto nei tunnel) e ha diffuso tutte le dichiarazioni incendiarie di Ismail Haniyeh («Invitiamo i figli di questa intera nazione, nelle loro varie località, a unirsi a questa battaglia in ogni modo possibile») e quelle del suo vice, Saleh al Arouri che è stato incenerito da un drone israeliano lo scorso 2 gennaio mentre presiedeva una riunione nell’ufficio di Hamas a Beirut (Libano).
Il sostegno ad Hamas da parte del Qatar si è tradotto fino ad oggi in più di due miliardi di dollari, molti dei quali sono finiti nelle tasche dei capi dell’organizzazione terroristica che non a caso vivono nel lusso a Doha. Ad esempio, il leader attuale di Hamas, Ismail Haniyeh, 61 anni, che si è appena sposato per la settima volta con una ventottenne palestinese, ha da tempo lasciato la sua casa nel campo profughi di al-Shati a Gaza per vivere in Qatar, da dove gestisce il movimento e anche il suo patrimonio, stimato in circa quattro miliardi di dollari. Anche il suo predecessore Khaled Meshal (patrimonio stimato in 3,5 miliardi di dollari) si è trasferito in Qatar nel 2012, insieme all’ufficio politico di Hamas che precedentemente risiedeva in Siria. Altri alti funzionari, come Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza, e Tahar al Nounou, consigliere politico di Haniyeh, hanno trovato rifugio in Qatar. I capi di Hamas non vogliono lasciare il Paese così come richiesto da Usa e Israele per andare in esilio in Algeria, Tunisia o Turchia, perché qui il Mossad avrebbe gioco facile per eliminarli.
Dato che il Qatar è un importante alleato designato dagli Stati Uniti, il suo costante sostegno a Hamas solleva un interrogativo che ora è urgente: non è giunta l’ora che Washington debba esercitare forti pressioni sul Paese del Golfo per chiudere gli uffici di Hamas, espellere i suoi funzionari e interrompere il flusso finanziario mensile? Il problema è che nonostante il suo sostegno a entità ritenute terroristiche, il Qatar è stato designato dagli Stati Uniti come uno dei principali alleati non Nato. Questo perché il Paese svolge un ruolo cruciale come hub strategico per le operazioni militari statunitensi nella regione del Golfo Persico. La base aeronautica di al Udeid, situata a 19 miglia a sud ovest di Doha, ospita circa 10.000 soldati statunitensi e il quartier generale avanzato del Centcom, da cui gli Stati Uniti conducono le operazioni aeree contro lo Stato islamico in Iraq e Siria. Inoltre, la base, costruita dal Qatar in seguito all’Operazione Desert Storm del 1991, ospita anche la Royal Air Force del Regno Unito e altre forze straniere.
Secondo l’analista Giovanni Giacalone «gli Stati Uniti hanno un’importante base militare in Qatar, ma si può essere alleati di un Paese che sostiene il terrorismo di Hamas? L’eccidio del 7 ottobre ha mandato in corto circuito tutta una serie di equilibri e tra questi c’è proprio la posizione del Qatar che va assolutamente rivista. Il paradosso è che Washington continua a presentare Doha come “mediatore” interessato alla risoluzione del conflitto quando di fatto svolge il ruolo di motore diplomatico di Hamas che, lo ripeto ancora, è un’organizzazione terrorista. I leader di Hamas vivono da molti anni protetti a Doha. La pressione non va fatta su Israele, che sta rispondendo a un’aggressione, ma su Hamas e in primis sul Qatar affinché cacci i leader di Hamas e smetta di finanziarla, a costo anche di chiudere la base militare e inserirlo nella lista dei Paesi sostenitori del terrorismo, cosa che doveva già essere stata fatta, a mio avviso».
Circa un terzo del sostegno del Qatar nella Striscia di Gaza è erogato sotto forma di carburante che le autorità di Hamas vendono in contanti, il resto va in assistenza alla popolazione e stipendi dei dipendenti pubblici che Hamas taglieggia prelevando soldi dai loro stipendi. Hamas fa anche la cresta su tutti gli aiuti che affluiscono a Gaza e non è certo un caso che la popolazione palestinese nonostante i miliardi di dollari che arrivano siano in miseria mentre i capi e i capetti di Hamas sfrecciano con i loro Suv e gli abiti firmati per le strade di Gaza City, senza contare le ville sul mare (oggi rase al suolo dall’Esercito israeliano), nelle quali davano sontuose feste. I capi di Hamas invitano i palestinesi a morire in guerra mentre loro e i loro figli sono all’estero dove spendono migliaia di dollari nelle gioiellerie e persino gli ultimi capi rimasti nella Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre sono scappati attraverso il valico di Rafah, ad esempio il portavoce del ministero della Sanità Ashraf al Qadra, che è una sorta di mago dei numeri dato che è lui che aggiorna sulla conta (inventata di sana pianta) dei morti nella Striscia di Gaza, che oggi si è messo al riparo in Egitto. Lo stesso ha tentato di fare senza fortuna Iman Batanj portavoce della polizia di Hamas (ma ci riproverà di sicuro), mentre altri dirigenti di rango minore stanno facendo di tutto per mettersi al riparo con le loro famiglie perché la jihad è bella se a farla sono gli altri.
Dopo calcio, hotel e moda l’emirato si allarga in Europa sfruttando l’arma del gas
Il Qatar è uno Stato del Medio Oriente situato lungo la costa occidentale del golfo Persico, con il suo territorio interamente affacciato sul mare e collegato solo da un breve lembo di confine all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. La sua estensione è costituita da una stretta striscia di terra, lunga circa 160 km e larga tra i 50 e gli 80 km. Questa regione è caratterizzata da un terreno pianeggiante e arido, tipico delle zone desertiche, dove si trovano deserti sabbiosi, rocce e steppe aride. Il Qatar, dove vivono appena 2,688 milioni di persone, ha la sua sconfinata ricchezza nel sottosuolo: si classifica come il terzo maggior produttore mondiale di gas naturale, seguendo gli Stati Uniti, la Russia e l’Iran. È inoltre il principale esportatore di gas naturale liquefatto (gnl) a livello globale.
Il giacimento North Dome Gas Field è il terzo più vasto al mondo per riserve di gas naturale confermate, posizionandosi dopo la Russia e l’Iran. Le riserve accertate di questo giacimento ammontano a 896.000 miliardi di piedi cubi di gas naturale, equivalenti a circa 24.500 miliardi di metri cubi, rappresentando circa il 14% delle riserve globali. Situato nel bacino del Fars Arch, il giacimento si estende verso nord oltre i confini marittimi con l’Iran, e confina con il grande giacimento iraniano di gas di South Pars. Il ministro dell’Energia del Qatar, Saad Sherida al Kaabi, che è anche a capo dell’azienda di stato Qatar Energy, ha annunciato che il nuovo piano di espansione del North Field, denominato North Field West, porterà ad un aumento di 16 milioni di tonnellate di gnl all’anno rispetto ai piani esistenti. Questa espansione, che sui mercati servirà a colmare il vuoto lasciato dalle forniture russe bandite dopo la guerra in Ucraina, porterà la produzione complessiva del North Field da 77 milioni di tonnellate attuali a 142 milioni di tonnellate, rappresentando un aumento dell’85%. Al Kaabi ha inoltre dichiarato che Qatar Energy inizierà immediatamente i lavori di ingegneria per garantire il completamento dell’espansione entro il 2030.
Da una prospettiva macroeconomica, il Qatar si posiziona tra i Paesi con il più alto pil pro capite al mondo, classificandosi al 4º posto secondo le previsioni del Fmi per il 2023, con un valore di 89.417 dollari. Per fare un confronto, l’Italia si trova al 38º posto in questa classifica. Tutta questa ricchezza è servita a comprare asset in tutto il mondo attraverso il Qatar Investment Authority (Qia) che detiene, per esempio, il 15,5% di Volkswagen, il 6,3% della banca inglese Barclays e il 6% di Credit Suisse. Inoltre, possiede quote significative in Airbus, Total, Vivendi ed Engie solo per citarne alcuni. In Italia il Qia, che ha in pancia asset pari a più di 460 miliardi di dollari, ha investito massicciamente nell’immobiliare (5 miliardi di dollari). A Milano possiede anche l’hotel di lusso Excelsior Gallia. Al Qatar appartengono una serie di hotel 5 stelle a Roma (St. Regis ed Exclesior), a Firenze (Four Season e Baglioni) e a Venezia (Gritti), oltre a diversi complessi turistici in Costa Smeralda e una serie di maison di alta moda.
In Francia il Qatar da decenni domina la scena degli affari, della politica (non si contano più gli scandali che vedono politici di destra e di sinistra prendere mazzette dagli uomini dell’emirato) e dello sport grazie al Paris Saint Germain, squadra di calcio della Ligue 1 acquistata nel 2011 dal Qatar Sport Investments per 200 milioni di euro (oggi vale 4,25 miliardi di euro), nella quale ha investito fin qui almeno 2 miliardi di euro. Il 27 febbraio scorso, Francia e Qatar hanno stretto una partnership strategica, con il Qatar che si è impegnato a destinare 10 miliardi di euro a start up e fondi di investimento in Francia tra il 2024 e il 2030, secondo quanto dichiarato dalla presidenza francese in una nota. Gli investimenti, mirati al «reciproco vantaggio di entrambi i Paesi», si concentreranno su settori chiave che spaziano dalla transizione energetica ai semiconduttori, dall’aerospaziale all’intelligenza artificiale, dal digitale alla sanità, dall’ospitalità alla cultura. Gli Stati europei mantengono una fitta rete di relazioni commerciali con il Qatar, che nessuno sembra voler interrompere anche perché i qatarini sono molto generosi come visto con il Qatargate: scandalo che ormai è stato affossato perché ha scoperchiato gli inconfessabili intrallazzi di alcuni parlamentari europei che hanno ricevuto per anni pacchi di euro per difendere Doha nelle istituzioni europee.
I rapporti con il Qatar sono accompagnati da un’ipocrisia evidente: da un lato, attraverso i media, si denunciano le violazioni dei diritti umani e dei diritti delle persone Lgbt, e il finanziamento al terrorismo, mentre dall’altro i politici europei cercano di ottenere profitti (talvolta personali) dai finanziamenti provenienti da Doha, così come da altri Paesi del Golfo. Poi se le cose vanno male in politica gli uomini di Doha hanno sempre un sacco di poltrone ben remunerate da offrire ai vecchi e nuovi amici, compresi alcuni organi di stampa, pronti a parlar bene dell’emirato del gas. D’altronde, come scrive in un celebre aforisma lo scrittore tedesco Gabriel Laub, «gli uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l’occasione».
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Riduci
È il primo finanziatore di Hamas, eppure negozia con Israele e gli Stati Uniti lo considerano un alleato chiave: fino a quando?La rinuncia Ue al metano russo aumenta l’importanza di quello liquido, di cui Doha è primo esportatore globale. Il rapporto speciale con Parigi e il caso dei politici comprati.Lo speciale contiene due articoli.Il Qatar da decenni sostiene politicamente e finanziariamente l’organizzazione terroristica Hamas, che è il braccio armato della Fratellanza musulmana. Nonostante questo, il piccolo emirato del gas nel Golfo Persico è riuscito a diventare il principale negoziatore tra Hamas e Israele, anche se è evidente che non si tratta certo di un attore neutrale, così come non è un segreto per nessuno che negli anni altre organizzazioni terroristiche hanno ricevuto denaro dagli emiri di Doha. Il Qatar ha una lunga storia di sostegno alla Fratellanza musulmana e alle sue propaggini. Durante il periodo in cui la Fratellanza era al potere in Egitto, il Qatar fornì al governo dell’allora presidente Mohammed Morsi circa 7,5 miliardi di dollari. Secondo quanto riportato da Reuters, il Qatar avrebbe anche assistito il regime di Morsi con sovvenzioni e forniture energetiche. Durante la presidenza di Morsi fino a 850.000 dollari sarebbero stati segretamente trasferiti alla Fratellanza dall’ex primo ministro del Qatar, Sheikh Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani. Come scrive il Counter Extremism Project, un documento datato 28 marzo 2013 fornisce dettagli sull’assegnazione dei fondi da parte di Hamad bin Jassim a una lunga lista di leader egiziani dei Fratelli musulmani. I tribunali egiziani hanno anche accusato Morsi e i suoi collaboratori di aver divulgato segreti di Stato al Qatar. Il Qatar ha fornito un sostegno totale alla Fratellanza musulmana che include anche il ruolo della rete satellitare di proprietà qatariota, al Jazeera. Quest’ultima è stata più volte accusata di essere vicina alla massima espressione dell’islam politico, tanto che per anni ha trasmesso tra il 1996 e il 2022 il programma televisivo del predicatore salafita estremista Yusuf al Qaradawi, deceduto a Doha nel 2022 a 96 anni, che veniva chiamato Sharia wa al-Haya (Legge e Vita). Al Qaradawi rispondeva alle domande degli spettatori su una varietà di argomenti, tra cui la preghiera, il digiuno, il matrimonio, la famiglia e l’eredità. Offriva la sua opinione anche su eventi politici e sociali in corso nel mondo musulmano e altrove e forniva analisi e spiegazioni di versetti del Corano. All’inizio degli anni 2000 Hamas ha condotto un’incessante campagna di attentati suicidi contro Israele che ha goduto di un certo grado di legittimità religiosa proprio grazie a Yusuf al Qaradawi. Al Jazeera, di proprietà del governo del Qatar, svolge effettivamente il ruolo di portavoce mediatico dello Stato e la rete ha spesso enfatizzato le azioni violente di Hamas, fornendo una copertura particolarmente accesa durante i conflitti contro Israele. Dopo l’attacco del 7 ottobre, al Jazeera ha trasmesso la chiamata alle armi del capo militare di Hamas, Mohammad Deif (oggi nascosto nei tunnel) e ha diffuso tutte le dichiarazioni incendiarie di Ismail Haniyeh («Invitiamo i figli di questa intera nazione, nelle loro varie località, a unirsi a questa battaglia in ogni modo possibile») e quelle del suo vice, Saleh al Arouri che è stato incenerito da un drone israeliano lo scorso 2 gennaio mentre presiedeva una riunione nell’ufficio di Hamas a Beirut (Libano). Il sostegno ad Hamas da parte del Qatar si è tradotto fino ad oggi in più di due miliardi di dollari, molti dei quali sono finiti nelle tasche dei capi dell’organizzazione terroristica che non a caso vivono nel lusso a Doha. Ad esempio, il leader attuale di Hamas, Ismail Haniyeh, 61 anni, che si è appena sposato per la settima volta con una ventottenne palestinese, ha da tempo lasciato la sua casa nel campo profughi di al-Shati a Gaza per vivere in Qatar, da dove gestisce il movimento e anche il suo patrimonio, stimato in circa quattro miliardi di dollari. Anche il suo predecessore Khaled Meshal (patrimonio stimato in 3,5 miliardi di dollari) si è trasferito in Qatar nel 2012, insieme all’ufficio politico di Hamas che precedentemente risiedeva in Siria. Altri alti funzionari, come Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza, e Tahar al Nounou, consigliere politico di Haniyeh, hanno trovato rifugio in Qatar. I capi di Hamas non vogliono lasciare il Paese così come richiesto da Usa e Israele per andare in esilio in Algeria, Tunisia o Turchia, perché qui il Mossad avrebbe gioco facile per eliminarli. Dato che il Qatar è un importante alleato designato dagli Stati Uniti, il suo costante sostegno a Hamas solleva un interrogativo che ora è urgente: non è giunta l’ora che Washington debba esercitare forti pressioni sul Paese del Golfo per chiudere gli uffici di Hamas, espellere i suoi funzionari e interrompere il flusso finanziario mensile? Il problema è che nonostante il suo sostegno a entità ritenute terroristiche, il Qatar è stato designato dagli Stati Uniti come uno dei principali alleati non Nato. Questo perché il Paese svolge un ruolo cruciale come hub strategico per le operazioni militari statunitensi nella regione del Golfo Persico. La base aeronautica di al Udeid, situata a 19 miglia a sud ovest di Doha, ospita circa 10.000 soldati statunitensi e il quartier generale avanzato del Centcom, da cui gli Stati Uniti conducono le operazioni aeree contro lo Stato islamico in Iraq e Siria. Inoltre, la base, costruita dal Qatar in seguito all’Operazione Desert Storm del 1991, ospita anche la Royal Air Force del Regno Unito e altre forze straniere.Secondo l’analista Giovanni Giacalone «gli Stati Uniti hanno un’importante base militare in Qatar, ma si può essere alleati di un Paese che sostiene il terrorismo di Hamas? L’eccidio del 7 ottobre ha mandato in corto circuito tutta una serie di equilibri e tra questi c’è proprio la posizione del Qatar che va assolutamente rivista. Il paradosso è che Washington continua a presentare Doha come “mediatore” interessato alla risoluzione del conflitto quando di fatto svolge il ruolo di motore diplomatico di Hamas che, lo ripeto ancora, è un’organizzazione terrorista. I leader di Hamas vivono da molti anni protetti a Doha. La pressione non va fatta su Israele, che sta rispondendo a un’aggressione, ma su Hamas e in primis sul Qatar affinché cacci i leader di Hamas e smetta di finanziarla, a costo anche di chiudere la base militare e inserirlo nella lista dei Paesi sostenitori del terrorismo, cosa che doveva già essere stata fatta, a mio avviso». Circa un terzo del sostegno del Qatar nella Striscia di Gaza è erogato sotto forma di carburante che le autorità di Hamas vendono in contanti, il resto va in assistenza alla popolazione e stipendi dei dipendenti pubblici che Hamas taglieggia prelevando soldi dai loro stipendi. Hamas fa anche la cresta su tutti gli aiuti che affluiscono a Gaza e non è certo un caso che la popolazione palestinese nonostante i miliardi di dollari che arrivano siano in miseria mentre i capi e i capetti di Hamas sfrecciano con i loro Suv e gli abiti firmati per le strade di Gaza City, senza contare le ville sul mare (oggi rase al suolo dall’Esercito israeliano), nelle quali davano sontuose feste. I capi di Hamas invitano i palestinesi a morire in guerra mentre loro e i loro figli sono all’estero dove spendono migliaia di dollari nelle gioiellerie e persino gli ultimi capi rimasti nella Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre sono scappati attraverso il valico di Rafah, ad esempio il portavoce del ministero della Sanità Ashraf al Qadra, che è una sorta di mago dei numeri dato che è lui che aggiorna sulla conta (inventata di sana pianta) dei morti nella Striscia di Gaza, che oggi si è messo al riparo in Egitto. Lo stesso ha tentato di fare senza fortuna Iman Batanj portavoce della polizia di Hamas (ma ci riproverà di sicuro), mentre altri dirigenti di rango minore stanno facendo di tutto per mettersi al riparo con le loro famiglie perché la jihad è bella se a farla sono gli altri.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/qatar-geopolitica-hamas-2667593382.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dopo-calcio-hotel-e-moda-lemirato-si-allarga-in-europa-sfruttando-larma-del-gas" data-post-id="2667593382" data-published-at="1711361932" data-use-pagination="False"> Dopo calcio, hotel e moda l’emirato si allarga in Europa sfruttando l’arma del gas Il Qatar è uno Stato del Medio Oriente situato lungo la costa occidentale del golfo Persico, con il suo territorio interamente affacciato sul mare e collegato solo da un breve lembo di confine all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. La sua estensione è costituita da una stretta striscia di terra, lunga circa 160 km e larga tra i 50 e gli 80 km. Questa regione è caratterizzata da un terreno pianeggiante e arido, tipico delle zone desertiche, dove si trovano deserti sabbiosi, rocce e steppe aride. Il Qatar, dove vivono appena 2,688 milioni di persone, ha la sua sconfinata ricchezza nel sottosuolo: si classifica come il terzo maggior produttore mondiale di gas naturale, seguendo gli Stati Uniti, la Russia e l’Iran. È inoltre il principale esportatore di gas naturale liquefatto (gnl) a livello globale. Il giacimento North Dome Gas Field è il terzo più vasto al mondo per riserve di gas naturale confermate, posizionandosi dopo la Russia e l’Iran. Le riserve accertate di questo giacimento ammontano a 896.000 miliardi di piedi cubi di gas naturale, equivalenti a circa 24.500 miliardi di metri cubi, rappresentando circa il 14% delle riserve globali. Situato nel bacino del Fars Arch, il giacimento si estende verso nord oltre i confini marittimi con l’Iran, e confina con il grande giacimento iraniano di gas di South Pars. Il ministro dell’Energia del Qatar, Saad Sherida al Kaabi, che è anche a capo dell’azienda di stato Qatar Energy, ha annunciato che il nuovo piano di espansione del North Field, denominato North Field West, porterà ad un aumento di 16 milioni di tonnellate di gnl all’anno rispetto ai piani esistenti. Questa espansione, che sui mercati servirà a colmare il vuoto lasciato dalle forniture russe bandite dopo la guerra in Ucraina, porterà la produzione complessiva del North Field da 77 milioni di tonnellate attuali a 142 milioni di tonnellate, rappresentando un aumento dell’85%. Al Kaabi ha inoltre dichiarato che Qatar Energy inizierà immediatamente i lavori di ingegneria per garantire il completamento dell’espansione entro il 2030. Da una prospettiva macroeconomica, il Qatar si posiziona tra i Paesi con il più alto pil pro capite al mondo, classificandosi al 4º posto secondo le previsioni del Fmi per il 2023, con un valore di 89.417 dollari. Per fare un confronto, l’Italia si trova al 38º posto in questa classifica. Tutta questa ricchezza è servita a comprare asset in tutto il mondo attraverso il Qatar Investment Authority (Qia) che detiene, per esempio, il 15,5% di Volkswagen, il 6,3% della banca inglese Barclays e il 6% di Credit Suisse. Inoltre, possiede quote significative in Airbus, Total, Vivendi ed Engie solo per citarne alcuni. In Italia il Qia, che ha in pancia asset pari a più di 460 miliardi di dollari, ha investito massicciamente nell’immobiliare (5 miliardi di dollari). A Milano possiede anche l’hotel di lusso Excelsior Gallia. Al Qatar appartengono una serie di hotel 5 stelle a Roma (St. Regis ed Exclesior), a Firenze (Four Season e Baglioni) e a Venezia (Gritti), oltre a diversi complessi turistici in Costa Smeralda e una serie di maison di alta moda. In Francia il Qatar da decenni domina la scena degli affari, della politica (non si contano più gli scandali che vedono politici di destra e di sinistra prendere mazzette dagli uomini dell’emirato) e dello sport grazie al Paris Saint Germain, squadra di calcio della Ligue 1 acquistata nel 2011 dal Qatar Sport Investments per 200 milioni di euro (oggi vale 4,25 miliardi di euro), nella quale ha investito fin qui almeno 2 miliardi di euro. Il 27 febbraio scorso, Francia e Qatar hanno stretto una partnership strategica, con il Qatar che si è impegnato a destinare 10 miliardi di euro a start up e fondi di investimento in Francia tra il 2024 e il 2030, secondo quanto dichiarato dalla presidenza francese in una nota. Gli investimenti, mirati al «reciproco vantaggio di entrambi i Paesi», si concentreranno su settori chiave che spaziano dalla transizione energetica ai semiconduttori, dall’aerospaziale all’intelligenza artificiale, dal digitale alla sanità, dall’ospitalità alla cultura. Gli Stati europei mantengono una fitta rete di relazioni commerciali con il Qatar, che nessuno sembra voler interrompere anche perché i qatarini sono molto generosi come visto con il Qatargate: scandalo che ormai è stato affossato perché ha scoperchiato gli inconfessabili intrallazzi di alcuni parlamentari europei che hanno ricevuto per anni pacchi di euro per difendere Doha nelle istituzioni europee. I rapporti con il Qatar sono accompagnati da un’ipocrisia evidente: da un lato, attraverso i media, si denunciano le violazioni dei diritti umani e dei diritti delle persone Lgbt, e il finanziamento al terrorismo, mentre dall’altro i politici europei cercano di ottenere profitti (talvolta personali) dai finanziamenti provenienti da Doha, così come da altri Paesi del Golfo. Poi se le cose vanno male in politica gli uomini di Doha hanno sempre un sacco di poltrone ben remunerate da offrire ai vecchi e nuovi amici, compresi alcuni organi di stampa, pronti a parlar bene dell’emirato del gas. D’altronde, come scrive in un celebre aforisma lo scrittore tedesco Gabriel Laub, «gli uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l’occasione».
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Riduci
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Riduci
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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