2020-02-16
C’è il primo morto di coronavirus in Europa
Spirato in Francia anziano turista di Wuhan, mentre il regime minaccia l'esecuzione per chiunque non riveli i sintomi della malattia. Roberto Speranza vede le case farmaceutiche.Le manie di protagonismo antirazziste dell'intellighenzia italiana hanno imposto un diktat: guai a puntare il dito sugli asiatici Ovviamente non sono untori, però a Pechino c'è una dittatura che ha nascosto la malattia al mondo e punisce duramente il dissenso.Lo speciale contiene due articoli Aumenta e si avvicina sempre più all'Italia il numero di vittime da coronavirus, l'epidemia globale che ieri ha colpito in maniera letale in Francia. È la prima volta che l'infezione fa registrare un morto fuori dal continente asiatico. Occorre fin da subito precisare che si tratta di un paziente di nazionalità cinese che proveniva dalla provincia dell'Hubei, epicentro di Covid-19. L'uomo di 80 anni, giunto in Francia per turismo, era stato ricoverato lo scorso 25 gennaio. Origine ed età della vittima sono circostanze che probabilmente hanno giocato una parte rilevante nel decesso. Infatti la notizia non ha colto completamente alla sprovvista il ministro della Salute francese, Agnes Buzyn la quale ha parlato di un «rapido peggioramento delle condizioni negli ultimi giorni». Adesso però «dobbiamo fare in modo che il nostro sistema sanitario sia pronto a una diffusione pandemica del virus anche in Francia». Affermazione da cui sorge spontanea una domanda: a prescindere dal caso francese, come? Nel rispondere non si può non partire da come l'emergenza è stata e continua a essere gestita dal regime comunista cinese. Infatti, è emerso secondo l'autorevole South China Morning Post che il 3 febbraio il leader Xi Jinping avrebbe radunato i vertici del partito comunista cinese per impartire loro le direttive su come divulgare in pubblico notizie sul coronavirus. Una difesa preventiva ai dubbi che la comunità internazionale solleva quotidianamente. Perplessità che per esempio riguardano la reale origine del virus e l'effettivo numero di persone contagiate nel territorio cinese. Perché dalle statistiche emerge un continuo aumento dei casi totali di positività. Il bilancio aggiornato dell'epidemia è di 67.178 contagi globali, di cui 66.497 in Cina, con il numero di vittime pari a 1.527. Segue Singapore con 72 persone infette, Hong Kong 56 e un morto, Thailandia 33, Corea del Sud 28, Malesia 22, Taiwan 18, Germania e Vietnam 16, Australia e Stati Uniti 15, Francia 11, Macao 10, Regno Unito 9, Emirati Arabi e Canada 8, Filippine e India 3, Russia e Spagna 2, Belgio, Cambogia, Finlandia, Nepal, Sri Lanka, Svezia ed Egitto uno. Già, l'Egitto, primo Paese africano colpito dal coronavirus. Anche in questo caso si tratta di un cittadino di nazionalità cinese. Pur essendo stato ricoverato e messo in isolamento, la preoccupazione per un quadro che era già fosco si intensifica. E non potrebbe essere altrimenti, perché è innegabile che se la malattia dovesse espandersi in Africa le conseguenze potrebbero essere devastanti. Il continente più povero, arretrato e con le condizioni igienico sanitarie palesemente meno sviluppate alle prese con il coronavirus: un dramma dalle proporzioni immani. Possibilità che non è così remota considerato anche il fatto che il primo contagiato si trova in Egitto. Che, con tutto il rispetto, almeno all'apparenza, non è una nazione così preparata come potrebbe essere invece il Sud Africa. Senza dimenticare che dalle coste del Nord Africa assistiamo da decenni a una continua invasione che culmina nelle nostre coste. Ecco il pericolo maggiore, che al solo pensiero mette i brividi. Decine di migliaia di persone, potenzialmente contagiate che sbarcano in Italia. Dunque la palla passa alla politica, detta in altri termini al governo che dovrà assumere delle decisioni (serie) per far fronte all'emergenza. Tra i motivi di preoccupazione anche l'impossibilità, al momento lontana, per le industrie farmaceutiche italiane di reperire le materie prime sul mercato cinese per creare i farmaci contro il coronavirus. Sarà questo il tema dell'incontro di domani tra il ministro della Salute Roberto Speranza e le associazioni di categoria, Assogenerici e Farmindustria. Sul tavolo i possibili scenari degli effetti del coronavirus sul settore, collegati a uno stop delle importazioni dalla Cina e quindi a possibili ripercussioni sulla disponibilità dei farmaci per i cittadini. Per ora nessun vero allarme, le scorte a disposizione coprono fino a sei mesi. Ma nel settore la guardia è alta. Come testimonia la precedente riunione dell'Agenzia italiana del farmaco dello scorso 11 febbraio, dove è stato fatto il punto sulla possibile carenza di principi attivi dalla Cina, dato che i siti del Paese asiatico sono ancora chiusi. Qualche nota positiva giunge, invece, dall'Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani. Nel sedicesimo bollettino diramato dalla direzione sanitaria si legge: «I due cittadini cinesi provenienti dalla città di Wuhan, casi confermati di infezione da nuovo coronavirus, continuano a essere ricoverati nella terapia intensiva». E ancora: «Le loro condizioni cliniche sono stabili con parametri emodinamici migliorati. La prognosi resta riservata». Situazione diversa per il ricercatore di 29 anni, originario di Luzzara, ricoverato dallo scorso 7 febbraio. «Le condizioni di salute del cittadino italiano di ritorno dalla città di Wuhan e proveniente dalla Cecchignola sono ottime. Resta in osservazione». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/primo-morto-in-europa-2645161739.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="quanta-ipocrisia-sui-cinesi-tutti-bravi-e-buoni" data-post-id="2645161739" data-published-at="1758062106" data-use-pagination="False"> Quanta ipocrisia sui cinesi tutti bravi e buoni Quanta commozione, quanta bontà, quanta empatia. Da settimane la sinistra italiana versa fiumi di lacrime per la sorte dei poveri cinesi funestati dell'epidemia di coronavirus. L'ultimo numero di Left ha in copertina una ragazza dai tratti asiatici che regge il cartello «Io non sono un virus». La rivista accusa gli italiani di aver alimentato il «virus della sinofobia» e incita i suoi lettori a vincere la propaganda xenofoba stringendosi attorno ai nuovi oppressi. Opinioni simili le abbiamo lette su tutti i giornali progressisti. Abbiamo ascoltato l'orripilante e servile videomessaggio di Romano Prodi ai cinesi che sono uniti con noi «nel corpo e nell'anima». Abbiamo visto il presidente Sergio Mattarella scambiarsi affettuosità con Xi Jinping, tanto che da Pechino si sono detti «commossi per l'amicizia dell'Italia». In quasi tutti i talk show vediamo conduttori che azzannano involtini primavera. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, si è precipitato nella Chinatown meneghina e si è disperato nel trovarla mezza vuota. Celebri opinionisti organizzano serate di solidarietà ai ristoratori e commercianti cinesi. Insomma, i buoni sentimenti vengono serviti più velocemente di un pollo alle mandorle intriso di glutammato. Tutto bellissimo, tutto splendido, tutto ammirevole. Si mangi pure cinese (magari quello vero, nei ristoranti seri, e non quello in versione globalizzata da congelatore). Però di fronte a tanta solerzia nell'abbracciare i figli del Dragone qualche dubbio sorge. Ci viene in mente che non si sono viste, negli anni passati, analoghe manifestazioni di amore e attenzione nei confronti di tutti coloro che la Cina perseguita. In questo gran ciarlare di razzismo e xenofobia, passano in secondo piano tutte le poco simpatiche manifestazioni del potere cinese in Italia. Sicuramente nel nostro Paese vivono tanti esercenti cinesi onesti e gentili, è indubbio. Costoro suscitano senz'altro rispetto e affetto. Ma sarebbe giusto che la stessa vicinanza fosse riservata ogni tanto a imprenditori, baristi, ristoratori italiani che dalla concorrenza cinese sono stati danneggiati o distrutti. Ricordiamoci, qualche volta, pure degli industriali che fronteggiano da soli, nella quasi totale assenza dell'Europa, il dumping cinese. Abbracciamo i cinesi, come no. Andiamo alla serata del cibo orientale a Milano. Poi, rientrando a casa, diamo uno sguardo ai centri massaggi, alle sale slot, ai negozietti che ormai dominano interi quartieri, spesso sulla soglia dell'illegalità. Stringiamo la mano agli amici d'Oriente, poi chiediamo quanto guadagna e che diploma ha la parrucchiera che ci taglia i capelli a 7 euro. Chiediamo all'amico di Prato quanto incassano e dove dormono i suoi operai del tessile o della pelletteria. Va bene, scordiamoci di vincere pregiudizi e xenofobia - che per altro non abbiamo mai avuto - e mostriamoci vicini a chi soffre per colpa di un virus malevolo. Subito dopo, però, ricordiamoci degli oltre 200.000 cristiani perseguitati dal regime comunista di Pechino. Quello che impone la Chiesa di Stato e ha creato i laogai per non sfigurare di fronte all'Urss e ai suoi gulag. In questi giorni vari giornali progressisti hanno recensito con toni entusiasti il libro di Joshua Wong pubblicato da Feltrinelli. Josh è il giovanissimo leader (cristiano) delle proteste di Hong Kong. Lo hanno messo in prigione perché si opponeva al lavaggio del cervello comunista nella sua scuola. Finché si tratta di paragonarlo alle sardine e di usarlo per incitare la gente a scendere in piazza contro Salvini, i progressisti lo portano in palmo di mano. Ma sono molto più cauti quando attacca frontalmente, dichiarando il suo anticomunismo, la dittatura pechinese. E che si tratti di dittatura, non ci sono dubbi. Basta leggere le parole che ha pronunciato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, intervenendo ieri alla conferenza sulla sicurezza di Monaco. Gli Stati Uniti, nei giorni scorsi, hanno accusato il governo cinese di non aver dato prova di grande trasparenza riguardo ai dati dell'epidemia (affermazione non semplice da smentire). Ed ecco che il ministro cinese ha ricordato a tutti di che pasta è fatta la Repubblica popolare: «Non voglio sprecare tutto il tempo a replicare a quello che è stato detto dai ministri americani», ha detto. «Negli Usa non si accetta il successo di un paese socialista, ma questo è ingiusto. I cinesi hanno il diritto di avere una vita migliore. Non ci lasceremo fermare». Appunto: un paese socialista. Forse i sublimi filosofi (come Donatella Di Cesare sulla Lettura) che oggi ci invitano a combattere la deriva «immunitaria» della nostra democrazia che produrrebbe muri e intolleranza, dovrebbero ricordarsi dove stiano le vere limitazioni alle libertà individuali. E allora forza, per contrastare il virus e i luoghi comuni andiamo tutti a scoprire la favolosa cultura asiatica. Ma non solo quella degli ottimi spaghetti saltati o dei dei gustosi ravioli che i foodie milanesi ingurgitano con soddisfazione. Leggiamo anche Ma Jian e il suo libro Tira fuori la lingua appena ripubblicato in Italia: racconta lo stato di degradazione del Tibet sotto il tallone cinese. E il regime, quando uscì nel 1987, corse a censurarlo. Nel nostro Paese ci sono almeno 300.000 cinesi. Tanti sono onesti. Tanti hanno figli che ora sono italiani. Sicuramente nessuno di loro è un untore. Ma poiché sono in tanti in questi giorni - a partire da padre Antonio Spadaro - a sostenere che il vero virus è il sovranismo, allora parliamo pure della malattia politica, ben più dannosa e liberticida, chiamata comunismo. Parliamo di un male chiamato globalizzazione, che la Cina ha sfruttato tentando di schiacciarci senza pietà. Proprio come ha conquistato e sottomesso l'Africa (dove il coronavirus nel frattempo è sbarcato) senza troppo riguardo per le condizioni dei popoli e dei lavoratori. Cari amici cinesi. Vi abbracciamo. E speriamo che, una volta passata questa orrenda epidemia, anche voi possiate ricambiare l'affetto ricevuto in questi giorni. Magari smettendo di perseguitare le minoranze sgradite, magari offrendo ai vostri lavoratori qualche diritto in più, magari mostrandovi meno pronti a ridurre in cenere chi oggi, perché ne avete bisogno, chiamate amico.