
Le ragazze della staffetta, che sportivamente non interessa a nessuno, diventano eroine di Matteo Renzi e Roberto Saviano con l'intento di attaccare le politiche del governo. Ma non è razzista usare qualcuno per il colore della pelle?Con 56 medaglie d'oro, 55 d'argento e 45 di bronzo, quindi con 156 medaglie complessive, l'Italia si è aggiudicata un sontuoso primo posto nella diciottesima edizione dei Giochi del Mediterraneo, staccando - nell'ordine - Spagna, Turchia, Francia ed Egitto. Un risultato notevole per lo sport italiano, con trionfi praticamente in tutte le discipline: dal nuoto all'atletica, dal ciclismo alla pallavolo.Ma di tutto questo, ai grandi media, alla politica, agli «esperti» da poltrona e da ombrellone, non è importato nulla. Fino a ieri, solo trafiletti, due colonnine in cronaca, «brevi» perfino nella stampa sportiva. Meno che mai la cosa interessava granché agli alfieri del politicamente corretto, maggiormente a proprio agio tra brunch e apericene che non negli sport olimpici. Improvvisamente, però, domenica sera, un lampo di interesse, anzi fuochi d'artificio. Come mai? Perché il cinquantaseiesimo oro italiano è stato conquistato dalla staffetta 4x400 femminile, composta da quattro splendide ragazze di pelle scura (rispettivamente di origini nigeriana, sudanese e cubana): Maria Benedicta Chigbolu, Ayomide Folorunso, Rapaela Lukudo, Libania Grenot. Loro, serene e sorridenti, hanno festeggiato la vittoria con una bella foto in pista esibendo il tricolore, come fanno tutti gli atleti.Sono bastati pochi minuti perché ne venisse fuori un caso di strumentalizzazione e di uso politico dello sport da manuale, da tesi di laurea. Tra i primi a mobilitarsi l'account Twitter della rivista Rolling Stone Italia, poi è sceso in campo l'immancabile Roberto Saviano («I loro sorrisi sono la risposta all'Italia razzista di Pontida. L'Italia multiculturale non verrà fermata»), a seguire il gruppo sgranato (come avrebbero detto i vecchi cronisti di ciclismo) di deputati-senatori-dichiaratori-opinionisti. Tra gli ultimi, malinconicamente e banalmente, Matteo Renzi («vince l'Italia che non ha paura»), preceduto in volata dal suo compagno di partito Enrico Rossi, presidente della Toscana («C'è un'Italia nuova che Salvini e la Lega non vogliono vedere e a cui vorrebbero negare di esistere e di avere diritti»).Va bene, lo sappiamo: è inizio luglio, l'estate avanza, fa caldo, gli argomenti scarseggiano, e tutto fa brodo per cercare di mettere in piedi una polemica. Ma stavolta questi signori hanno veramente passato il limite, almeno per quattro ragioni.Primo. Se c'è oggi un caso di patente e insopportabile razzismo, è proprio quello di chi usa a fini politici il colore della pelle di una persona, di chiunque si tratti, e per qualunque ragione. Peggio ancora: dimenticando totalmente la persona, ignorandone totalmente le idee (chissà come la pensano le quattro ragazze), e limitandosi a farne un simbolo, un oggetto, un feticcio, una pietra da scagliare a casaccio contro gli avversari del momento.Secondo. Ma che anno è? Di che cosa stiamo parlando? Da decenni, in tutto il mondo occidentale, in ogni nazione, qualunque sia la normativa vigente sull'immigrazione (rigida o permissiva, porte aperte o porte chiuse), in tutti gli sport, le squadre nazionali sono composte da atleti di origini e storie spesso differenti. A mia memoria, da molti anni, non si ricorda un solo esponente politico di un qualunque Paese occidentale che ne abbia fatto motivo di polemica contro i suoi avversari di schieramento.Terzo. Il messaggio subliminale, lo slittamento logico, è questo: se per caso sei favorevole a un'immigrazione controllata e regolata, allora sei razzista. Ma che argomento è? Vogliamo dunque affermare che tutti i cittadini che sostengono una certa linea sull'immigrazione sono – necessariamente e indefettibilmente – razzisti, magari a loro insaputa? Non si può essere per caso liberali, fautori dei diritti umani e civili, rispettosi di tutti, e contemporaneamente ritenere che i processi di immigrazione debbano essere limitati, regolamentati e controllati? Questa ipotesi è esclusa a priori da Saviano & co, da salotti e terrazze, dai twittatori progressisti compulsivi?Quarto. Quando si recupererà un po' di freddezza (comunque la si pensi: pro o contro il governo), si scoprirà una verità elementare. Che la buona integrazione, l'inserimento positivo in una comunità nazionale, il successo professionale, scolastico e sportivo di chi arriva (e soprattutto dei suoi figli, delle generazioni successive) sono inevitabilmente legati al fatto che i numeri dell'immigrazione siano limitati, gestibili, compatibili con il mercato del lavoro e le effettive possibilità di accoglienza di un Paese. Se si fa così, possono venir fuori non una, ma migliaia di storie di successo: come tutte le persone di buon senso sperano. Se invece si fa diversamente e ci si fa travolgere da un'onda ingestibile, il rischio della clandestinità, dell'illegalità, della sofferenza sono enormi: ma non ditelo ai twittatori della domenica, i quali si saranno già dimenticati i nomi delle atlete che hanno cercato di usare in un afoso pomeriggio estivo.Con queste premesse, nessuno stupore che Matteo Salvini abbia segnato un gol a porta vuota, complimentandosi a sua volta con le quattro ragazze, e dicendo che gli piacerebbe «incontrarle e abbracciarle, come hanno capito tutti», ha aggiunto, «tranne qualche “benpensante" e rosicone di sinistra».
Una scena dal film «Giovani madri»
Il film dei fratelli Dardenne segue i passi di cinque ragazze-mamme, tra sguardi e silenzi.
L’effetto speciale è la forza della realtà e della vita. Niente fronzoli, niente algoritmi, niente ideologie. Giovani madri è un film che sembra un documentario e racconta la vicenda - già dire «storia», saprebbe di artificio - di cinque ragazze madri minorenni. Non ci sono discorsi o insistenze pedagogiche. Solo gesti, sguardi e silenzi. E dialoghi secchi come fucilate. Non c’è nemmeno la colonna sonora, come d’abitudine nel cinema dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, autori anche della sceneggiatura, premiata all’ultimo Festival di Cannes.
«All Her Fault» (Sky Exclusive)
L’adattamento dal romanzo di Andrea Mara segue la scomparsa del piccolo Milo e il crollo delle certezze di Melissa Irvine, interpretata da Sarah Snook. Un thriller in otto episodi che svela segreti e fragilità di due famiglie e della loro comunità.
All her fault non è una serie originale, ma l'adattamento di un romanzo che Andrea Mara, scrittrice irlandese, ha pubblicato nel 2021, provando ad esorcizzare attraverso la carta l'incubo peggiore di ogni genitore. Il libro, come la serie che ne è stata tratta, una serie che su Sky farà il proprio debutto nella prima serata di domenica 23 novembre, è la cronaca di una scomparsa: quella di un bambino, che pare essersi volatilizzato nel nulla, sotto il naso di genitori troppo compresi nel proprio ruolo professionale per accorgersi dell'orrore che andava consumandosi.
Christine Lagarde (Ansa)
Madame Bce la fa fuori dal vaso partecipando alla battaglia politica contro l’unanimità. Che secondo lei frena i progressi dell’Unione. L’obiettivo? «Armonizzare le aliquote Iva». In altre parole, più tasse e meno sovranità nazionale degli Stati.
«L’Unione europea non funziona. Il suo modello di sviluppo è la causa della crisi. Io l’ho detto appena arrivata alla Banca centrale europea. Tanto che mi autocito. Il Consiglio europeo non dovrà più decidere all’unanimità. Ma a maggioranza qualificata. Insomma, ci vuole più Europa». Racchiudo fra virgolette con stile volutamente brutale la sintesi del discorso di Christine Lagarde all’European banking congress di Francoforte. Non ho esagerato, credetemi. Facciamo una doverosa premessa.
Carlo Nordio (Ansa)
Il guardasigilli «abbraccia» le teorie progressiste sul patriarcato: «Il codice genetico dell’uomo non accetta la parità». A Pd, 5s e Avs le frasi del ministro non vanno comunque bene e lo impallinano. Eugenia Roccella rincara: «Educare al sesso non fa calare i femminicidi».
Non si sa se siano più surreali le dichiarazioni di Carlo Nordio o le reazioni scomposte del centrosinistra: fatto sta che l’ennesima strumentalizzazione culturale e sociale sugli omicidi contro le donne sembra davvero aver oltrepassato il segno. Il «la» lo ha dato ieri il ministro della Giustizia alla conferenza internazionale di alto livello contro il femminicidio intestandosi, verosimilmente (e auspicabilmente) con ingenuità, la battaglia post femminista sul patriarcato e la mascolinità tossica: «C’è una sedimentazione nella mentalità dell’uomo, del maschio, che è difficile da rimuovere perché si è formata in millenni di sopraffazione, di superiorità. Anche se oggi l’uomo accetta e deve accettare questa assoluta parità formale e sostanziale nei confronti della donna, nel suo subconscio il suo codice genetico trova sempre una certa resistenza».






