2024-10-31
Polverone inutile sui Paesi «sicuri». La legge già tutela chi chiede asilo
Lo straniero (di qualsiasi nazione) che fa parte di gruppi perseguitati non è rimpatriato.Presidente di sezione emerito della Corte di cassazioneAvviene talvolta che quanto più un argomento portato a sostegno di una determinata tesi si presenti, a prima vista, come suggestivo, tanto più, se sottoposto ad un minimo di analisi critica, si riveli ingannevole e fuorviante. Ed è appunto questo il caso dell’argomento al quale, secondo quanto reso noto dai mezzi d’informazione, ha fatto ricorso il tribunale di Bologna per sostenere, sotto forma di quesito posto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, la tesi secondo cui il Paese di provenienza di un richiedente asilo o protezione internazionale non potrebbe essere considerato «sicuro» quando la sicurezza non si estenda alla totalità della sua popolazione. Tesi, questa, che, se fondata, imporrebbe, a giudizio del suddetto tribunale, la disapplicazione, per contrasto con la direttiva europea n. 32 del 2013, del recente decreto legge n. 158/2024 nel quale è contenuta la lista dei Paesi da considerarsi obbligatoriamente come «sicuri», nonostante che, per taluni di essi, dalla sicurezza siano escluse determinate categorie di soggetti quali, nel caso dell’Egitto, gli oppositori politici e, in quello del Bangladesh, i cosiddetti Lgbt. incolumità «parziale»L’argomento in questione è quello che, se si ammettesse la riconoscibilità di una sicurezza solo parziale, sarebbe stata, allora, a suo tempo, da considerare «sicura» anche la Germania nazista, dal momento che in essa erano perseguitati soltanto gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom e altri gruppi minoritari. A dimostrare, però, la fallacia di tale argomento basterebbe la considerazione che, sulla base della stessa logica, sarebbe allora da accogliere la richiesta di asilo politico o protezione internazionale avanzata da chi provenisse, ad esempio, dall’Arabia saudita per il solo fatto che in tale Paese non potrebbero certamente dirsi al sicuro quanti si azzardassero - pur nell’esercizio di quello che è generalmente considerato uno dei diritti umani fondamentali - a manifestare pubblicamente la loro adesione al cristianesimo o ad altra religione diversa da quella islamica. E ciò indipendentemente dalla circostanza che il richiedente sia o meno di religione islamica ed abbia, quindi, ragione o meno di temere, personalmente, per la propria sicurezza. In realtà, tutto il problema artificiosamente sollevato a proposito della possibilità o meno di riconoscere un determinato Stato come soltanto parzialmente «sicuro», in presenza di situazioni di insicurezza limitate soltanto a gruppi minoritari, avrebbe già la sua soluzione, tanto semplice quanto (a quel che sembra), stranamente ignorata anche dagli «addetti a lavori». In base, infatti, al vigente art. 2 bis, comma 5, del d.l.vo n. 25 del 2008 (puntualmente attuativo di quanto previsto nella citata direttiva europea n. 32/2013), anche il richiedente asilo o protezione internazionale che provenga da un Paese qualificato come «sicuro» ha la possibilità di far valere «gravi motivi» per i quali quel medesimo Paese sia da considerare «non sicuro» con riguardo alla sua «situazione particolare». Ed è di tutta evidenza che di tale norma ben potrebbe avvalersi, senza limitazione alcuna, chi sostenesse di appartenere appunto ad una delle categorie di soggetti che, nel Paese in questione, non godano di sicurezza. Il che ben si concilia con la previsione, sempre nella direttiva europea n. 32/2013, all’art. 38, che l’esame circa la sicurezza di un Paese dev’essere effettuato «caso per caso» con riferimento alla «sicurezza del Paese per un determinato richiedente», in aggiunta o anche solo in alternativa (come risulta dall’uso dell’espressione «e/o»), alla «designazione nazionale dei Paesi che possono essere considerati generalmente sicuri». letture ideologicheBen si spiega, quindi, per quale ragione il legislatore europeo non abbia previsto, come condizione per la qualificabilità di un Paese come «sicuro», che dalla sicurezza non fosse esclusa alcuna categoria di persone. E pure si spiega il fatto che di una tale condizione non si faccia alcun cenno neanche nella decisione con la quale la Corte di giustizia dell’Unione europea dello scorso 4 ottobre ha fornito l’interpretazione da ritenersi, a suo giudizio, corretta, di alcuni articoli della direttiva europea. Ciò contrariamente a quanto, invece, affermato dal tribunale di Roma che, proprio sulla base di tale erronea affermazione, ha adottato i provvedimenti a seguito dei quali è stato emanato il decreto legge n. 158/2024. Ma le soluzioni basate – come quella sopra indicata – sulla semplice e lineare lettura delle norme vigenti sono per ciò stesso destinate a non incontrare il favore di quanti si ritengono investiti del potere-dovere non di applicare quelle norme ma di stravolgerne o ignorarne il significato sì da trasformarle in strumento per l’affermazione dei loro inossidabili e del tutto personali convincimenti di natura ideologico-politica.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)