
Assenti molti leader e la finanza che conta al vertice di Baku iniziato ieri. Con il neopresidente Usa che lascerà gli accordi sul clima e i fondi verdi che languono, a restare col cerino in mano è l’Ue, pronta a consegnarsi mani e piedi a Pechino e alle sue filiere green.Si è aperta ieri a Baku, capitale dell’Azerbaigian, la Cop29, ovvero la conferenza annuale sul cambiamento climatico, ed è subito panico. Il Wall Street Journal, infatti, spacciando come scoop una informazione che si conosceva da mesi, ha scritto nel fine settimana che Donald Trump intende far uscire gli Stati Uniti dagli accordi sul clima non appena si insedierà alla Casa Bianca. Nel diluvio dei «si dice» sulle intenzioni di Trump una volta assunta la carica di presidente, questo è uno di quelli che con più probabilità diventerà realtà. Per la disperazione dei delegati alla depressa Cop di quest’anno, che inizia sotto la cappa del disimpegno americano, oltre che con le nuove previsioni catastrofiche della World meteorological organization, diffuse giusto ieri.L’ordine esecutivo per il ritiro degli Usa dagli impegni presi a Parigi da Barack Obama nel 2016 è pronto e sarà firmato lo stesso giorno in cui il nuovo presidente presterà giuramento. Non è una novità: Trump nel 2019 aveva già abbandonato il Trattato con effetto dal 2020. Ma Joe Biden, appena insediatosi alla Casa Bianca nel 2021, aveva annullato l’atto del suo predecessore riportando gli Usa nel quadro degli accordi di Parigi.Ora ci risiamo. È un impegno ampiamente annunciato, ma meno nota è l’intenzione del presidente eletto di uscire anche dalla Convenzione dell’Onu sui cambiamenti climatici del 1992, il che significherebbe il ritiro completo del governo americano da tutti i tavoli di discussione che hanno a che fare con il clima. E naturalmente in Europa e tra gli ambientalisti sono iniziati gli isterismi e le accuse. L’uscita degli Stati Uniti dagli accordi per contenere le emissioni di CO2 generate dalle attività umane significa soprattutto che l’America non contribuirà ai fondi necessari per finanziare gli investimenti nel Sud del mondo, dove è più necessario investire secondo i piani dell’International energy agency. Molti leader mondiali non saranno presenti a Baku, mentre dovrebbero esserci Giorgia Meloni e il britannico Keir Starmer. Ursula von der Leyen, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e il presidente brasiliano Lula resteranno a casa, per motivi più o meno plausibili. Gran parte della finanza mondiale che conta non ci sarà, il che è strano considerato che il tema delle due settimane (sic) di conferenza sarà proprio la finanza green. L’acronimo che domina il summit di quest’anno è infatti Ncqg, ovvero New collective quantified goal. La finanza è un altro dei punti deboli della transizione indotta. Il fondo verde per il clima che doveva raggranellare 100 miliardi all’anno, senza mai riuscirvi, dovrebbe essere inglobato in questo nuovo strumento, che dovrebbe anche assorbire l’Adaptation fund. Il fondo istituito nella Cop28 di Dubai, quello per ripagare le perdite e i danni subiti dai Paesi in via di sviluppo a causa dei disastri naturali, dovrebbe restare fuori da questa partita: il fondo doveva prevedere una dotazione di alcune centinaia di miliardi, ma sinora ha raccolto sì e no 700 milioni di dollari, un’inezia.La decisione di Trump, non ancora ufficialmente presa, viene già contestata dall’attuale inviato per il clima di Washington, John Podesta, intervenuto ieri in apertura dei colloqui della Cop29. Nominato dall’amministrazione democratica, Podesta ha detto che l’azione negli Usa proseguirà ad opera dei cittadini, degli Stati, delle città: «La lotta è più grande di una sola elezione, di un ciclo politico in un solo Paese». La democrazia ridotta ad una sorta di intralcio temporaneo, insomma.La mossa (annunciata) di Trump ha diversi risvolti. Così come intende fare con gli armamenti Nato, il disimpegno finanziario della prossima amministrazione significa una contemporanea responsabilizzazione del resto del mondo. Gli Usa pesano per circa il 12% delle emissioni mondiali, l’Ue per il 6,9%, Cina e India assieme pesano per il 40%, i Paesi in via di sviluppo per il 35%. Dunque ha molto più senso che siano Cina e India a restare negli accordi e ad investire, piuttosto che gli Usa. Se il 75% delle emissioni arriva da Asia e Paesi in sviluppo, è lì che bisogna agire, ma gli investimenti latitano perché senza sussidi e garanzie nessuno vuole rischiare in quelle aree. Trump esce dagli accordi di Parigi perché non vuole che i vincoli sulla decarbonizzazione danneggino l’economia americana e la potenza strategica degli Usa. Quindi sì a petrolio e gas, con prezzi che dunque potrebbero scendere, per affermare il primato Usa nell’energia. Questo non vuol dire però che sul green Trump non farà nulla, né che annullerà in toto quanto previsto nell’Inflation reduction act (Ira), che sovvenziona le aziende green negli Stati Uniti. Alcuni sussidi dell’Ira che interessano le compagnie petrolifere potrebbero restare, e occorre considerare anche la vicinanza del presidente eletto con Elon Musk, proprietario di una casa automobilistica che fa solo veicoli elettrici, la Tesla.A questo punto, il cerino resta in mano all’Unione europea. L’Ue, che pesa per il 6,9% delle emissioni mondiali, proseguirà nella scientifica opera di demolizione della propria industria, consegnandosi mani e piedi alla Cina e alle sue filiere green, auto elettrica compresa? Ad ascoltare i nuovi commissari a Bruxelles, Wopke Hoekstra e Teresa Ribera, sembrerebbe di sì.
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