
Nelle 12 puntate «alla ricerca dei cibi genuini» Mario Soldati raccontò la culla di una civiltà italiana cresciuta seguendo il fiume. Da Torino a Venezia l’incontro con la gente e una cultura materiale fatta di vivande e di vino. Con gustosi piatti indimenticabili.Mario Soldati pur essendo stato cittadino del mondo non ha mai dimenticato le sue radici torinesi e quindi piemontesi tanto che, all’interno delle dodici puntate del Viaggio nella valle del Po, alla ricerca dei cibi genuini, ben cinque di queste sono dedicate alla regione natia. Innumerevoli storie e aneddoti e relativi testimoni, alcuni poco conosciuti oltre le terre sabaude come ad esempio i rubatà. L’incipit non ammette repliche. «Il grissino fatto a Torino è il migliore del mondo». Chissà se fu per questo che la ribattezzò con ironia grissinopoli Emilio Salgari. Lui veronese giunto all’ombra della mole antonelliana chiamato dal suo editore, oppure per ammirato rispetto nello scoprire quella che era l’introduzione all’antologia golosa che si trovava in tavola ogni giorno. Rubatà frutto della paziente lavorazione che li porta ad essere dalle dimensioni arrotolate sin oltre il mezzo metro grazie «ad un tocco leggero, semplice con la pasta allungata e posata sulla teglia un attimo prima che si rompa». Nati non per caso nel 1679 da una intuizione del medico di corte sabauda, Tobaldo Pecchio, con tanto di targa appesa a futura memoria in quel di Lanzo Torinese. Il giovane erede al trono, il futuro re Vittorio Amedeo II, era intollerante alla mollica e quindi la sua crescita lo vedeva molto cagionevole di salute. Il fornaio Antonio Brunero applicò le direttive di Pecchio tirando la pasta così sottile da eliminare la mollica. Un prodotto gradevole al gusto, con maggiore digeribilità e conservabilità. Un tale successo che, un secolo dopo, Napoleone se li faceva arrivare apposta a Versailles e, senza preoccuparsi troppo dell’etichetta, re Carlo Felice li sgranocchiava dal palco riservato al Teatro Regio tra un gorgheggio e l’altro de La Traviata o La Bohème. Altra pietra miliare la bagna cauda, un piatto che riunisce nella convivialità condivisa il pucciare dentro lo sciufin, una terrina di coccio tenuta calda dalla fiamma sottostante, varie verdure in una salsa assassina composta da acciughe salate intere, aglio tagliato finissimo e olio d’oliva. L’orto è ben rappresentato dal meglio di stagione: peperoni, cipolle, rape, patate, ma la marcia in più deriva dal cardo gobbo. Una coltivazione lunga e difficile, con un rituale preciso. Quando la piantina comincia a emergere per crescere al sole autunnale viene ripiegata sottoterra. È una sorta di continuo braccio di ferro tra le mani del coltivatore e la creatura vegetale che così, crescendo nell’ombra, perde completamente la clorofilla e diventa di eterea bellezza, dolce e croccante una volta ripulita delle foglie esterne con la purinetta, una roncola lunga e sottile. Capitale storica Nizza Monferrato dove, un tempo, la bagna cauda era l’occasione in cui i proprietari delle vigne festeggiavano con le maestranze l’arrivo del vino nuovo. Una tradizione rurale divenuta eccellenza riconosciuta, anche se all’inizio un po’ snobbata nei salotti buoni, per il veleggiare di tsunaminità agliose che non sarebbero bastate a diluirle magnum di Chanel sparse nell’aria. Le placide acque del fiume portano il nostro Goethe armato di telecamera in terra lombarda. L’Antica Trattoria Ferrari, a Pavia, era baricentro di palati golosi, da Gianni Brera a Gino Veronelli. Tra le calamite al piatto immancabili le rane. Nell’economia rurale queste piccole creature gracidanti erano fonte preziosa di calcio in una realtà a dimensione polentocentrica, con intere comunità devastate dalla pellagra. Non fu un caso quindi che, già dal XVI secolo, un visionario Camillo Borromeo, governatore di Pavia, costruì nelle campagne un vivaio recintato dove le rane «venivano allevate come fossero pulcini». Un giorno Soldati volle avviare sulla via della conoscenza ranocchia il figlio Wolfango che rimase stupito dal servizio di ripulitura e spellatura che l’oste venne chiamato a fare in diretta. La riflessione conseguente di un Soldati sentinella dei valori del passato verso l’arrembante modernità. «Non possiamo dimenticare la consapevolezza che il cibo, spesso, è stato qualcosa di vivo. Mangiando cibi in scatola ci allontaniamo da questa verità. Ci immergiamo nell’ipocrisia solo perché non si è assunto, in prima persona, il gesto dell’uccisione». «Ecco perché», conclude il nostro, «il cibo deve essere consapevolezza, sia che provenga dal mondo animale come da quello vegetale, e quindi dall’ambiente che lo circonda». Ecologista ante litteram? No, realista e di buon senso, senza retorica ammantata da pagliuzze di circostanza. Amare il buon cibo e la convivialità dove il fattore umano si amalgama al meglio non esula dal contesto che lo circonda. Soldati rifuggiva dalle tavole con le ghette aristocratiche, amava la semplicità delle locande, delle trattorie veraci. Magari con un campetto di bocce dove smaltire qualche trippa di troppo. Un esempio a Sondrio, quartiere Scarpatetti, una leggenda fatta di storie e architetture senza tempo. Dopo aver passato un archetto con il piccolo tempietto della Madonna dell’uva (protettrice delle culture di montagna, dallo sfursat al sassella e altri degni compari di botte) Soldati arriva davanti all’insegna di Adua, dall’accogliente pergola con porticato e il campo di bocce a lato. «Adoro il gioco delle bocce, come lo scopone, ma di entrambi odio i tornei. Nelle trattorie ci si siede su di una panca, si guardano gli altri bevendo un buon bicchiere e, se ne hai voglia, puoi metterti a giocare senza che nessuno ti chieda come ti chiami. È in quei brevi momenti che possono nascere amicizie o inimicizie con persone che prima mai avresti conosciuto. È anche questo il bello delle trattorie». Con il telefono fisso appeso al muro. No cellulari, no social a fare concorrenza. Il Po conduce le telecamere soldatiane in terra veronese. Non manca il tributo all’eccellenza del Valpolicella locale, oramai sovraesposto alle richieste di un mercato globale, per cui è difficile mantenerne l’integrità nativa. Tra i responsabili di questa destabilizzazione tra vigna e bulimia commerciale anche chi, come Ernest Hemingway, aveva trovato il Veneto patria adottiva. «Nel suo Di là dal fiume e tra gli alberi ogni due pagine viene scolata una bottiglia di Valpolicella». Verona patria della pearà, traduzione scaligera di salsa «pepata». Una sinergia golosa tra pane raffermo grattugiato, midollo di bue, brodo di carne e pepe generoso. Svariate le teorie sulle sue origini, in un curioso incrocio tra storia, socioantropologia e mitologia a seguire. Per alcuni risale al VI secolo d.C. quando, al termine delle guerre gotiche Verona è dominata dal re dei Longobardi, Alboino. In un banchetto per festeggiare l’ennesima vittoria, invita l’algida consorte Rosmunda a brindare porgendole un calice di vino formato dal cranio del padre di lei, Cunimondo, sconfitto in battaglia. L’effetto depressivo inevitabile. Superato grazie all’impegno del cuoco di corte che ridona forza alla sua regina con un mix energetico passato poi alla storia e un ricettario ricalibratosi lungo i secoli. Ma attenzione, ammonisce Soldati, «la pearà non è soltanto una salsa ma, così piena e gustosa, trasforma il lesso in una nuova pietanza» tanto che «sconsiglio di cercarlo nelle trattorie, ma di imparare a farselo a casa. Non è difficile, ci vuole solo tanta pazienza, ma ne vale la pena». Arriviamo in laguna, a Malamocco, e qui Mario Soldati ci racconta di Gino Scarso, magister di talento e accoglienza. «Arriva di corsa e non per chiederci che cosa vogliamo mangiare o proporci il menù, ma già portando tra le braccia seminude la zuppiera con un’enorme saltata di vongole, sorridendoci attraverso le volute di fumo fragrante e pungente della salsa di erbe che si spargeva nell’aria. Ah, la soave sonorità musicale delle conchiglie rimestate tra loro cozzanti mentre Scarso le scodella». Una narrativa cinematografica tale da richiedere il bis, a occhi chiusi.
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