2022-09-10
«Pizzino» Usa a Apple nella guerra dei chip: niente soldi pubblici se poi li spende in Cina
Tim Cook, Ceo Apple (Ansa)
Chi accede ai 52 miliardi di fondi non può effettuare investimenti nella terra di Xi per 10 anni. E Roma usa ancora il golden power.Le proteste nella più grande miniera mondiale e la «fame» cinese spingono i prezzi dell’oro rosso. Architrave dell’economia verde.Lo speciale contiene due articoli.La valenza geopolitica dei microchip si sta facendo sempre più rilevante. Il dipartimento del Commercio statunitense ha avviato il suo piano per erogare un totale di 52 miliardi di dollari a sostegno della produzione interna di semiconduttori, sulla base del Chips act: legge federale, approvata dal Congresso a larga maggioranza e firmata da Joe Biden un mese fa. In particolare, l’amministrazione americana ha stabilito che le compagnie interessate a ricevere sovvenzioni dovranno impegnarsi a non aprire stabilimenti produttivi in territorio cinese per i prossimi dieci anni, almeno per quanto riguarda la tecnologia avanzata. «Le aziende che ricevono fondi ai sensi del Chips act non possono costruire strutture tecnologiche all’avanguardia o avanzate in Cina per un periodo di dieci anni», ha dichiarato il segretario al Commercio americano, Gina Raimondo, precisando che queste società potranno in caso soltanto espandere impianti in territorio cinese che producono tecnologia già esistente e quindi ampiamente disponibile sul mercato. «Con questo finanziamento, ci assicureremo che gli Usa non siano mai più in una posizione in cui i nostri interessi di sicurezza nazionale siano compromessi o le industrie chiave siano immobilizzate a causa della nostra incapacità di produrre semiconduttori essenziali qui a casa», ha aggiunto la Raimondo. Insomma, per Washington i chip stanno sempre più diventando una priorità in termini di sicurezza nazionale, e l’iniziativa del governo «amico» non può che far fischiare le orecchie a Apple. Gli Usa devono infatti innanzitutto risolvere i problemi di scarsità che affliggono le catene di approvvigionamento, ma vogliono anche evitare di cedere terreno a Pechino. È in questo quadro che il senatore repubblicano, Marco Rubio, ha messo nel mirino la Mela, che avrebbe aggiunto l’azienda cinese Ymtc alla lista dei suoi fornitori di chip di memoria flash Nand (dispositivi che servono ad archiviare i dati negli smartphone). «Apple sta giocando con il fuoco», ha dichiarato Rubio al Financial Times. «Conosce i rischi per la sicurezza posti da Ymtc. Se va avanti, sarà soggetta a un controllo come non ha mai visto da parte del governo federale. Non possiamo permettere che le aziende cinesi legate al Partito comunista cinese entrino nelle nostre reti di telecomunicazioni e negli iphone di milioni di americani», ha aggiunto. Certo: il colosso di Cupertino si difende, dicendo che quei chip andranno soltanto su dispositivi diretti al mercato cinese. Tuttavia questo non basta a placare le preoccupazioni sulla sicurezza nazionale (anche perché Nikkei Asia riportò che, nel 2020, la Cina vantava complessivamente il maggior numero di fornitori di Apple rispetto a qualsiasi altro Paese). «Ymtc ha ampi legami con il Partito comunista e con l’esercito cinesi. Ci sono prove credibili che Ymtc stia infrangendo le leggi sul controllo delle esportazioni, vendendo beni a Huawei», ha detto il deputato repubblicano Michael McCaul. «Apple», ha proseguito, «trasferirà efficacemente conoscenza e know-how a Ymtc che aumenterà le sue capacità e aiuterà il Pcc a raggiungere i suoi obiettivi nazionali». Non è d’altronde un caso che, a luglio, un gruppo bipartisan di senatori americani avesse inviato una lettera alla Raimondo, chiedendo che proprio Ymtc fosse inserita nella blacklist del Dipartimento del Commercio In questo quadro, la Casa Bianca sta cercando di creare «Chip 4»: una partnership tra Stati Uniti, Taiwan, Giappone e Corea del Sud nel settore dei semiconduttori in funzione anticinese. Il progetto è indubbiamente interessante, anche se The Diplomat ne ha messo in evidenza i potenziali limiti. Seul vanta un significativo mercato cinese nel comparto dei chip, mentre - più in generale - l’autosufficienza completa da Pechino si pone come un obiettivo impegnativo da raggiungere. La crescente consapevolezza della strategicità dei chip riguarda anche l’Italia. L’altro ieri, il governo Draghi, su proposta del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, ha fatto ricorso al golden power (nella forma di prescrizioni) in riferimento all’acquisizione dell’azienda lombarda Lpe da parte della multinazionale olandese Asm International, rilevando «rischi di pregiudizi per gli interessi nazionali». L’operazione è quindi stata consentita ma sub condicione. In particolare, il Mise ha richiesto che «Lpe, qualora il volume della domanda di acquisti risulti eccedente rispetto alle capacità produttive della società, dovrà adottare le iniziative idonee a non pregiudicare le richieste di approvvigionamento pervenute da clienti stabilmente insediati nell’Unione europea». Era tra l’altro il marzo dell’anno scorso, quando il Mise fece bloccare l’acquisizione della stessa Lpe (che, con 53 dipendenti e un fatturato nel 2021 di 47 milioni di euro, realizza reattori epitassiali usati nella produzione di chip) da parte della società cinese Shenzhen Investment. Insomma, la società lombarda (che, secondo il suo sito web, dispone di una branca cinese a Shanghai) è molto ambita a livello internazionale, mentre Roma sui chip mantiene alta la guardia.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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