2022-12-30
Più alberi nelle carceri per aiutare a rifiorire
Anche nelle prigioni ci vorrebbero giardini, fiori e del verde per convincere le persone di poter vivere meglio. Gli uomini non sono piante, ma da loro si può imparare a sorgere e crescere, rivestirsi di foglie e frutti, perdere quasi tutto. E, dopo l’attesa, rinascere.Hai sentito di quei ragazzi che sono scappati dal minorile di Milano? Beati loro, qualsiasi cosa, via di qui, fuori da questo inferno!Ancora ricordo da bambino i primi senza tetto che si vedevano per strada, erano gli anni Ottanta, i primi anni Novanta. Da allora sono piovute su di noi altre crisi finanziarie, l’attacco alle torri gemelle, la guerra ad Al Qaida e al terrorismo globale, la Spagna, l’Afghanistan, la crisi argentina, fino ai nostri giorni, quel che accade in Ucraina e in tanti paesi dimenticati dell’Africa. Certo, possiamo sempre stringerci nel compiacimento della mondializzazione felice che riguarda i figli delle nostre classi sociali elitarie, le migliori università, i viaggi all’estero in giro per le capitali del pianeta, Tokyo, Berlino, Parigi, Londra, Dubai e New York. Ma se fingiamo che i problemi non esistano, davvero basterà ancora a lungo per non doverci fare i conti?Continuando a credere che le poche foreste del mondo non sono a rischio, e con loro la nostra primaria fonte di ossigeno, quel che ci serve anzitutto per alzarci la mattina, non proprio un optional, forse che non vediamo lo sfruttamento? Lasciamo stare la politica, intesa come propria parte politica, come simpatia o adesione individuale, guardiamo come umani il mondo nel quale abitiamo… gli occhi vedono?Si parla così tanto del «problema delle carceri», certo, le carceri, che mondo lontano, remoto; le carceri, un piccolo spazio destinato a castigare coloro che delinquono. In questi anni mi sono reso conto di conoscere tante persone che vanno in carcere a portare qualcosa, ma da quel che mi dicono anche a ricevere qualcosa. Insegnanti, scrittrici, poeti, psicologi, antropologi, preti, buddisti, insegnanti di meditazione, agronomi, molte persone dedicano parte del proprio tempo a tentare di rendere questi anni di prigionia anche una reale e concreta occasione per diventare persone nuove, e non soltanto quello «schifo» - perché non usare questa parola? - che non è stato in grado di fermarsi, di non cedere alla rabbia, al bisogno, o allo sballo, o che si è fatto coinvolgere in qualcosa di sbagliato, magari per vivere l’emozione di qualche soldo facile o di farsi corrompere, di entrare in una organizzazione… sono tante le ragioni che conducono alcune persone a varcare la soglia di questi luoghi altri, di queste Cnosso di cemento armato, e di certo non sarà questa manciata di righe a risolvere qualcosa.Forse anche nelle carceri ci vorrebbero più alberi, giardini, fiori, aiutare le persone a credere di poter vivere meglio, di poter essere utili addirittura a qualcosa, e non stare soltanto penitenti con la faccia contro un muro, per anni, negando loro il sole, le stelle, l’aria all’aperto, facendoli pentire di essere dove sono ancora più rispetto a quanto non siano già ridotti ai minimi termini. E invece le sentiamo le storie di questi anni, le ulteriori violenze, le voci urlate, gli ordini categorici, anche chi entra nelle carceri le vede, le sente certe minacce, le subisce e forse anche chi lavora nelle carceri potrebbero aiutarsi, aiutando, non invocando un volersi bene universale vago e ideologico, ma concretamente, perché ne siamo certi, chi controlla e disciplina non sembra stare molto meglio di chi è condannato e imprigionato.Sono stato in carcere una volta, alcuni anni fa. Un carcere nella vasta e malinconica periferia di Torino. Non ho visto un albero dentro quei recinti, tra quegli edifici isolati gli uni dagli altri, uniti soltanto da tunnel e camminamenti. Ho portato un poco di alberi là dentro, ho parlato della benedizione di una cosa per loro estranea come la meditazione, che può far bene ovviamente a tutti, anche e forse anche di più a chi non ha altre forme di libertà. Imparare come dire a vivere come fanno gli alberi, anche se noi non siamo alberi, mai saremo alberi, mai saremo ovviamente vegetali, nonostante le facili ironie che potremmo ricamare quando si parla di chi abbiamo vicino, una moglie, un marito, dei figli, dei fratelli, gli amici… noi siamo umani, noi abbiamo dei bisogni, ricerchiamo dei piaceri, non ci basta la pioggia per dissetarci, non basta la luce del sole per rendere degna la nostra minima esistenza. Eppure da queste forme di vita forse qualcosa lo possiamo sempre condividere, a partire dal loro modo di nascere e rinascere, di metter fuori le foglie, di rivestirsi e poi splendere, ondeggiare, frusciare, e fiorire, e magari fruttificare, e di nuova perdere quasi tutto, e attendere, come deve sicuramente imparare a fare un individuo che si ritrova in una stanza di pochi metri quadrati, mai solo, con altre persone afflitte, e tutti ci si difende da un mondo ostile, che senti contro, e allora c’è chi preferisce l’indifferenza o la violenza, la minaccia, la competizione barbara per relazionarsi e non farsi schiacciare almeno qui dentro. Gli alberi invece non hanno bisogno di tutto questo, o quantomeno, lo riducono al minimo, non sempre, non tutti, chi ha un giardino lo sa, lo impara.E se fossero proprio loro, i nostri alberi, a poterci rieducare senza dire nulla mentre siamo rinchiusi nelle celle, nei bracci, per colpe e pene che, diamo pur per scontato, sebbene non lo sia affatto, siano tutte «meritate», adeguatamente giudicate e ponderate. C’è un libro di fresca pubblicazione che forse i carcerati e i carcerieri potrebbero leggere, si intitola Il buddista nel braccio della morte, lo ha scritto il giornalista David Sheef, e lo ha pubblicato la casa editrice Ubiliber. Il Dalai Lama ne ha detto: «Questo libro mostra in maniera vivida come, anche di fronte alle più grandi avversità, la compassione e l’attenzione premurosa nei confronti degli altri portino pace e forza interiore» e infatti non bisogna essere cristiani, buddisti, musulmani, atei o ebrei, per capire che la prigione più grande sta dentro di noi, dove gli occhi degli altri non arrivano, dove le parole degli altri non possono aiutarci. Per tentare di cambiare le carceri italiane bisogna ricominciare a credere anzitutto nelle enormi potenzialità di ogni essere umano, ne siamo ancora capaci?
(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare della Lega Roberto Vannacci durante un'intervista al Parlamento europeo di Bruxelles.