Boom di infiammazioni dalla seconda metà del 2021 tra under 20. Studio danese: rilevato mRna nel plasma a 28 giorni dal vaccino.
Boom di infiammazioni dalla seconda metà del 2021 tra under 20. Studio danese: rilevato mRna nel plasma a 28 giorni dal vaccino.Mentre i nostrani ultrà vaccinali non placano il loro tifo da stadio per i richiami infiniti dei miracolosi vaccini, emergono altre evidenze che minano la narrazione che nega con forza l’esistenza di effetti avversi gravi. Dalla Svezia, per esempio, arrivano dei dati interessanti sui giovani colpiti da miocardi e pericarditi. Analizzando i registri della Socialstyrelsen (l’agenzia governativa svedese per il welfare e la sanità) salta all’occhio come le infiammazioni siano aumentate nei giovani tra i 10 e i 19 anni proprio nel secondo semestre del 2021 e siano rimaste più alte, rispetto al periodo pre Covid, per tutto il 2022. Ovvero, le patologie hanno avuto una crescita impetuosa proprio nei periodi successivi alla corsa all’hub a cui anche i ragazzi sono stati spinti, nonostante lo scarso rischio per la loro fascia d’età derivante dal contagio. Nel dettaglio, il picco di eventi si è registrato nella seconda metà del 2021, con 216 ricoveri di under 20, poi scesi a 187 nel primo semestre del 2022 e a 157 in quello successivo. Certo, non si conoscono le caratteristiche dei pazienti: se fossero all’epoca vaccinati o meno o se avessero contratto il Covid. Miocarditi e pericarditi potrebbero essere anche conseguenza dell’infezione. E però, a tal proposito, risultano ancora più interessanti i numeri registrati prima della vaccinazione di massa degli adolescenti: come evidenzia la tabella in pagina, durante la fase acuta della pandemia, il 2020 e i primi mesi del 2021 (quando il virus aveva inoltre effetti più pesanti) le infiammazioni cardiache risultano inferiori agli anni pre Covid: 106 nel primo semestre del 2021, 104 e 114 nei due semestri del 2022, contro le 135 e 128 dei rispettivi semestri del 2019. Numeri che fanno risultare quanto meno sospetti i picchi registrati l’anno scorso e nella secondo metà del 2021. Dalla Danimarca, invece, arriva un altro studio sulla presenza della proteina Spike - presente sia nel Sars-Cov-2, sia nei vaccini a mRna - più a lungo del previsto nel sangue dei vaccinati. La ricerca, pubblicata sul Journal of Pathology, Microbiology and Immunology, è stata condotta su 108 pazienti affetti da epatite C cronica. In dieci dei loro campioni di plasma, sequenziati da maggio 2021 alla fine di giugno 2021, i ricercatori hanno trovato frammenti di mRNA del vaccino anti Covid (sia Pfizer che Moderna) fino a 28 giorni dopo la vaccinazione. Gli studiosi descrivono la presenza di mRna come «sorprendente». La questione della pericolosità per l’organismo della proteina Spike, bollata dagli autoproclamati fact checkers come una bufala antiscientifica, è già stata trattata in numerosi studi, come quello pubblicato sulla rivista Circulation condotto da Harvard medical school e Mit, su giovanissimi pazienti ricoverati in due ospedali di Boston, che individuava proprio nella Spike la causa delle miocarditi post iniezione nei bimbi e negli adolescenti. I ricercatori avevano infatti riscontrato, nei giovani analizzati colpiti da miocarditi, degli alti livelli di Spike libera, cioè non aggredita da anticorpi specifici. «La proteina», spiegava il virologo Francesco Broccolo, dell’Università del Salento, alla Verità, «non è legata agli anticorpi neutralizzanti che circolano nel sangue, che nei bambini e nei giovani adulti non si sono formati dopo la prima dose. Negli adulti» sottoposti al secondo shot, «la risposta immunitaria è più forte e gli anticorpi riescono a legare la proteina S, mentre nei bambini che sviluppano la miocardite, la proteina Spike resta libera, senza legarsi agli anticorpi neutralizzanti». È così che essa attiva «l’infiammazione che sta alla base» del danno cardiaco. Sul tema, aveva avuto importante rilevanza uno studio uscito su Cell nel marzo 2022, che aveva certificato che la proteina poteva restare in circolo due mesi dopo l’iniezione, mentre altri esami ne avevano trovato traccia nel sangue dei vaccinati fino a sei mesi dopo l’ultima dose. La persistenza nell’organismo della Spike, e la sua potenziale tossicità, erano state oggetto anche dello studio, pubblicato sulla rivista Pathogens, dei tre ricercatori dell’Iss che evidenziavano la necessità di ricalcolare i rischi e i benefici dei vaccini. Gli studiosi sono poi stati richiamati all’ordine dall’Istituto, dissociatosi dai suoi stessi scienziati, rei di aver messo in discussione la religione vaccinale.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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