2022-02-04
«La pestilenza è finita. Sono tutti morti, quasi»: in omaggio il libro di Ruggeri

iStock
È possibile scaricare gratuitamente il volume scritto ed edito da Riccardo Ruggeri accedendo a questo link.

È possibile scaricare gratuitamente il volume scritto ed edito da Riccardo Ruggeri accedendo a questo link.
Maurizio Landini tace. Da quando alcuni dirigenti della Uil hanno denunciato di essere stati aggrediti da una squadraccia della Cgil, il segretario della principale confederazione sindacale si è inabissato.
Sempre pronto a denunciare i pericoli di un ritorno del fascismo, sempre in prima linea per manifestare nei confronti di qualsiasi popolo oppresso, cominciando ovviamente dai lavoratori sfruttati e maltrattati da un governo di centrodestra, Landini, all’improvviso, è scomparso dai radar. Un gruppo di attivisti della Fiom ha assaltato e picchiato i colleghi della Uilm (due sono finiti in ospedale) che non condividevano la protesta indetta dal sindacato guidato dal leader arrabbiato e il segretario della Confederazione generale italiana del lavoro è entrato in modalità «silenzio stampa».
Al capo della Uil non è giunta neppure una lettera di scuse. Agli aggrediti neppure una manifestazione di solidarietà dai sindacalisti rossi. Ufficialmente è come se l’aggressione nei confronti dei colleghi sindacalisti da parte di quelli dei metalmeccanici della Cgil non fosse mai avvenuta. Eppure, molti giornali ne hanno parlato anche perché gli aggrediti sono finiti in ospedale ed è anche stata presentata una denuncia, affinché il caso non finisca nel dimenticatoio.
Tuttavia, nonostante quanto accaduto sia assai grave e riguardi la vertenza per la sopravvivenza dell’Ilva, ovvero della più grande acciaieria italiana che - grazie all’inchiesta della magistratura - rischia di fallire, Landini di fatto non ha trovato il tempo di commentare. E neppure di prendere le distanze dai suoi. Il che significa solo una cosa, ovvero che il leader del principale sindacato italiano, per convenienza politica, ha imboccato una deriva pericolosa, che rischia di consegnare alcune frange della Cgil all’estremismo più violento.
Su queste pagine abbiamo più volte criticato il linguaggio radicale del segretario della Cgil. Non parliamo solo delle parole usate contro Giorgia Meloni, che venne definita una «cortigiana» di Donald Trump. Tempo fa Landini chiamò gli italiani alla «rivolta sociale», che in un Paese devastato da un terrorismo che ha provocato centinaia di morti non può certo essere lasciato passare come un invito a un pranzo di gala. «Rivolta» è un sostantivo femminile che sintetizza un «moto collettivo e violento di ribellione contro l’ordine costituito». Il significato non lascia dubbi: si parla di insurrezione, sommossa, rivoluzione. Insomma, si tratta di una chiamata se non alle armi quantomeno alla ribellione. Landini in pratica reclama una sollevazione popolare, con le conseguenze che si possono immaginare. Dunque, vedere un manipolo di squadristi rossi che dà la caccia a sindacalisti che su una vertenza la pensano in maniera diversa, suscita preoccupazione.
Pierpaolo Bombardieri, capo della Uil, ha parlato di metodi «terroristici», una definizione che mette i brividi soprattutto in un momento in cui l’Italia è percorsa da manifestazioni ed espressioni che proprio non si possono definire pacifiche. Mentre alla fiera di Roma dedicata ai libri si discute della presenza di un singolo editore non allineato con il pensiero di sinistra (per questo lo si vorrebbe cacciare), a Pietrasanta è comparso un invito a sparare a Giorgia, con la stella a 5 punte delle Br, e ovviamente non si parlava della cantante. Si capisce che sia nel linguaggio sia nelle manifestazioni è in atto un cambiamento e un inasprimento della lotta politica.
A questo punto Landini deve solo decidere da che parte stare. Se di qua o di là. Se con chi difende la democrazia e la diversità di opinione o con chi usa metodi violenti per affermare le proprie idee. Il silenzio non si addice a chi denuncia ogni giorno il ritorno del fascismo. Qui l’unico pericolo viene da sinistra. È a sinistra che si invoca la rivolta. Se Landini non vuole finire nella schiera dei cattivi maestri ha il dovere di parlare e di denunciare chi riesuma lo squadrismo. Con i compagni che sbagliano sappiamo tutti come è finita.
Matteo Salvini, il gioielliere Mario Roggero è stato condannato dalla Corte di appello del tribunale di Torino a quasi 15 anni di galera e a un risarcimento di mezzo milione. Cosa pensa sul fatto, e cosa pensa di fare?
«Ho sentito Mario e gli ho ribadito la solidarietà della Lega: se potremo essergli vicini, anche economicamente, lo faremo. Nel 2019 abbiamo approvato una riforma che ha introdotto il principio che la difesa è sempre legittima. È stato un grande risultato della Lega: prevede la scriminante del grave turbamento delle vittime che sparano ai delinquenti e la possibilità di essere risarciti dallo Stato per le spese processuali se assolti. Mario purtroppo non ha avuto questa sorte: una parte di discrezionalità da parte dei magistrati è sempre possibile. Ora abbiamo proposto un ulteriore passo in avanti, a tutela di cittadini e forze dell’ordine: un cittadino che fa fuoco per difendersi da un’aggressione non dovrà più essere indagato in automatico, e varrà anche per gli agenti in servizio».
Il referendum sulla giustizia si avvicina. La Lega farà campagna attiva? Il governo rischia?
«La Lega sta già facendo campagna attiva: tutte le nostre sezioni diventeranno comitati per il Sì. Quanto al governo, non rischia: andremo avanti fino alla fine, e la vittoria del Sì sarà una vittoria degli italiani: fuori la politica e le correnti dai Tribunali».
Il governo dovrà decidere se prorogare gli aiuti militari all’Ucraina. Come Lega avete espresso la vostra contrarietà. Giorgia Meloni rassicura che il decreto arriverà: siamo al redde rationem per la maggioranza?
«Sulle armi e sulla prosecuzione della guerra la Lega da tempo invita alla prudenza, auspicando che le parole del Papa siano ascoltate e che il piano di Trump possa risultare efficace, come in Medioriente. Abbiamo sempre detto che mandare armi non avrebbe portato la pace, e che le sanzioni più che mettere in ginocchio Putin avrebbero danneggiato migliaia di aziende italiane ed europee. Così è stato. La nostra lealtà alla maggioranza è indiscutibile, proprio per questo dopo 12 pacchetti di armi e 19 di sanzioni è giusto riflettere. E la corruzione che sta emergendo in Ucraina, con uomini vicini a Zelensky che si arricchivano mentre mandavano migliaia di ragazzi a morire al fronte, non può lasciarci indifferenti».
Tajani ha detto che l’Italia chiederà di usare il Mes per finanziare l’Ucraina. Direte sì?
«Mai. Mi pare peraltro che gli stessi portavoce del Mes abbiano escluso l’opzione immaginata da Tajani. Per la Lega il Mes dovrebbe invece essere venduto per abbassare le tasse degli italiani, abbiamo miliardi di euro bloccati in quella operazione che non servirà mai a nessuno. Chiedo alla maggioranza di fare questa scelta coraggiosa».
Trump elabora una nuova dottrina e critica profondamente l’Ue, ma sembra lasciarla anche al suo destino. Tornano le suggestioni dell’esercito unico europeo: la preoccupa la cosa?
«Non sono d’accordo con un esercito europeo: se esistesse saremmo agli ordini di Parigi o Berlino e i nostri figli sarebbero già in guerra. Credo sia doveroso rafforzare la sicurezza interna italiana con l’assunzione di forze dell’ordine per proteggere le nostre città e i nostri confini, minacciati dall’immigrazione clandestina da Sud e non certo da cingolati o sommergibili sovietici. La guerra quotidiana ce l’abbiamo nelle nostre città: quella che trafficanti di esseri umani e mafie ci hanno dichiarato usando l’immigrazione clandestina, specie di matrice islamica».
I treni li prendiamo tutti. State facendo molti lavori. Innegabile. Ma è innegabile che i ritardi siano tanti. Non trova?
«Anche un ritardo sarebbe di troppo, ma stamattina noi abbiamo 1.300 cantieri aperti sui binari di tutta Italia, il massimo storico. Lavori necessari per garantire più sicurezza e più velocità: se non li facessimo fra pochi anni l’Italia sarebbe ferma. Nonostante questo sforzo, ogni giorno viaggiano 10.000 treni e un milione e mezzo di cittadini. La puntualità sta migliorando col diminuire dei cantieri. È un prezzo che paghiamo perché nei decenni precedenti non sono stati fatti i lavori necessari. Peraltro, l’85% degli italiani viaggia sui regionali, che a novembre hanno toccato il 90% di puntualità».
Stazioni, ma anche strade. L’esercito va utilizzato per altri compiti, sostiene il ministro Crosetto. Ma il presidente La Russa la pensa diversamente. La Lega?
«“Strade sicure” non va tagliata ma aumentata. La Lega ha proposto di aumentare i militari nelle strade già dal 2026 - oggi sono 6.800 -, altro che toglierli. Abbiamo bisogno di più agenti e soldati nelle piazze, sui mezzi pubblici e nei quartieri popolari, non a Kiev o a Mosca. Per offrire maggiore sicurezza su treni e stazioni abbiamo concretizzato un piano per rafforzare Fs Security: vigilantes per la sicurezza dei passeggeri che offrono risultati convincenti anche come prevenzione».
Esponenti Fiom menano i colleghi della Uilm: il clima la preoccupa?
«Certo: mentre perfino Hamas è stato costretto a sedersi a un tavolo di trattativa, in Italia ci sono irresponsabili che non si rassegnano e inneggiano alla violenza. Gente che se ne frega della Palestina e dei bimbi di Gaza: vogliono solo creare problemi al governo e bloccare strade e ferrovie. Nessuna tolleranza. A difendere la libertà sempre e comunque, ripudiando la violenza o la censura, siamo rimasti in pochi: sono contento che in questa battaglia ci siano la Lega e La Verità».
La legge di bilancio sarà approvata a breve. Ha scelto un dossier fondamentale?
«Dico pace fiscale: una attesa, storica e definitiva rottamazione di tutte le cartelle fino al 31 dicembre 2023. Si pagheranno in nove anni, con rate uguali e senza sanzioni: una boccata di ossigeno per milioni di cittadini perbene. Ricordo che abbiamo escluso i furbetti. Essere riusciti ad ottenere dalle banche circa dieci miliardi con cui tagliare tasse e assumere poliziotti è un’altra vittoria della Lega».
Dopo il parere della Bce sull’emendamento Malan sull’oro, cosa farà il ministro Giorgetti?
«L’oro non è di Bankitalia, è di proprietà degli italiani: meglio ricordarlo sempre. Anche in questo caso sono convinto che il governo troverà una soluzione con la consueta concretezza, la credibilità e la serietà del ministro Giorgetti sono un valore aggiunto per l’Italia e per la Lega».
Open Arms. L’11 dicembre si avvicina. La Cassazione deciderà su di lei. Preoccupato?
«Non sono preoccupato ma arrabbiato: è incredibile che dopo più di quattro anni di processo, e nonostante la piena assoluzione decisa dal tribunale di Palermo, qualcuno insista alla ricerca di una condanna politica. Difendere i confini non può essere un reato. Non mi spaventa il carcere, ma il caos che un’eventuale condanna scatenerebbe in Italia. Diventeremmo il campo profughi d’Europa».
Di fatto però, rispetto ai tempi di Lamorgese, non ci sono miglioramenti sostanziali. Cosa non ha funzionato?
«Da ministro dell’Interno ho tagliato del 90% gli sbarchi e i morti in mare, e ne sono fiero. Piantedosi sta lavorando tanto, le espulsioni aumentano e gli sbarchi si riducono, ma viene dopo un ministro inadeguato che ha smontato i decreti sicurezza e rispalancato i porti, costringendoci a lavorare il doppio. Senza contare le sentenze di giudici di sinistra che fanno battaglia politica sull’immigrazione, e un’Europa spesso latitante».
Si parla molto di remigrazione. È una prospettiva possibile?
«Sì, e ci sto lavorando. Sabato 18 aprile chiameremo in piazza Duomo a Milano patrioti da tutta Italia e da tutta Europa, per una grande manifestazione in difesa dei valori, dei diritti, delle tradizioni, delle libertà e della sicurezza dell’Occidente. La nostra civiltà rischia di morire per mano dell’Islamismo, del wokismo, del greenismo gretino e dell’ipocrita politica buonista di sinistra. Abbiamo il dovere di fermare questa deriva, per il bene dei nostri figli. Remigrazione? Sì».
Autonomia differenziata, a che punto siamo?
«Ho fatto la prima tessera della Lega nel 1990, facevo il Classico, proprio per l’autonomia. Dopo trent’anni ci siamo: le prime intese con le Regioni sono state firmate da Calderoli 15 giorni fa, le bozze preliminari si potranno portare in Cdm a gennaio. Abbiamo inserito in manovra i passaggi per realizzare il federalismo fiscale e in commissione al Senato va avanti anche l’esame del ddl delega per identificare tutti gli altri livelli essenziali delle prestazioni. Significa liberare fondi per la Sanità, per assumere medici e tagliare le liste di attesa».
Alle Regionali siete andati male in Toscana, ma oltre le aspettative in Veneto. Quanto vale la Lega?
«Più di quanto dicano i sondaggi. In Toscana il risultato è stato deludente e siamo già ripartiti, ma ottenere da soli il 36% in Veneto, avvicinare il 10% in Calabria, superare l’8% in Puglia prendendo più dei 5 stelle, oltrepassare i 100.000 voti in Campania sono risultati incredibili. Stiamo aumentando iscritti in tutta Italia, siamo parte di un’alleanza internazionale potente, abbiamo coerenza, idee, valori e obiettivi chiari. Alle elezioni del 2027 saremo determinanti per la vittoria del centrodestra».
Zaia immagina un modello Cdu- Csu per la Lega. Un partito «nordista» associato a uno nazionale nelle altre Regioni. Che ne pensa?
«Tutto quello che può far crescere la Lega mi interessa e con Zaia il rapporto è ottimo e quotidiano. Le mie priorità ora sono approvare una buona manovra, realizzare al meglio le Olimpiadi Milano-Cortina, vincere il referendum sulla giustizia e le elezioni comunali di primavera da Venezia a Reggio Calabria, da Lecco a Macerata; approvare una buona legge elettorale, preparare programma e squadra per le Politiche. Avremo modo e tempo di parlare anche dell’organizzazione interna del partito».
Vero che non ama il proporzionale col premio di maggioranza?
«A me piace ciò che dà valore al voto degli italiani. Proporzionale con premio di maggioranza? Perché no. Preferenze, alternanze, listoni? Si troverà una quadra».
La Lega esprimerà il candidato Presidente anche in Lombardia e Friuli-Venezia Giulia?
«Ha poco senso parlare adesso di elezioni che ci saranno fra due o tre anni. Chiedo invece al centrodestra di scegliere, bene e in fretta, i candidati sindaci delle grandi città che andranno al voto fra un anno e mezzo, a partire dalla mia Milano».
Prima Mogherini e poi Moretti. Bruxelles sta diventando «terra ostile» anche per il Pd.
«Non festeggio per le disavventure altrui, sono e rimango garantista. Certo, a Bruxelles negli anni la sinistra ha costruito una macchina burocratica, economica e politica infernale. Trump e Musk hanno detto quello che molti pensano: l’euro ci ha rafforzato o indebolito? L’Unione europea ci ha portato forza o debolezza? Nascondere la testa sotto la sabbia è da sciocchi. Sono orgoglioso che le idee, le denunce e le soluzioni proposte dalla Lega, che fino a pochi mesi fa venivano bollate come follie, piano piano si stiano rivelando sagge e veritiere. Andiamo avanti, buona Immacolata Concezione e grazie per la pazienza a ognuno di voi».
Un esperimento di 142 anni fa ci fa riflettere su quanto l’aviazione avesse già tentato la via dell’elettrificazione. E con buoni risultati…
Piovono rose (rosse e bianche) e applausi su assi di legno che sanno ancora di morte, mista a cherosene. Per raccontare il capodanno della Scala partiamo dalla fine (non dal finale «sbagliato», quello va metabolizzato e il suo odore pungente in teatro si sente ancora). Iniziamo dal Dopo la Prima, dal verdetto dei cronometristi che conferma il successo (per i trionfi il pubblico pretende titoli che conosce a memoria) di questo 7 dicembre, festa del patrono di Milano, Sant’Ambrogio, e stavolta pure di Dmitri Shostakovich, martire (artisticamente parlando) di Iosif Stalin.
Sono oltre 11, infatti, i minuti di giubilo certificati e da consegnare ai posteri per questa Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Non saranno gli irraggiungibili 92 giri d’orologio di fantozziana memoria (l’irripetibile stroncatura della Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn da parte del mitico ragioniere sembra la parodia di quanto fece vergare sulla Pravda il dittatore comunista contro il povero Dmitri Dmitrievic), ma siamo a un soffio dalla fortunata - fa strano scriverlo perché dicono che porti sfiga - Forza del destino di Verdi dell’anno scorso.
L’applausometro, che rileva le vibrazioni del Piermarini, è inequivocabile: il cuore del pubblico se l’è rubato il soprano venuto dal Michigan per impossessarsi del ruolo principale, Sara Jakubiak. Partita un po’ frenata, ha saputo ridare vita alla tragedia di Katerina L’vovna. Dalla romanza dell’atto iniziale ha preso fiducia, coprendo il primo squillo di cellulare della serata (non succederà quasi più, ma ne cadranno a terra molti). Solo di qualche decibel inferiore il boato per Alexander Roslavets, basso bielorusso con il physique du rôle - tra il tenente Kojak e Mastro Lindo - che ha portato in scena la versione virile del claustrofobico Boris: suocero, ma soprattutto spirito maligno, che tormenta la protagonista anche da morto. Anche se accolto quasi dallo stesso entusiasmo - ma non è una gara e non siamo a X Factor, con buona pace di Achille Lauro, ben accomodato - ha forse convinto meno Najmiddin Mavlyanov, tenore uzbeko, nei panni dell’amante Sergej.
In pieno controllo di una partitura più che impegnativa, dai mille stili e colori (valzer viennese, Mahler, Offenbach e molto altro), il direttore musicale, Riccardo Chailly, alla sua dodicesima e ultima inaugurazione. Gli applausi tra un atto e l’altro (molti i «Bravo Maestro», urlati prima del terzo e quarto) sapevano di grazie per questi anni e lasciavano presagire l’abbraccio finale, che è puntualmente arrivato.
Riavvolgiamo il nastro. Neanche il tempo di aprire il sipario alle 18.01 - dopo un inno nazionale mai così poco partecipato (anche al Loggione calma piatta) - che il regista moscovita Vasily Barkhatov - pure per lui solo ovazioni e complimenti - ha già fatto tre mosse: del villaggio russo del 1860 non c’è traccia, l’azione si svolge a Mosca, al tramonto dell’era Stalin (morirà nel 1953, 17 anni dopo aver censurato questo capolavoro). L’azienda rurale degli Izmailov è diventata un ristorante. Ma soprattutto il caso è già chiuso. Katerina sta «cantando». Non in senso letterale - dove sarebbe la notizia? - ma in gergo mafioso. Nella prima scena la bella moglie (a questo punto vedova) del ricco mercante siede a un tavolino Ikea da interrogatorio. Accetta le sigarette dello sbirro in uniforme bianca e collabora. Tra i capelli il beffardo velo delle nozze con Sergej, stroncate dalla polizia dopo il ritrovamento del cadavere del pingue marito.
Primo strappo: nel libretto deve succedere tutto, sul palcoscenico il giallo è risolto (altro che Garlasco e cold case all’italiana). Giudicando con le orecchie, la Izmajlova soffre di noia cronica, «da impiccarsi». E nemmeno immagina che uno stalliere (pardon, cameriere) sta per stravolgerle la vita. Per lui però sarà disposta persino a condire i funghi del suocero con il veleno per sorci (il tema di Boris è una marcetta da topo, lo spiega su Youtube Pietro Rigacci). Per l’occhio invece è svanita ogni suspense. Da qui alla fine, la narrazione sarà un ping pong perpetuo tra ricordi del passato e disperante attualità di una confessione che prepara l’inevitabile condanna. A indicare dove siamo nella linea spazio-tempo ci pensano i cambi di luce e le morbose incursioni dei poliziotti che obbligano i Bonnie e Clyde sovietici a rimettere in scena ogni cosa, compresa la loro sfrenata passione. Terribile quando i due sono costretti a replicare il loro primo amplesso con le manette ai polsi (una delle trovate con le quali il regista riesce a non essere didascalico nelle scene di sesso, lasciando fare ai glissando di tromboni e alle percussioni). Pochi letti, si fa l’amore su tavoli. Il fantasma di Stalin, dal palchetto dei dittatori, storce il naso.
I piani temporali cambiano all’istante, come quando i due amanti strangolano Zinovij, mentre al poveretto cascano i pantaloni. Una scena da commedia di Lino Banfi (dramma e grottesco insieme, sarcasmo shostakovichiano in purezza). Un secondo dopo, il corpo del consorte soffocato si trasforma in manichino, svelando il flashback: una ricostruzione da Quarto Grado, da plastico di Porta a Porta.
Ma è l’epilogo «opposto» a ciò che sulla carta dovrebbe accadere a offrire una prospettiva originale e metafisica a questa rappresentazione lacerante e sarcastica nello stesso tempo.
Ultimo atto: le domande dei celerini finiscono, Katerina si ritrova in una landa desolata. Manca solo la scritta «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» per far diventare Divina quella che non è mai stata una commedia, ma una «tragedia satirica». Sulle teste dei prigionieri cadono fiocchi candidi. Nessuno però pensa al «Natale con la neve» di Vasco. I brividi dei condannati rimandano alla Siberia e all’Inferno dantesco. A quel «pozzo scuro» e freddo che ripaga i traditori, lasciandoli al gelo. «L’acqua è nera come la mia coscienza», canta quest’anima tormentata che, a breve, dovrebbe trascinare con sé la rivale nell’abisso. Invece - nello choc del pubblico in smoking - si inonda di benzina e sceglie di finire nel fuoco, insieme a Sonetka (da film l’ingresso delle due torce umane, con le fiamme che sfiorano i nobili tendaggi rossi). È lei l’ultima conquista di quello «sciupafemmine» di Sergej (che non merita di essere più chiamato amorevolmente Sëreza) per il quale aveva inutilmente scommesso la vita, alla ricerca di un’inafferrabile felicità.
Viene il sospetto che Barkhatov sia un fan di Una pura formalità di Giuseppe Tornatore. La suggestione si fa strada pensando che questa centrale di polizia sia un po’ il tribunale celeste, alla fine dei tempi. Chi è sottoposto al giudizio rivede e rivive la sua esistenza scegliendo liberamente il proprio destino finale. Impressioni? Ipotesi? Lapidario il commento di un’elegante sciura milanese alla consegna dei cappotti: «La Katerina che prende fuoco, pure questa mi toccava vedere…».
Come ogni anno la Prima della Scala rappresenta l’occasione per un ricettacolo di proteste più o meno variopinte. Questa volta, con un pizzico di fantasia in più, i manifestanti hanno persino creato dei cartonati del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con scritto «Lady MacMelon», allegoria del vero spettacolo di ieri sera. Una manifestazione dal carattere prettamente antifascista e antisemita. All’altoparlante, in collegamento telefonico, è intervenuto anche Mohammad Hannoun, presidente dell’associazione palestinesi d’Italia, che ha ricevuto un foglio di via di un anno da Milano. Tanti gli slogan e gli striscioni pro Pal e in solidarietà a Mohamed Shanin, l’imam di Torino colpito da un decreto di espulsione per un comizio in cui parlava del 7 ottobre. Per i manifestanti, l’appuntamento sotto il Piermarini (al quale hanno partecipato anche le sigle sindacali Cgil e Cub) e davanti al municipio di Milano «non è una ricorrenza, ma resistenza». Nel mirino, come detto, anche Giorgia Meloni: «Lady Mac Melon del distretto è venuta qui a ricordarci come la cultura non serve a niente, o meglio, non tutte le culture servono. Quelli come lei dicevano, libro e moschetto, fascista perfetto», ha proclamato un manifestante nel bel mezzo di un vero e proprio spettacolo inscenato in strada.
Tra fumogeni e slogan, sul palco dei contestatori sono comparsi anche i personaggi caricaturali del ministro Giuseppe Valditara, vestito da militare, del ministro della Cultura, Alessandro Giuli, del sindaco Beppe Sala e di Manfredi Catella, l’imprenditore (ceo di Coima) coinvolto nell’inchiesta sull’urbanistica a Milano. Infine, cori contro la neo direttrice della Fenice di Venezia, Beatrice Venezi. Un militante, sul piccolo palcoscenico di fortuna sui cui campeggiava la scritta «Il teatro delle complicità», ha detto: «Non vogliamo essere complici di un genocidio e non vogliamo un sindaco che dice “Palestina libera” e poi il Comune continua a incassare soldi da Israele».
Per Riccardo De Corato, deputato Fdi ed ex vicesindaco di Milano, «in piazza della Scala a Milano abbiamo assistito a nuove dichiarazioni offensive al presidente del Consiglio. In particolare, da parte di una consigliera ed esponente del Movimento 5 stelle sono state pronunciate frasi inaccettabili nei confronti di Giorgia Meloni», accusa. In scena, anche la protesta di una decina di ucraini, per tenere accesi i riflettori sulla guerra nel loro Paese.
Dentro il teatro, scarsa come annunciato la rappresentanza politica nazionale: niente Sergio Mattarella, niente Giorgia Meloni, il solo ministro della Cultura Alessandro Giuli per l’esecutivo: la star è la senatrice Liliana Segre. Tanto che il governatore lombardo Attilio Fontana ha buon gioco a fare l’autonomista: «Governo assente? Ce ne faremo una ragione».

