True
2021-11-09
Perché è una pessima idea imporre il vaccino ai bimbi
iStock
Mentre i media ignorano gli studi internazionali e creano il panico sugli effetti del long Covid nei più piccoli, molti scienziati provano a fermare la profilassi dei bambini. «Se non sono malati non è necessaria», avverte Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani. «Servono altri dati sui rischi-benefici, e non bisogna sottovalutare le reazioni», conferma Sergio Bernasconi, direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. Non solo, secondo Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina della Statale di Milano, «l'infezione da Covid nei bimbi dev'essere trattata come le altre». Eppure la corsa al vaccino continua. «Se un bambino ha già delle altre patologie gravi, conviene vaccinarlo, per proteggerlo da un virus che, associato ad altre malattie, può rivelarsi grave. Se invece è sano, non vedo la necessità di vaccinarlo», dichiarava ieri Francesco Vaia, direttore dell'istituto Spallanzani di Roma. Su Libero il professore precisava: «Il vaccino non va fatto ai bambini per impedirgli di contagiare gli adulti, ma solo se sono fragili di loro».
E meno male che qualche addetto ai lavori ha il coraggio di affermare verità sacrosante, mentre i più sostengono le vaccinazioni agli under 11 come una necessità impellente. «Per il Covid, non ci sono ancora dati chiari su rischi e benefici nei bambini», dichiarò a settembre sulla Verità Sergio Bernasconi, già direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. «Attenzione a sottovalutare reazioni avverse nei giovani», segnalava il professore, tra i sottoscrittori a luglio dell'appello per una moratoria alla vaccinazione anti Covid-19 ai minori, invitando a «vaccinare bambini e adolescenti immunodepressi o con patologie a rischio e non in modo generalizzato». Bernasconi smontava l'allarmismo diffuso, perché se un bimbo prende il Covid in maniera lieve, come accade nella stragrande maggioranza dei casi, «sviluppa un'immunità naturale, migliore, più potente e duratura come abbiamo visto per altre forme virali», rimarcava. «Quando risulta positivo, la sua infettività dura meno di una settimana quindi non è un untore, come lo si vuol far passare. Anche un vaccinato può essere infettato e infettare. Ma poi, se accettiamo l'impostazione che dobbiamo convivere con il virus, può essere utile una circolazione del Covid tra i minori». Affermazioni accolte con un sospiro di sollievo da milioni di genitori, però ignorate da quei pochi che hanno in mano la salute nazionale e decidono ignorando ogni contraddittorio, per quanto scientificamente fondato.
Qualche giorno prima anche Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale di Milano, invitava a trattare l'infezione da Covid «come altre che colpiscono i bimbi. Se si infettano è in forma leggera, a bassa carica virale. Non solo, mantenendo in circolazione il virus aiutano a raggiungere l'auspicata immunità di gregge, a rendere endemico il Covid. Quindi teniamo a casa solo il bimbo sintomatico, che sta male e torniamo alla normalità pre pandemia», sosteneva da queste pagine l'esperto. In base alla sua esperienza affermava che i bimbi che finiscono in ospedale sono «molto pochi» e «se capita quasi sempre è perché erano sì positivi al tampone, ma soffrivano di altre malattie croniche». Il suo appello fu forte e chiaro: «Vaccinare i bambini non è la priorità, tranne che per le categorie a rischio. Torniamo alla normalità, per i più piccoli è un imperativo urgente». Zuccotti non è stato ascoltato, e come lui altre poche voci fuori dal coro finiscono ignorate.
Eppure c'era un altro assioma, racchiuso nelle parole dell'esperto, che recenti studi hanno confermato. «Ricordiamoci che l'immunità da vaccino tende a diminuire, quindi mantenendo la circolazione virale tra i piccoli si può aiutare a mantenere viva la memoria immunologica anche negli adulti», dichiarò alla Verità il preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale. Dopo pochi mesi dalla seconda dose cala la risposta immunitaria che andrebbe potenziata con un terzo richiamo, ma sicuramente non sarà finita lì. Nello studio effettuato dallo statunitense Cold spring harbor laboratory e pubblicato in inglese sul portale bioRxiv, non ancora sottoposto a revisione paritaria, si legge che i vaccinati naïve, senza aver contratto il Covid, avrebbero un rischio di infezioni con la variante Delta maggiore di 13,06 volte rispetto a coloro che hanno contratto l'infezione. «Erano anche a maggior rischio di ricoveri correlati al Covid-19», affermano i ricercatori, sostenendo che l'immunità naturale conferisce una protezione più duratura e forte contro l'infezione, la malattia sintomatica e l'ospedalizzazione, rispetto all'immunità indotta dal vaccino a due dosi di Pfizer. Quanto ai sintomi della condizione post Covid, mentre molto esperti ridimensionano il rischio nei minori, in Italia si accentua pure l'aspetto complicanze. «Un bambino su sette, tra quelli che si ammalano, sviluppa il long Covid 15 settimane dopo la guarigione», ha dichiarato Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Humanitas di Rozzano. «Pensiamo si possa prevenire con il vaccino», è stata la sua conclusione a Che tempo che fa su Rai 3. Pensiamo? Si sta navigando a vista sulla pelle delle creature?
«La maggior parte dei bambini e degli adolescenti che risultano positivi al Covid-19 hanno sintomi lievi o addirittura assenti», sostiene Peter Rowe, professore di pediatria presso la Johns Hopkins university school of medicine. Sintomi cronici quali affaticamento, difficoltà a concentrarsi, dolori muscolari o articolari sono ancora in fase di studio. «Probabilmente ci vorranno alcuni anni prima di saperne a sufficienza», dichiara su Healthychildren.org dell'Accademia americana di pediatria l'esperto, che è anche direttore della Chronic fatigue clinic presso il Johns Hopkins children's center.
Un grande studio epidemiologico condotto nel Regno Unito su quasi 260.000 giovanissimi tra i 5 e i 17 anni indicava una durata media del Covid di cinque giorni nei bimbi più piccoli, con una media di tre sintomi nella prima settimana, quali affaticamento, cefalea, mal di gola, raramente irritabilità. «Una piccola percentuale di bambini ha una durata prolungata della malattia e sintomi persistenti», riportava la pubblicazione su The Lancet. In Italia, invece, si preferisce terrorizzare sugli effetti del Covid sui bambini.
Svanito nel nulla il tracciamento nelle scuole con i test salivari
Che fine hanno fatto i test salivari previsti per tutto l'anno scolastico (età 6-14), con cadenza quindicinale? Il piano nazionale di monitoraggio della circolazione del Covid in scuole «sentinella», varato lo scorso settembre, prevedeva l'individuazione di tre, quattro istituti per provincia con rotazione delle classi da sottoporre a test, offerti gratuitamente ad alunni di primarie e secondarie di primo grado.
Una media di 110.000 studenti su base volontaria, ogni mese, per un'azione definita di «sanità pubblica». La campagna di testing voluta dai ministeri della Salute e dell'Istruzione, assieme all'Iss e alla struttura del commissario per l'emergenza, «potrebbe costituire uno strumento ulteriore per ridurre la probabilità di diffusione dell'infezione sia nelle scuole che nella comunità (ad esempio famiglie) e limitare i conseguenti provvedimenti di sanità pubblica (isolamenti, quarantene, didattica a distanza, eccetera) che ne potrebbero scaturire», si leggeva nel documento.
Nei primi due mesi la raccolta dei campioni doveva avvenire a scuola, con personale sanitario individuato dalle Asl o dalla Difesa, mentre in un secondo momento si sarebbe proceduto «all'auto raccolta al mattino appena svegli», per venire incontro alle esigenze dei bambini che devono essere a digiuno e non aver lavato i denti prima di fare i test. Campioni da portare poi a scuola «e immessi in un apposito contenitore gestito da un referente scolastico». Tutto bello, ma rimane fantascienza. «La parte del tracciamento negli istituti non ha mai funzionato, è l'anello debole della catena, probabilmente non c'è il personale sufficiente per farla e anche le “classi sentinella" dovrebbero essere molte di più», ha dichiarato Rino Di Meglio, riconfermato coordinatore della Gilda degli insegnanti.
Quando funziona, il monitoraggio offre dati confortanti, «un tasso di positività molto basso, intorno allo 0,4%», ha detto l'assessore regionale alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. Perché allora non aumentare la distribuzione dei test salivari? «Finora non c'è stato un solo positivo. Un bel segnale», dichiarava a fine ottobre Emilio Paolo Abbritti, coordinatore del monitoraggio nelle scuole della Usl Umbria 1. «Sono tutti negativi gli 844 tamponi salivari fatti nelle scuole sentinella del catanese. Il risultato ci rassicura, commentava negli stessi giorni il commissario locale per l'emergenza Covid, Pino Liberti».
In Alto Adige, il presidente, Arno Kompatscher, ha firmato l'ordinanza che prolunga fino al 23 dicembre lo screening volontario, ma non si capisce perché non vengano aumentati i test salivari, le raccolte campione negli alunni, coinvolgendo le famiglie e quantificando la circolazione del virus anche nelle persone asintomatiche. Con poche mosse semplici, per rendere più automatica questa attività di sorveglianza, lo screening è in grado di evidenziare i positivi ma sembra interessare ben poco.
Continua a leggere
Riduci
«Se sono sani la profilassi non è necessaria», avverte Francesco Vaia, direttore dell'istituto Spallanzani di Roma. «Servono altri dati sui rischi e i benefici nei più piccoli», confermano Sergio Bernasconi e Gian Vincenzo Zuccotti. E alcuni studi internazionali smentiscono l'allarmismo italiano sugli effetti del long Covid nei minorenni.La campagna voluta dal governo avrebbe dovuto coinvolgere 110.000 studenti al mese.Lo speciale contiene due articoli.Mentre i media ignorano gli studi internazionali e creano il panico sugli effetti del long Covid nei più piccoli, molti scienziati provano a fermare la profilassi dei bambini. «Se non sono malati non è necessaria», avverte Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani. «Servono altri dati sui rischi-benefici, e non bisogna sottovalutare le reazioni», conferma Sergio Bernasconi, direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. Non solo, secondo Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina della Statale di Milano, «l'infezione da Covid nei bimbi dev'essere trattata come le altre». Eppure la corsa al vaccino continua. «Se un bambino ha già delle altre patologie gravi, conviene vaccinarlo, per proteggerlo da un virus che, associato ad altre malattie, può rivelarsi grave. Se invece è sano, non vedo la necessità di vaccinarlo», dichiarava ieri Francesco Vaia, direttore dell'istituto Spallanzani di Roma. Su Libero il professore precisava: «Il vaccino non va fatto ai bambini per impedirgli di contagiare gli adulti, ma solo se sono fragili di loro». E meno male che qualche addetto ai lavori ha il coraggio di affermare verità sacrosante, mentre i più sostengono le vaccinazioni agli under 11 come una necessità impellente. «Per il Covid, non ci sono ancora dati chiari su rischi e benefici nei bambini», dichiarò a settembre sulla Verità Sergio Bernasconi, già direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. «Attenzione a sottovalutare reazioni avverse nei giovani», segnalava il professore, tra i sottoscrittori a luglio dell'appello per una moratoria alla vaccinazione anti Covid-19 ai minori, invitando a «vaccinare bambini e adolescenti immunodepressi o con patologie a rischio e non in modo generalizzato». Bernasconi smontava l'allarmismo diffuso, perché se un bimbo prende il Covid in maniera lieve, come accade nella stragrande maggioranza dei casi, «sviluppa un'immunità naturale, migliore, più potente e duratura come abbiamo visto per altre forme virali», rimarcava. «Quando risulta positivo, la sua infettività dura meno di una settimana quindi non è un untore, come lo si vuol far passare. Anche un vaccinato può essere infettato e infettare. Ma poi, se accettiamo l'impostazione che dobbiamo convivere con il virus, può essere utile una circolazione del Covid tra i minori». Affermazioni accolte con un sospiro di sollievo da milioni di genitori, però ignorate da quei pochi che hanno in mano la salute nazionale e decidono ignorando ogni contraddittorio, per quanto scientificamente fondato. Qualche giorno prima anche Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale di Milano, invitava a trattare l'infezione da Covid «come altre che colpiscono i bimbi. Se si infettano è in forma leggera, a bassa carica virale. Non solo, mantenendo in circolazione il virus aiutano a raggiungere l'auspicata immunità di gregge, a rendere endemico il Covid. Quindi teniamo a casa solo il bimbo sintomatico, che sta male e torniamo alla normalità pre pandemia», sosteneva da queste pagine l'esperto. In base alla sua esperienza affermava che i bimbi che finiscono in ospedale sono «molto pochi» e «se capita quasi sempre è perché erano sì positivi al tampone, ma soffrivano di altre malattie croniche». Il suo appello fu forte e chiaro: «Vaccinare i bambini non è la priorità, tranne che per le categorie a rischio. Torniamo alla normalità, per i più piccoli è un imperativo urgente». Zuccotti non è stato ascoltato, e come lui altre poche voci fuori dal coro finiscono ignorate. Eppure c'era un altro assioma, racchiuso nelle parole dell'esperto, che recenti studi hanno confermato. «Ricordiamoci che l'immunità da vaccino tende a diminuire, quindi mantenendo la circolazione virale tra i piccoli si può aiutare a mantenere viva la memoria immunologica anche negli adulti», dichiarò alla Verità il preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale. Dopo pochi mesi dalla seconda dose cala la risposta immunitaria che andrebbe potenziata con un terzo richiamo, ma sicuramente non sarà finita lì. Nello studio effettuato dallo statunitense Cold spring harbor laboratory e pubblicato in inglese sul portale bioRxiv, non ancora sottoposto a revisione paritaria, si legge che i vaccinati naïve, senza aver contratto il Covid, avrebbero un rischio di infezioni con la variante Delta maggiore di 13,06 volte rispetto a coloro che hanno contratto l'infezione. «Erano anche a maggior rischio di ricoveri correlati al Covid-19», affermano i ricercatori, sostenendo che l'immunità naturale conferisce una protezione più duratura e forte contro l'infezione, la malattia sintomatica e l'ospedalizzazione, rispetto all'immunità indotta dal vaccino a due dosi di Pfizer. Quanto ai sintomi della condizione post Covid, mentre molto esperti ridimensionano il rischio nei minori, in Italia si accentua pure l'aspetto complicanze. «Un bambino su sette, tra quelli che si ammalano, sviluppa il long Covid 15 settimane dopo la guarigione», ha dichiarato Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Humanitas di Rozzano. «Pensiamo si possa prevenire con il vaccino», è stata la sua conclusione a Che tempo che fa su Rai 3. Pensiamo? Si sta navigando a vista sulla pelle delle creature? «La maggior parte dei bambini e degli adolescenti che risultano positivi al Covid-19 hanno sintomi lievi o addirittura assenti», sostiene Peter Rowe, professore di pediatria presso la Johns Hopkins university school of medicine. Sintomi cronici quali affaticamento, difficoltà a concentrarsi, dolori muscolari o articolari sono ancora in fase di studio. «Probabilmente ci vorranno alcuni anni prima di saperne a sufficienza», dichiara su Healthychildren.org dell'Accademia americana di pediatria l'esperto, che è anche direttore della Chronic fatigue clinic presso il Johns Hopkins children's center. Un grande studio epidemiologico condotto nel Regno Unito su quasi 260.000 giovanissimi tra i 5 e i 17 anni indicava una durata media del Covid di cinque giorni nei bimbi più piccoli, con una media di tre sintomi nella prima settimana, quali affaticamento, cefalea, mal di gola, raramente irritabilità. «Una piccola percentuale di bambini ha una durata prolungata della malattia e sintomi persistenti», riportava la pubblicazione su The Lancet. In Italia, invece, si preferisce terrorizzare sugli effetti del Covid sui bambini. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pessima-idea-imporre-vaccino-bimbi-2655521900.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="svanito-nel-nulla-il-tracciamento-nelle-scuole-con-i-test-salivari" data-post-id="2655521900" data-published-at="1636400693" data-use-pagination="False"> Svanito nel nulla il tracciamento nelle scuole con i test salivari Che fine hanno fatto i test salivari previsti per tutto l'anno scolastico (età 6-14), con cadenza quindicinale? Il piano nazionale di monitoraggio della circolazione del Covid in scuole «sentinella», varato lo scorso settembre, prevedeva l'individuazione di tre, quattro istituti per provincia con rotazione delle classi da sottoporre a test, offerti gratuitamente ad alunni di primarie e secondarie di primo grado. Una media di 110.000 studenti su base volontaria, ogni mese, per un'azione definita di «sanità pubblica». La campagna di testing voluta dai ministeri della Salute e dell'Istruzione, assieme all'Iss e alla struttura del commissario per l'emergenza, «potrebbe costituire uno strumento ulteriore per ridurre la probabilità di diffusione dell'infezione sia nelle scuole che nella comunità (ad esempio famiglie) e limitare i conseguenti provvedimenti di sanità pubblica (isolamenti, quarantene, didattica a distanza, eccetera) che ne potrebbero scaturire», si leggeva nel documento. Nei primi due mesi la raccolta dei campioni doveva avvenire a scuola, con personale sanitario individuato dalle Asl o dalla Difesa, mentre in un secondo momento si sarebbe proceduto «all'auto raccolta al mattino appena svegli», per venire incontro alle esigenze dei bambini che devono essere a digiuno e non aver lavato i denti prima di fare i test. Campioni da portare poi a scuola «e immessi in un apposito contenitore gestito da un referente scolastico». Tutto bello, ma rimane fantascienza. «La parte del tracciamento negli istituti non ha mai funzionato, è l'anello debole della catena, probabilmente non c'è il personale sufficiente per farla e anche le “classi sentinella" dovrebbero essere molte di più», ha dichiarato Rino Di Meglio, riconfermato coordinatore della Gilda degli insegnanti. Quando funziona, il monitoraggio offre dati confortanti, «un tasso di positività molto basso, intorno allo 0,4%», ha detto l'assessore regionale alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. Perché allora non aumentare la distribuzione dei test salivari? «Finora non c'è stato un solo positivo. Un bel segnale», dichiarava a fine ottobre Emilio Paolo Abbritti, coordinatore del monitoraggio nelle scuole della Usl Umbria 1. «Sono tutti negativi gli 844 tamponi salivari fatti nelle scuole sentinella del catanese. Il risultato ci rassicura, commentava negli stessi giorni il commissario locale per l'emergenza Covid, Pino Liberti». In Alto Adige, il presidente, Arno Kompatscher, ha firmato l'ordinanza che prolunga fino al 23 dicembre lo screening volontario, ma non si capisce perché non vengano aumentati i test salivari, le raccolte campione negli alunni, coinvolgendo le famiglie e quantificando la circolazione del virus anche nelle persone asintomatiche. Con poche mosse semplici, per rendere più automatica questa attività di sorveglianza, lo screening è in grado di evidenziare i positivi ma sembra interessare ben poco.
Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
Continua a leggere
Riduci
Ursula von der Leyen (Ansa)
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
Continua a leggere
Riduci
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 9 dicembre con Carlo Cambi