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2021-11-09
Perché è una pessima idea imporre il vaccino ai bimbi
iStock
Mentre i media ignorano gli studi internazionali e creano il panico sugli effetti del long Covid nei più piccoli, molti scienziati provano a fermare la profilassi dei bambini. «Se non sono malati non è necessaria», avverte Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani. «Servono altri dati sui rischi-benefici, e non bisogna sottovalutare le reazioni», conferma Sergio Bernasconi, direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. Non solo, secondo Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina della Statale di Milano, «l'infezione da Covid nei bimbi dev'essere trattata come le altre». Eppure la corsa al vaccino continua. «Se un bambino ha già delle altre patologie gravi, conviene vaccinarlo, per proteggerlo da un virus che, associato ad altre malattie, può rivelarsi grave. Se invece è sano, non vedo la necessità di vaccinarlo», dichiarava ieri Francesco Vaia, direttore dell'istituto Spallanzani di Roma. Su Libero il professore precisava: «Il vaccino non va fatto ai bambini per impedirgli di contagiare gli adulti, ma solo se sono fragili di loro».
E meno male che qualche addetto ai lavori ha il coraggio di affermare verità sacrosante, mentre i più sostengono le vaccinazioni agli under 11 come una necessità impellente. «Per il Covid, non ci sono ancora dati chiari su rischi e benefici nei bambini», dichiarò a settembre sulla Verità Sergio Bernasconi, già direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. «Attenzione a sottovalutare reazioni avverse nei giovani», segnalava il professore, tra i sottoscrittori a luglio dell'appello per una moratoria alla vaccinazione anti Covid-19 ai minori, invitando a «vaccinare bambini e adolescenti immunodepressi o con patologie a rischio e non in modo generalizzato». Bernasconi smontava l'allarmismo diffuso, perché se un bimbo prende il Covid in maniera lieve, come accade nella stragrande maggioranza dei casi, «sviluppa un'immunità naturale, migliore, più potente e duratura come abbiamo visto per altre forme virali», rimarcava. «Quando risulta positivo, la sua infettività dura meno di una settimana quindi non è un untore, come lo si vuol far passare. Anche un vaccinato può essere infettato e infettare. Ma poi, se accettiamo l'impostazione che dobbiamo convivere con il virus, può essere utile una circolazione del Covid tra i minori». Affermazioni accolte con un sospiro di sollievo da milioni di genitori, però ignorate da quei pochi che hanno in mano la salute nazionale e decidono ignorando ogni contraddittorio, per quanto scientificamente fondato.
Qualche giorno prima anche Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale di Milano, invitava a trattare l'infezione da Covid «come altre che colpiscono i bimbi. Se si infettano è in forma leggera, a bassa carica virale. Non solo, mantenendo in circolazione il virus aiutano a raggiungere l'auspicata immunità di gregge, a rendere endemico il Covid. Quindi teniamo a casa solo il bimbo sintomatico, che sta male e torniamo alla normalità pre pandemia», sosteneva da queste pagine l'esperto. In base alla sua esperienza affermava che i bimbi che finiscono in ospedale sono «molto pochi» e «se capita quasi sempre è perché erano sì positivi al tampone, ma soffrivano di altre malattie croniche». Il suo appello fu forte e chiaro: «Vaccinare i bambini non è la priorità, tranne che per le categorie a rischio. Torniamo alla normalità, per i più piccoli è un imperativo urgente». Zuccotti non è stato ascoltato, e come lui altre poche voci fuori dal coro finiscono ignorate.
Eppure c'era un altro assioma, racchiuso nelle parole dell'esperto, che recenti studi hanno confermato. «Ricordiamoci che l'immunità da vaccino tende a diminuire, quindi mantenendo la circolazione virale tra i piccoli si può aiutare a mantenere viva la memoria immunologica anche negli adulti», dichiarò alla Verità il preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale. Dopo pochi mesi dalla seconda dose cala la risposta immunitaria che andrebbe potenziata con un terzo richiamo, ma sicuramente non sarà finita lì. Nello studio effettuato dallo statunitense Cold spring harbor laboratory e pubblicato in inglese sul portale bioRxiv, non ancora sottoposto a revisione paritaria, si legge che i vaccinati naïve, senza aver contratto il Covid, avrebbero un rischio di infezioni con la variante Delta maggiore di 13,06 volte rispetto a coloro che hanno contratto l'infezione. «Erano anche a maggior rischio di ricoveri correlati al Covid-19», affermano i ricercatori, sostenendo che l'immunità naturale conferisce una protezione più duratura e forte contro l'infezione, la malattia sintomatica e l'ospedalizzazione, rispetto all'immunità indotta dal vaccino a due dosi di Pfizer. Quanto ai sintomi della condizione post Covid, mentre molto esperti ridimensionano il rischio nei minori, in Italia si accentua pure l'aspetto complicanze. «Un bambino su sette, tra quelli che si ammalano, sviluppa il long Covid 15 settimane dopo la guarigione», ha dichiarato Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Humanitas di Rozzano. «Pensiamo si possa prevenire con il vaccino», è stata la sua conclusione a Che tempo che fa su Rai 3. Pensiamo? Si sta navigando a vista sulla pelle delle creature?
«La maggior parte dei bambini e degli adolescenti che risultano positivi al Covid-19 hanno sintomi lievi o addirittura assenti», sostiene Peter Rowe, professore di pediatria presso la Johns Hopkins university school of medicine. Sintomi cronici quali affaticamento, difficoltà a concentrarsi, dolori muscolari o articolari sono ancora in fase di studio. «Probabilmente ci vorranno alcuni anni prima di saperne a sufficienza», dichiara su Healthychildren.org dell'Accademia americana di pediatria l'esperto, che è anche direttore della Chronic fatigue clinic presso il Johns Hopkins children's center.
Un grande studio epidemiologico condotto nel Regno Unito su quasi 260.000 giovanissimi tra i 5 e i 17 anni indicava una durata media del Covid di cinque giorni nei bimbi più piccoli, con una media di tre sintomi nella prima settimana, quali affaticamento, cefalea, mal di gola, raramente irritabilità. «Una piccola percentuale di bambini ha una durata prolungata della malattia e sintomi persistenti», riportava la pubblicazione su The Lancet. In Italia, invece, si preferisce terrorizzare sugli effetti del Covid sui bambini.
Svanito nel nulla il tracciamento nelle scuole con i test salivari
Che fine hanno fatto i test salivari previsti per tutto l'anno scolastico (età 6-14), con cadenza quindicinale? Il piano nazionale di monitoraggio della circolazione del Covid in scuole «sentinella», varato lo scorso settembre, prevedeva l'individuazione di tre, quattro istituti per provincia con rotazione delle classi da sottoporre a test, offerti gratuitamente ad alunni di primarie e secondarie di primo grado.
Una media di 110.000 studenti su base volontaria, ogni mese, per un'azione definita di «sanità pubblica». La campagna di testing voluta dai ministeri della Salute e dell'Istruzione, assieme all'Iss e alla struttura del commissario per l'emergenza, «potrebbe costituire uno strumento ulteriore per ridurre la probabilità di diffusione dell'infezione sia nelle scuole che nella comunità (ad esempio famiglie) e limitare i conseguenti provvedimenti di sanità pubblica (isolamenti, quarantene, didattica a distanza, eccetera) che ne potrebbero scaturire», si leggeva nel documento.
Nei primi due mesi la raccolta dei campioni doveva avvenire a scuola, con personale sanitario individuato dalle Asl o dalla Difesa, mentre in un secondo momento si sarebbe proceduto «all'auto raccolta al mattino appena svegli», per venire incontro alle esigenze dei bambini che devono essere a digiuno e non aver lavato i denti prima di fare i test. Campioni da portare poi a scuola «e immessi in un apposito contenitore gestito da un referente scolastico». Tutto bello, ma rimane fantascienza. «La parte del tracciamento negli istituti non ha mai funzionato, è l'anello debole della catena, probabilmente non c'è il personale sufficiente per farla e anche le “classi sentinella" dovrebbero essere molte di più», ha dichiarato Rino Di Meglio, riconfermato coordinatore della Gilda degli insegnanti.
Quando funziona, il monitoraggio offre dati confortanti, «un tasso di positività molto basso, intorno allo 0,4%», ha detto l'assessore regionale alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. Perché allora non aumentare la distribuzione dei test salivari? «Finora non c'è stato un solo positivo. Un bel segnale», dichiarava a fine ottobre Emilio Paolo Abbritti, coordinatore del monitoraggio nelle scuole della Usl Umbria 1. «Sono tutti negativi gli 844 tamponi salivari fatti nelle scuole sentinella del catanese. Il risultato ci rassicura, commentava negli stessi giorni il commissario locale per l'emergenza Covid, Pino Liberti».
In Alto Adige, il presidente, Arno Kompatscher, ha firmato l'ordinanza che prolunga fino al 23 dicembre lo screening volontario, ma non si capisce perché non vengano aumentati i test salivari, le raccolte campione negli alunni, coinvolgendo le famiglie e quantificando la circolazione del virus anche nelle persone asintomatiche. Con poche mosse semplici, per rendere più automatica questa attività di sorveglianza, lo screening è in grado di evidenziare i positivi ma sembra interessare ben poco.
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Riduci
«Se sono sani la profilassi non è necessaria», avverte Francesco Vaia, direttore dell'istituto Spallanzani di Roma. «Servono altri dati sui rischi e i benefici nei più piccoli», confermano Sergio Bernasconi e Gian Vincenzo Zuccotti. E alcuni studi internazionali smentiscono l'allarmismo italiano sugli effetti del long Covid nei minorenni.La campagna voluta dal governo avrebbe dovuto coinvolgere 110.000 studenti al mese.Lo speciale contiene due articoli.Mentre i media ignorano gli studi internazionali e creano il panico sugli effetti del long Covid nei più piccoli, molti scienziati provano a fermare la profilassi dei bambini. «Se non sono malati non è necessaria», avverte Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani. «Servono altri dati sui rischi-benefici, e non bisogna sottovalutare le reazioni», conferma Sergio Bernasconi, direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. Non solo, secondo Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina della Statale di Milano, «l'infezione da Covid nei bimbi dev'essere trattata come le altre». Eppure la corsa al vaccino continua. «Se un bambino ha già delle altre patologie gravi, conviene vaccinarlo, per proteggerlo da un virus che, associato ad altre malattie, può rivelarsi grave. Se invece è sano, non vedo la necessità di vaccinarlo», dichiarava ieri Francesco Vaia, direttore dell'istituto Spallanzani di Roma. Su Libero il professore precisava: «Il vaccino non va fatto ai bambini per impedirgli di contagiare gli adulti, ma solo se sono fragili di loro». E meno male che qualche addetto ai lavori ha il coraggio di affermare verità sacrosante, mentre i più sostengono le vaccinazioni agli under 11 come una necessità impellente. «Per il Covid, non ci sono ancora dati chiari su rischi e benefici nei bambini», dichiarò a settembre sulla Verità Sergio Bernasconi, già direttore della clinica pediatrica dell'università di Modena e poi di Parma. «Attenzione a sottovalutare reazioni avverse nei giovani», segnalava il professore, tra i sottoscrittori a luglio dell'appello per una moratoria alla vaccinazione anti Covid-19 ai minori, invitando a «vaccinare bambini e adolescenti immunodepressi o con patologie a rischio e non in modo generalizzato». Bernasconi smontava l'allarmismo diffuso, perché se un bimbo prende il Covid in maniera lieve, come accade nella stragrande maggioranza dei casi, «sviluppa un'immunità naturale, migliore, più potente e duratura come abbiamo visto per altre forme virali», rimarcava. «Quando risulta positivo, la sua infettività dura meno di una settimana quindi non è un untore, come lo si vuol far passare. Anche un vaccinato può essere infettato e infettare. Ma poi, se accettiamo l'impostazione che dobbiamo convivere con il virus, può essere utile una circolazione del Covid tra i minori». Affermazioni accolte con un sospiro di sollievo da milioni di genitori, però ignorate da quei pochi che hanno in mano la salute nazionale e decidono ignorando ogni contraddittorio, per quanto scientificamente fondato. Qualche giorno prima anche Gian Vincenzo Zuccotti, preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale di Milano, invitava a trattare l'infezione da Covid «come altre che colpiscono i bimbi. Se si infettano è in forma leggera, a bassa carica virale. Non solo, mantenendo in circolazione il virus aiutano a raggiungere l'auspicata immunità di gregge, a rendere endemico il Covid. Quindi teniamo a casa solo il bimbo sintomatico, che sta male e torniamo alla normalità pre pandemia», sosteneva da queste pagine l'esperto. In base alla sua esperienza affermava che i bimbi che finiscono in ospedale sono «molto pochi» e «se capita quasi sempre è perché erano sì positivi al tampone, ma soffrivano di altre malattie croniche». Il suo appello fu forte e chiaro: «Vaccinare i bambini non è la priorità, tranne che per le categorie a rischio. Torniamo alla normalità, per i più piccoli è un imperativo urgente». Zuccotti non è stato ascoltato, e come lui altre poche voci fuori dal coro finiscono ignorate. Eppure c'era un altro assioma, racchiuso nelle parole dell'esperto, che recenti studi hanno confermato. «Ricordiamoci che l'immunità da vaccino tende a diminuire, quindi mantenendo la circolazione virale tra i piccoli si può aiutare a mantenere viva la memoria immunologica anche negli adulti», dichiarò alla Verità il preside della facoltà di medicina e chirurgia della Statale. Dopo pochi mesi dalla seconda dose cala la risposta immunitaria che andrebbe potenziata con un terzo richiamo, ma sicuramente non sarà finita lì. Nello studio effettuato dallo statunitense Cold spring harbor laboratory e pubblicato in inglese sul portale bioRxiv, non ancora sottoposto a revisione paritaria, si legge che i vaccinati naïve, senza aver contratto il Covid, avrebbero un rischio di infezioni con la variante Delta maggiore di 13,06 volte rispetto a coloro che hanno contratto l'infezione. «Erano anche a maggior rischio di ricoveri correlati al Covid-19», affermano i ricercatori, sostenendo che l'immunità naturale conferisce una protezione più duratura e forte contro l'infezione, la malattia sintomatica e l'ospedalizzazione, rispetto all'immunità indotta dal vaccino a due dosi di Pfizer. Quanto ai sintomi della condizione post Covid, mentre molto esperti ridimensionano il rischio nei minori, in Italia si accentua pure l'aspetto complicanze. «Un bambino su sette, tra quelli che si ammalano, sviluppa il long Covid 15 settimane dopo la guarigione», ha dichiarato Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Humanitas di Rozzano. «Pensiamo si possa prevenire con il vaccino», è stata la sua conclusione a Che tempo che fa su Rai 3. Pensiamo? Si sta navigando a vista sulla pelle delle creature? «La maggior parte dei bambini e degli adolescenti che risultano positivi al Covid-19 hanno sintomi lievi o addirittura assenti», sostiene Peter Rowe, professore di pediatria presso la Johns Hopkins university school of medicine. Sintomi cronici quali affaticamento, difficoltà a concentrarsi, dolori muscolari o articolari sono ancora in fase di studio. «Probabilmente ci vorranno alcuni anni prima di saperne a sufficienza», dichiara su Healthychildren.org dell'Accademia americana di pediatria l'esperto, che è anche direttore della Chronic fatigue clinic presso il Johns Hopkins children's center. Un grande studio epidemiologico condotto nel Regno Unito su quasi 260.000 giovanissimi tra i 5 e i 17 anni indicava una durata media del Covid di cinque giorni nei bimbi più piccoli, con una media di tre sintomi nella prima settimana, quali affaticamento, cefalea, mal di gola, raramente irritabilità. «Una piccola percentuale di bambini ha una durata prolungata della malattia e sintomi persistenti», riportava la pubblicazione su The Lancet. 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Una media di 110.000 studenti su base volontaria, ogni mese, per un'azione definita di «sanità pubblica». La campagna di testing voluta dai ministeri della Salute e dell'Istruzione, assieme all'Iss e alla struttura del commissario per l'emergenza, «potrebbe costituire uno strumento ulteriore per ridurre la probabilità di diffusione dell'infezione sia nelle scuole che nella comunità (ad esempio famiglie) e limitare i conseguenti provvedimenti di sanità pubblica (isolamenti, quarantene, didattica a distanza, eccetera) che ne potrebbero scaturire», si leggeva nel documento. Nei primi due mesi la raccolta dei campioni doveva avvenire a scuola, con personale sanitario individuato dalle Asl o dalla Difesa, mentre in un secondo momento si sarebbe proceduto «all'auto raccolta al mattino appena svegli», per venire incontro alle esigenze dei bambini che devono essere a digiuno e non aver lavato i denti prima di fare i test. Campioni da portare poi a scuola «e immessi in un apposito contenitore gestito da un referente scolastico». Tutto bello, ma rimane fantascienza. «La parte del tracciamento negli istituti non ha mai funzionato, è l'anello debole della catena, probabilmente non c'è il personale sufficiente per farla e anche le “classi sentinella" dovrebbero essere molte di più», ha dichiarato Rino Di Meglio, riconfermato coordinatore della Gilda degli insegnanti. Quando funziona, il monitoraggio offre dati confortanti, «un tasso di positività molto basso, intorno allo 0,4%», ha detto l'assessore regionale alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. Perché allora non aumentare la distribuzione dei test salivari? «Finora non c'è stato un solo positivo. Un bel segnale», dichiarava a fine ottobre Emilio Paolo Abbritti, coordinatore del monitoraggio nelle scuole della Usl Umbria 1. «Sono tutti negativi gli 844 tamponi salivari fatti nelle scuole sentinella del catanese. Il risultato ci rassicura, commentava negli stessi giorni il commissario locale per l'emergenza Covid, Pino Liberti». In Alto Adige, il presidente, Arno Kompatscher, ha firmato l'ordinanza che prolunga fino al 23 dicembre lo screening volontario, ma non si capisce perché non vengano aumentati i test salivari, le raccolte campione negli alunni, coinvolgendo le famiglie e quantificando la circolazione del virus anche nelle persone asintomatiche. Con poche mosse semplici, per rendere più automatica questa attività di sorveglianza, lo screening è in grado di evidenziare i positivi ma sembra interessare ben poco.
Luis «Toto» Caputo (Getty Images)
Caputo, classe 1965, cresciuto al Collegio Cardenal Newman e laureato in Economia all’Università di Buenos Aires, è il fulcro del sistema Milei. Dopo una lunga carriera tra Jp Morgan e Deutsche Bank, dov’è stato uno dei trader di riferimento per l’America Latina, entra in politica con Mauricio Macri nel 2015 come segretario e poi ministro delle Finanze, gestendo il rientro dell’Argentina nei mercati con il compromesso sui fondi avvoltoio e il celebre bond centenario (un’obbligazione da 45 miliardi di dollari con scadenza a 100 anni e cedola del 7,125%). Nell’esperienza di governo con Macri, il debito privato argentino è salito dal 16% al 38% del Pil.
Con Milei, torna al centro della scena come ministro dell’Economia dal dicembre 2023. Subito attua tagli feroci a sussidi e spesa, operazioni che riportano l’Argentina al surplus fiscale dopo anni di disavanzi.
Accanto a lui, nel ruolo di vice, c’è José Luis Daza, nato a Buenos Aires da diplomatici cileni ma formato tra Cile, Stati Uniti e i grandi desk di Wall Street. Economista dell’Universidad de Chile, con un dottorato all’Università di Georgetown, rappresentante del Banco Central de Chile a Tokyo, poi capo ricerca mercati emergenti a Jp Morgan e Deutsche Bank. Daza ha fondato l’hedge fund Qfr Capital ed è stato consigliere del candidato conservatore cileno José Antonio Kast. Dal 2024 è segretario alla politica economica e viceministro di Caputo, con il compito chiave di tenere i rapporti con il Fondo monetario internazionale e con gli investitori di tutto il mondo.
Pablo Quirno è invece il ponte tra l’universo finanziario e la diplomazia. Discendente di una storica famiglia conservatrice argentina, studia Economia alla University of Pennsylvania (Wharton) e costruisce una carriera in Jp Morgan come direttore per l’America Latina e membro del comitato di gestione regionale, seguendo privatizzazioni e ristrutturazioni di debito in mezzo mondo. Nel 2016 entra nel governo Macri come coordinatore della segreteria delle Finanze e capo di gabinetto di Caputo, passando anche dal board della Banca centrale argentina. Con Milei è prima segretario alle Finanze, poi (dopo le dimissioni di Gerardo Werthein) promosso ministro degli Esteri nell’ottobre 2025, simbolo dell’allineamento sempre più netto con gli Stati Uniti.
Infine, Santiago Bausili, 1974, anche lui formatosi al Collegio Cardenal Newman e poi all’Università di San Andrés. Per oltre undici anni in Jp Morgan e quasi nove in Deutsche Bank, si specializza in debito sovrano latinoamericano e derivati, spesso in tandem con Caputo. Nel 2016 passa al settore pubblico come sottosegretario e poi segretario alle Finanze nel governo Macri. Nel dicembre 2023 Milei lo nomina presidente della Banca centrale, dietro raccomandazione di Caputo.
La strategia del team Caputo è quella della disciplina fiscale a tutti i costi. L’obiettivo immediato è stato frenare l’inflazione, crollata da oltre il 200% all’inizio del mandato a circa il 30%. Ma il prezzo è la macelleria sociale. Pensioni, salari pubblici e prestazioni sociali non sono state adeguate all’inflazione e la disoccupazione è aumentata.
L’altro elemento critico della strategia di Caputo è la gestione della valuta argentina. Nonostante Milei avesse un tempo definito il peso «escremento», la sua amministrazione ha adottato una politica di sostegno alla valuta, mantenendo tassi di interesse elevati e controlli stretti su cambi e capitali. Questa formula, già tentata dai predecessori senza successo, ha lo scopo di stabilizzare l’inflazione in un mercato dei cambi volatile e ristretto.
Questa politica monetaria rigida ha avuto un impatto tossico sul sistema bancario. I tassi di interesse elevati hanno spinto il tasso di morosità sui prestiti ai massimi da almeno 15 anni, costringendo le banche a ridurre drasticamente l’erogazione di credito.
Il grande rischio per Caputo e la sua squadra di ex- trader è che l’accumulo di riserve in valuta forte si sta rivelando troppo impegnativo (secondo il Fmi), nonostante gli sforzi. La sopravvivenza politica di Milei, e l’efficacia dell’esperimento di Caputo, dipendono dalla capacità di tradurre l’austerità e il sostegno finanziario di Washington in prosperità per la maggioranza. Finora, l’esperimento è basato su un precario equilibrio tra disciplina finanziaria draconiana e un sostegno esterno senza precedenti, una miscela esplosiva che sta mettendo a dura prova il tessuto sociale argentino.
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Riduci
Javier Milei (Ansa)
Milei, l’economista libertario dalla chioma selvatica, ha ottenuto una vittoria sorprendente nelle elezioni di medio termine a fine ottobre, un risultato che gli ha conferito un mandato inequivocabile per il suo programma di terapia shock. Il suo partito, La Libertad Avanza (Lla), ha conquistato circa il 41% dei voti a livello nazionale, doppiando la sua rappresentanza al Congresso, contro il 32% del fronte peronista. Questo risultato ha trasformato il suo gruppo nel più numeroso della Camera bassa, garantendogli la minoranza necessaria per preservare il potere di veto e difendere i suoi decreti presidenziali.
Il trionfo del partito di Milei è stato un inatteso ribaltamento del paesaggio politico. Il dato più sorprendente è che le periferie povere di Buenos Aires, da sempre la roccaforte del movimento peronista, hanno compiuto una svolta storica a sfavore del partito erede del peronismo storico, Fuerza Patria di Cristina Kirchner. I peronisti hanno governato l’Argentina per vent’anni dal 2003, salvo la pausa di quattro anni di Mauricio Macri tra il 2015 e il 2019.
Mentre gli elettori della classe media si sono mobilitati per sostenere la motosega di Milei, la chiave della sconfitta peronista è stata l’astensione o il voto contrario degli elettori più poveri, stanchi di un’instabilità economica permanente cui le fiacche politiche dei passati presidenti li condannavano. Il mandato presidenziale di Alberto Fernández, considerato quasi all’unanimità come il peggior presidente della giovane democrazia argentina, ha significato la fine della pazienza in gran parte dell’elettorato.
Il pilastro della rivoluzione di Milei è l’austerità feroce e senza compromessi. Fin dall’inizio del suo mandato, il presidente ha avviato riforme drastiche, riuscendo a trasformare un deficit fiscale primario in un surplus. Ha tagliato l’occupazione pubblica di oltre il 10%, ha tolto protezioni sociali e rendite diffuse.
Il risultato di questa cura drastica è stato l’abbattimento dell’iperinflazione, che è crollata da oltre il 200% all’inizio del suo mandato a circa il 30% al momento delle elezioni. I mercati internazionali hanno premiato questa determinazione, con il calo del rischio sovrano e un rally nei titoli e nelle obbligazioni subito dopo il voto. Tuttavia, la terapia shock ha avuto un costo sociale elevato, con Milei stesso che ha ammesso che l’austerità aveva portato alla chiusura di fabbriche e all’aumento della disoccupazione.
La scalata di Milei non sarebbe stata possibile senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump ha scommesso pesantemente sul successo del presidente, offrendo un salvataggio finanziario senza precedenti: un accordo di swap di valuta da 20 miliardi di dollari e la promessa di raccogliere altri 20 miliardi di dollari da banche private e fondi sovrani. Questo sostegno finanziario è stato esplicitamente condizionato al successo di Milei nelle elezioni di medio termine, confermando che l’Argentina è ora un alleato ideologico chiave di Washington, fondamentale per contrastare l’influenza cinese in America Latina.
La squadra economica di Milei, soprannominata i «ragazzi di Jp Morgan» per la forte presenza di ex trader di Wall Street come il ministro dell’Economia Luis Caputo, è ora impegnata in un atto di equilibrismo, cercando di stabilizzare il traballante peso e ricondurre l’Argentina sui mercati internazionali.
Milei sta capitalizzando il suo mandato non solo per aggiustare i conti, ma per smantellare lo Stato in senso profondo. Ha introdotto il regime di incentivi per i grandi investimenti (Rigi), che garantisce 30 anni di stabilità fiscale, disponibilità di valuta estera e protezioni legali agli investitori stranieri per progetti superiori a 200 milioni di dollari. Questa mossa è strategica per trasformare l’Argentina in una potenza mineraria, sfruttando le sue immense riserve inesplorate di rame e litio.
L’Argentina, che condivide la stessa catena montuosa del Cile, esportatore per 20 miliardi di dollari di rame all’anno, non esporta un solo grammo di questo metallo critico. L’obiettivo di Milei è attrarre circa 26 miliardi di dollari in investimenti per i progetti di rame, promettendo che l’Argentina «avrà dollari a sufficienza». L’Argentina, inoltre, detiene riserve significative nel Triangolo del litio ed è il quarto esportatore mondiale di questo minerale.
A riprova della sua visione radicale, l’amministrazione Milei sta rimodellando la struttura dello Stato, avvicinandola al modello di sicurezza nordamericano. La Direzione nazionale delle migrazioni è stata trasferita dal ministero dell’Interno a quello della Sicurezza. Poi, per la prima volta dal ritorno alla democrazia nel 1983, Milei ha nominato un generale, Carlos Presti, a capo del ministero della Difesa, con l’intento dichiarato di «porre fine alla demonizzazione dei nostri ufficiali, sottufficiali e soldati». Infine, il presidente sta spingendo per la privatizzazione e la modernizzazione dell’obsoleta rete ferroviaria per potenziare le esportazioni di cereali, rame e litio, aumentando le esportazioni di 100 miliardi di dollari in sette anni.
Nonostante il chiaro allineamento con Washington, Milei è costretto a un difficile pragmatismo verso Pechino, principale cliente per la soia argentina. Nonostante avesse liquidato la Cina come partner «comunista» in campagna elettorale, Milei ha dovuto riconoscerla come un «partner commerciale molto interessante» dopo la conferma di uno swap valutario multimiliardario da parte di Pechino.
Il destino politico di Milei dipende dalla sua capacità di tradurre le riforme orientate al mercato in prosperità tangibile per la maggioranza, specialmente in un momento in cui gli argentini sono preoccupati per la perdita di posti di lavoro e il calo del reddito. Le politiche deflazioniste attuate per compiacere i mercati e frenare l’inflazione hanno un costo sociale alto, quello della disoccupazione e del calo dei consumi. Milei deve quindi trovare sempre nuovi obiettivi e nuovi capri espiatori per evitare che la questione sociale esploda e faccia dell’Argentina una polveriera.
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Riduci
Ansa
Secondo le prime ricostruzioni almeno due uomini vestiti di nero - mentre le autorità non escludono la presenza di un terzo complice - hanno aperto il fuoco a breve distanza dalla spiaggia, scatenando il panico tra la folla. Diversi testimoni, citati dai media locali, hanno raccontato di colpi esplosi senza sosta e di persone in fuga nel tentativo di mettersi in salvo. L’emittente pubblica Abc ha reso noto il nome di uno dei due attentatori, senza precisare se sia deceduto durante l’assalto. Si tratta di Naveed Akram, cittadino pakistano di 25 anni residente a Sydney, nel quartiere di Bonnyrigg; nella sua auto sono stati ritrovate altre armi e esplosivi, segno che il disegno era molto più ampio. Il secondo autore dell’attacco terroristico è stato identificato come Khaled al Nablusi, cittadino libanese di origine palestinese, affiliato all’Isis, che tuttavia non ha rivendicato l’attacco. Le autorità hanno confermato che almeno uno degli aggressori era noto ai servizi di sicurezza. A riferirlo è stato il direttore dell’Australian security intelligence organisation (Asio), Mike Burgess: «Uno di questi individui ci era noto, ma non con la prospettiva di rappresentare una minaccia immediata. Dobbiamo capire cos’è successo qui».
Resta aperto il nodo delle misure di sicurezza: l’assenza di un dispositivo rafforzato appare difficilmente spiegabile, considerata l’ondata di antisemitismo e le minacce contro la comunità ebraica che da mesi attraversano l’Australia. Invece di smantellare le reti estremiste, il governo ha permesso ai centri islamici legati all’ideologia radicale, tra cui l’Istituto Al Murad, di continuare a operare. Queste istituzioni hanno contribuito a radicalizzare i giovani e persino i bambini, creando le condizioni che hanno prodotto terroristi come Naveed Akram. Secondo quanto emerso, i due uomini armati sono arrivati indisturbati nei pressi dell’area dell’evento e hanno sparato per circa nove minuti utilizzando fucili a pompa Remington 870. Prima dell’intervento della polizia Hamad el Ahmed, arabo-australiano e gestore di un chiosco sulla spiaggia, ha affrontato a mani nude uno degli attentatori riuscendo a neutralizzarlo, salvando così altre vite umane. Colpito da due proiettili, è rimasto ferito e dovrà essere sottoposto a un intervento chirurgico.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato l’Australia di aver alimentato il clima di odio, affermando che il Paese «ha gettato benzina sul fuoco dell’antisemitismo» prima dell’attacco di Sydney. Netanyahu ha ricordato di aver inviato ad agosto una lettera al primo ministro Anthony Albanese. Come riportato dal Times of Israel, il premier israeliano ha sostenuto che le politiche di Albanese, incluso il riconoscimento di uno Stato palestinese, incoraggiano «l’odio per gli ebrei che ora infesta le vostre strade. L’antisemitismo è un cancro. Si diffonde quando i leader rimangono in silenzio. Dovete sostituire la debolezza con l’azione». Il presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, Yaakov Hagoel, ha collegato la strage a una più ampia escalation globale: «La serie di aggressioni antisemite che si registrano in tutto il mondo è scioccante e richiama alla memoria i periodi più bui della storia». «Dal 7 ottobre è in corso una guerra che non colpisce soltanto lo Stato di Israele, ma ogni ebreo ovunque si trovi. Questo è diventato l’ottavo fronte di quel conflitto». Resta ora da chiarire se l’attacco sia opera di due «lupi solitari», ipotesi improbabile, o se vi sia una regia esterna.
Israele ha avviato consultazioni strategiche e di sicurezza per individuare eventuali mandanti. Negli ultimi mesi, le autorità israeliane avevano lanciato avvertimenti sulla possibile preparazione, da parte dell’Iran, di infrastrutture terroristiche destinate a colpire comunità ebraiche in Australia. Secondo le valutazioni israeliane, il principale sospettato resta Teheran, con possibili collegamenti a organizzazioni come Hezbollah, Hamas e Lashkar-e-Taiba, gruppi che negli anni hanno dimostrato capacità operative anche al di fuori del Medio Oriente; così come non va scartato l’Isis. L’ipotesi prevalente, però, è che l’Iran abbia fornito supporto logistico, finanziario o di addestramento, sfruttando reti già esistenti e canali di radicalizzazione attivi sui social media. Se dovesse emergere una responsabilità diretta di Teheran, la risposta di Israele sarà inevitabile, in linea con la dottrina di deterrenza adottata negli ultimi anni. Tempi, luoghi e modalità restano da definire ma potremmo scoprilo a breve.
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Riduci
Erika Kirk (Ansa)
Le parole che ha pronunciato e sta pronunciando in televisione in queste settimane sono le migliore e più elevata risposta non solo a coloro che uccidono in nome di un Dio o di una idea, ma pure a tutti quelli che in questi mesi hanno vilipeso la memoria di Charlie, ne hanno mistificato il pensiero e le frasi.
Parlando alla Cbs, Erika ha ribadito che «l’unico modo per combattere il male, proprio come ha fatto Charlie, è attraverso il dialogo e non avendo paura di praticarlo». Quando le hanno fatto notare che Donald Trump aveva chiesto punizioni feroci per i democratici, Erika ha risposto con determinazione: «Non sarò mai d’accordo con la violenza politica». «Mio marito ne è vittima. Io ne sono vittima».
Non c’è spazio per l’odio nel cuore di Erika Kirk, c’è piuttosto il rifiuto per ogni forma di discriminazione vera, a partire dall’antisemitismo. Certo, Charlie aveva criticato la politica e gli attacchi di Israele su Gaza, ma «diceva sempre molto chiaramente che l’odio verso gli ebrei è frutto di un cervello marcio». Erika respinge dunque l’odio contro gli ebrei in quanto tali, e pure le teorie del complotto, comprese quelle sull’omicidio di suo marito. Anche per questo invita i genitori a limitare il tempo che i figli trascorrono sul Web. «Volete che vostro figlio diventi un leader di pensiero o un assassino?», domanda agli ascoltatori.
Erika risponde pure a tutti quelli che hanno giustificato più o meno direttamente l’uccisione di Charlie (e come sappiamo ce ne sono molti anche dalle nostre parti). «Vuoi guardare in alta risoluzione il video dell’omicidio di mio marito, ridere e dire che se lo merita? C’è qualcosa di molto malato nella tua anima, e prego che Dio ti salvi», dice. Quindi si rivolge ai vari commentatori e opinionisti che hanno tentato di dipingere suo marito come un odiatore, pescando qui e là fra i suoi interventi per suggerire che fosse intollerante, razzista, omofobo. «Mio marito non si lascia ridurre a due frasi...», spiega Erika. «No. Era un leader di pensiero, ed era un uomo brillante. Quindi va bene se si vogliono togliere le parole dalla sua bocca o decontestualizzarle senza dare la giusta prospettiva, ma è proprio questo il problema». Già: l’astio nei confronti di Charlie si è manifestato anche dopo la sua morte proprio attraverso la decontestualizzazione e manipolazione delle sue parole.
Hanno avuto il fegato, pure in Italia, di contestare il suo funerale, ovviamente trascurando ciò che Erika disse in quella occasione, la sua straordinaria lezione di umanità e amore. Alla Cbs ha raccontato come decise di perdonare il killer del marito. Prima di prendere il microfono e parlare al mondo si chiese: «Mi prenderò quel momento per dire: “Radunate le truppe, bruciate la città, marciate per le strade”? Oppure prenderò quel momento e farò qualcosa di ancora più grande, più potente, e dirò: “È una rinascita. E lascerò che si scateni, e lascerò che il Signore la usi in modi che nessun altro avrebbe mai potuto immaginare”?». Sappiamo che cosa abbia scelto Erika: ha respinto l’odio e scelto il perdono. E lo sceglie anche oggi: riceve ancora tonnellate di minacce di morte, ma non viene meno al suo impegno. Perché sa che solo così si può rispondere alla violenza. Mentre tutto attorno si consumano stragi, si sparge odio politico e si censurano le idee sgradite, la via di Erika resta l’unica percorribile: la più difficile, e la più forte.
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