2022-01-27
Persi oltre 190.000 mesi di lavoro. Tanto ci è costato il lockdown di fatto
L’Inail comunica i dati dell’incidenza del virus sul luogo d’impiego. Il numero di morti e infortuni, di per sé, non giustifica le draconiane misure prese dal governo. Che però hanno rovinato economicamente il Paese.Verrebbe da chiedere al ministro della Salute Roberto Speranza, ma anche al presidente del Consiglio Mario Draghi, spiegateci questa: avete posto l’obbligo vaccinale per quasi tutti i lavoratori e si scopre che i morti per Covid contratto sui luoghi di lavoro sono pari allo 0,6% di tutte le vittime che il virus cinese ha fatto in Italia. Avete messo l’Italia in lockdown mascherato e si scopre che le infezioni contratte al lavoro sono al 31 dicembre scorso pari al 3,1% di tutti i contagi. Si è fatto il monumento al lavoro da casa svuotando le città e facendo fallire bar, ristoranti, negozi, artigiani, tassisti e i contagiati sono meno di 200.000. Infine: misure draconiane per tutti, ma i soli tutelati sono i lavoratori dipendenti. Forse c’è qualcosa che non torna. Anche perché il prezzo che l’economia ha pagato è altissimo; si sono persi per Covid 191.046 mesi di lavoro con doppio danno: rimborsi e mancata produttività. Quando però si è trattato di imporre - e l’obbligo scatterà dal 1 febbraio - agli over 50 il super green pass rafforzato per mantenersi uno stipendio è stato spiegato che era indispensabile per la salute del lavoratore. I dati diffusi ieri dall’Inail (l’Istituto che si occupa degli infortuni sul lavoro) però smentiscono questa affermazione e anche il presidente della Confindustria Carlo Bonomi - preoccupato dall’allontanare dalle imprese qualsiasi responsabilità - il 28 dicembre scorso ha sentenziato: «Credo che il governo sia ancora in tempo per varare l’obbligo vaccinale. Ne abbiamo perso tanto. Troppo. Si rischia di frenare la ripresa, di lasciare spazio alla pandemia. Capisco che è difficile per qualsiasi democrazia spiegare la necessità dell’obbligo vaccinale, ma penso si debba fare. Ora o mai più, ripeto». Leggiamo i numeri e forse Bonomi si convincerà, come peraltro ha ben spiegato il suo Centro studi che ha rivisto al ribasso le stime di aumento del Pil ponendo un dato negativo dello 0,8% per il primo trimestre di quest’anno, che a frenare la ripresa sono l’inflazione, le bollette energetiche e il lockdown di fatto in cui il Governo tiene il paese. I morti per Covid contratto sul lavoro dall’inizio della pandemia (marzo 2020) a tutto il 2021 sono stati 811 e rappresentano un quarto di tutti i decessi per cause professionali. Di questi 210 (pari al 25,8%) sono personale sanitario, cioè dipendenti dello Stato che non sono stati sufficientemente protetti e che pure erano sottoposti a obbligo vaccinale. La percentuale più alta ha riguardato gli uomini (85%) e la fascia di età tra 50 e 64 anni (71%), tra gli under 35 l’incidenza di mortalità è dello 0,6%. Forse avevano ragione i sindacati a dire che i protocolli di sicurezza erano più che sufficienti perché anche il numero di infortuni sul lavoro derivanti da Covid è relativamente basso: 191.046 (che corrisponde a un sesto del totale degli infortuni sul lavoro). Si ricorderà che il ministro Speranza ha preteso di escludere i non vaccinati dalle mense aziendali. Il fine era davvero quello di proteggere i lavoratori? Proprio il report dell’Inail - limitatamente al lavoro - dimostra come la pandemia sia piuttosto quella della burocrazia sanitaria che non quella del virus. Perché a fronte di 811 decessi da Covid - sia chiaro anche solo un morto è troppo - sul lavoro sono decedute altre 2.500 persone. Però il costo economico del virus è stato altissimo. Ogni contagiato ha dato luogo ad un mese di malattia e di assenza dal lavoro. E questo nonostante le denunce per «infortunio» da virus siano un sesto di quelle che sono state avanzate in tutto il periodo preso in considerazione. Visto dal versante lavoro il Covid non è la prima patologia, non è la prima causa di morte, ma è probabilmente la voce di maggiore spesa sociale perché la durata dell’infortunio è mediamente più lunga. Il fatto è però che con gli ultimi provvedimenti da quando è scoppiata la sindrome da variante omicron il bilancio economico del virus rischia di appesantirsi ulteriormente. Ci sono da contare le assenze per quarantena, ci sono da considerare le assenze forzate di chi ha figli in età scolastica che non possono frequentare regolarmente. Ci sono da contare gli assenti per mancanza di vaccino. Come si sa, a parte gli over 50 per i quali dal 1 febbraio scatta l’obbligo vaccinale, dal 15 febbraio si può andare al lavoro solo se si ha la carta verde che deve essere verificata obbligatoriamente dai datori di lavoro. Chi non ha il salvacondotto viene sospeso dallo stipendio (ma conserva il posto di lavoro) ed è considerato assente ingiustificato e può essere sostituito. Tuttavia - e qui c’è il trionfo della burocrazia sanitaria - fino al 15 giugno i datori di lavoro possono fare contratti di sostituzione non superiori a 10 giorni lavorativi. In molte aziende è praticamente impossibile. Tutto questo a fronte del 3% di contagi e dello 0,6% dei decessi avvenuti sui luoghi di lavoro.