True
2022-11-16
Per fermare Pechino Europa e Stati Uniti rilanciano maxi piano da 600 miliardi
Xi Jinping (Ansa)
Sono vie tortuose quelle che si stanno dipanando al G20 di Bali: vie in cui si riflette il sempre più complesso rapporto che intercorre tra Stati Uniti e Cina. Come noto, Joe Biden e Xi Jinping hanno avuto un lungo incontro l’altro ieri. Un incontro in cui i due presidenti hanno giocato di sponda sul dossier ucraino, criticando di fatto l’eventualità di un ricorso da parte di Mosca alle armi nucleari. Pur non essendosi sganciato dalla Russia, non è difatti un mistero che il leader cinese sia piuttosto preoccupato dalle problematiche mosse militari del Cremlino.
Tutto questo non deve però farci credere che il summit indonesiano stia portando a una completa distensione tra Washington e Pechino. Le cose stanno infatti ben diversamente. Non a caso, l’inquilino della Casa Bianca sembra deciso ad arginare l’influenza geopolitica del Dragone, a partire dalla Belt and road initiative. È in questo senso che può d’altronde essere letto il fatto che, proprio ieri, Stati Uniti, Indonesia e Commissione europea hanno ribadito il proprio impegno a favore di una partnership sulle infrastrutture.
«Oggi l’Indonesia, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno ospitato congiuntamente un evento sulla Partnership per le infrastrutture e gli investimenti globali (Pgii) a margine del vertice dei leader del G20, in cui abbiamo ribadito il nostro impegno comune a rafforzare i partenariati globali per investimenti di alto livello in infrastrutture sostenibili, trasparenti e di qualità nei Paesi a basso e medio reddito», si legge in una nota congiunta. Non solo. Secondo un comunicato della Casa Bianca, «il presidente Biden, il presidente Widodo e la presidente von der Leyen hanno incontrato leader e ministri di Argentina, Canada, Francia, Germania, India, Giappone, Repubblica di Corea, Senegal e Regno Unito, per evidenziare collaborazione e supporto a favore della Pgii». Ricordiamo che, lanciata lo scorso giugno, la Pgii è una partnership promossa dai Paesi del G7 che, stanziando circa 600 miliardi di dollari, punta a contrastare la longa manus geopolitica, incarnata dalla Belt and road initiative cinese.
Insomma, la Commissione europea sembra essere intenzionata a seguire la Casa Bianca su questo terreno. Una Casa Bianca che mira ad arginare evidentemente l’influenza internazionale che il Dragone sta esercitando attraverso il comparto infrastrutturale. Non è d’altronde un caso che, tra i Paesi coinvolti ieri, figurano anche Senegal, Corea del Sud e India. Tra l’altro, sempre ieri Biden ha avuto un incontro proprio con il premier indiano, Narendra Modi. Secondo il ministero degli Esteri di Nuova Delhi, i due leader «hanno esaminato il continuo approfondimento della partnership strategica tra India e Stati Uniti», occupandosi anche del Quad: quartetto di Paesi che, oltre a India e Usa, comprende anche Australia e Giappone e che costituisce notoriamente un pilastro della politica statunitense anticinese nell’Indo-Pacifico. Il fatto che Modi e Biden ne abbiano parlato evidenzia come, in questo summit di Bali, Pechino rappresenti una delle preoccupazioni principali nutrite dal presidente americano. Un presidente che, nei mesi scorsi, si era mostrato piuttosto irritato verso l’ambiguità dell’India sulla crisi ucraina.
Xi Jinping, dal canto suo, non è rimasto con le mani in mano. E, anzi, ha cercato di portare avanti una linea di contrasto a quella americana. Ieri il presidente cinese si è incontrato con il premier spagnolo, Pedro Sánchez, con quest’ultimo che ha assicurato il proprio impegno per cercare di rafforzare le relazioni tra Bruxelles e Pechino. Xi ha tra l’altro avuto un meeting anche con il premier australiano, Anthony Albanese. Ricordiamo che i rapporti tra Pechino e Canberra sono tesi da tempo e che i cinesi sperano in un ammorbidimento delle relazioni rispetto ai tempi della linea dura promossa da Scott Morrison.
Nel frattempo, ieri il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha avuto modo di incontrare il presidente francese, Emmanuel Macron, e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Nell’occasione, l’inquilino dell’Eliseo avrebbe «ribadito la sua intenzione di continuare i contatti» con Vladimir Putin «per individuare alcuni accordi che, come dice lui, aiuteranno a risolvere l’intera situazione». Una posizione, quella del presidente francese, che potrebbe essere letta come un parziale (e non certo inedito) disallineamento rispetto agli Stati Uniti. In tutto questo, sempre ieri, Lavrov è tornato a criticare pesantemente l’Occidente: «Per quanto riguarda l’argomento ucraino, sia gli Stati Uniti che tutti i suoi alleati sono stati piuttosto aggressivi durante le discussioni di oggi, accusando la Russia, come si suol dire, di aggressione non provocata contro l’Ucraina. Ma altri Paesi sono convinti che l’aggressione sia stata provocata da loro», ha affermato il ministro, che ha inoltre espresso ottimismo sul futuro delle relazioni tra Russia e Cina. Non dimentichiamo d’altronde che, nonostante la suddetta sponda con gli Stati Uniti sul fronte della minaccia nucleare, la Repubblica popolare ha votato contro una recentissima risoluzione Onu, che chiede a Mosca di sostenere i costi delle riparazioni ucraine. Inoltre, secondo il Washington Post, sia la Russia sia la Cina si sarebbero opposte all’uso della parola «guerra» nel documento finale del G20 in riferimento alla crisi ucraina. Pechino, insomma, non esce dall’ambiguità. E intanto la sua sfida all’Occidente prosegue.
L'Occidente: «Niente sanzioni sui fertilizzanti»
La sicurezza alimentare preoccupa l’Occidente: Usa, Ue e Regno Unito hanno emesso un comunicato congiunto sul tema. «L’Unione europea, gli Stati Uniti d’America e il Regno Unito, insieme ad altri membri del G7 e ai nostri partner internazionali, sono in prima linea negli sforzi globali per affrontare l’insicurezza alimentare, che sta colpendo milioni di persone vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, aumentando al contempo il livello dei costi nei nostri Paesi», recita la nota, «Siamo sempre stati chiari sul fatto che l’obiettivo delle nostre sanzioni è la macchina da guerra russa e non il settore alimentare o dei fertilizzanti. A tal fine, abbiamo fornito chiarezza al comparto e ai partner [...] Le nostre disposizioni chiariscono che banche, assicuratori, spedizionieri e altri attori possono continuare a portare cibo e fertilizzanti russi nel mondo», si legge ancora. «Ribadiamo il nostro appello a tutti i Paesi affinché dimostrino il loro sostegno alla Black sea grain initiative [...] E ribadiamo il nostro sostegno ad altri sforzi delle Nazioni unite per facilitare l’accesso al cibo e ai fertilizzanti nei mercati globali».
Ricordiamo che, lo scorso marzo, fu sequestrato a Trieste uno yacht riconducibile al magnate russo Andrey Igorevich Melnichenko, principale azionista di Eurochem: gruppo specializzato proprio in fertilizzanti. Quei fertilizzanti che stanno ormai diventando una sorta di nuovo oro. Se l’anno scorso molti Paesi portavano avanti una diplomazia vaccinale, quest’anno sono invece proprio i fitofarmaci a rappresentare una leva geopolitica significativa. Era marzo scorso quando Cina e Algeria hanno firmato un accordo da 7 miliardi di dollari finalizzato a produrre 5,4 milioni di tonnellate di fertilizzanti all’anno. Pochi giorni fa, El Salvador ha reso noto che riceverà da Pechino più di 1.400 tonnellate di fertilizzanti e oltre 900 tonnellate di farina di frumento. Non solo: secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, altre 720 tonnellate di fertilizzante sono state donate, venerdì scorso, dalla Repubblica popolare alle Fiji «per aiutare a promuovere la crescita agricola della nazione insulare». Il Dragone sarebbe inoltre pronto a promuovere questo tipo di diplomazia anche con le Filippine.
È dunque evidente come i fertilizzanti stiano progressivamente acquisendo peso in termini geopolitici. Un fattore, questo, che Pechino ha compreso assai presto e che sta non a caso sfruttando in varie aree strategiche (dal Nord Africa all’America Latina). L’Occidente finora sembra essersi mosso più lentamente e, se non accelererà su questo fronte, rischierà di perdere terreno nel suo scontro per l’influenza internazionale con il Dragone. Probabilmente il comunicato congiunto di Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito va letto anche in quest’ottica. La crisi alimentare rischia di avere effetti disastrosi su Medio Oriente, Africa e Sud America. E, oltre ai drammatici risvolti umanitari, Pechino potrebbe approfittarne. Ecco perché l’Occidente, sui fertilizzanti, dovrebbe approntare celermente una controstrategia.
Continua a leggere
Riduci
Al G20 focus sul progetto dedicato alle infrastrutture in chiave anti Via della seta. Biden e Xi: «Mai armi nucleari in Ucraina».Nota congiunta ribadisce che non ci sono restrizioni sui prodotti per l'agricoltura russi.Lo speciale contiene due articoli.Sono vie tortuose quelle che si stanno dipanando al G20 di Bali: vie in cui si riflette il sempre più complesso rapporto che intercorre tra Stati Uniti e Cina. Come noto, Joe Biden e Xi Jinping hanno avuto un lungo incontro l’altro ieri. Un incontro in cui i due presidenti hanno giocato di sponda sul dossier ucraino, criticando di fatto l’eventualità di un ricorso da parte di Mosca alle armi nucleari. Pur non essendosi sganciato dalla Russia, non è difatti un mistero che il leader cinese sia piuttosto preoccupato dalle problematiche mosse militari del Cremlino. Tutto questo non deve però farci credere che il summit indonesiano stia portando a una completa distensione tra Washington e Pechino. Le cose stanno infatti ben diversamente. Non a caso, l’inquilino della Casa Bianca sembra deciso ad arginare l’influenza geopolitica del Dragone, a partire dalla Belt and road initiative. È in questo senso che può d’altronde essere letto il fatto che, proprio ieri, Stati Uniti, Indonesia e Commissione europea hanno ribadito il proprio impegno a favore di una partnership sulle infrastrutture. «Oggi l’Indonesia, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno ospitato congiuntamente un evento sulla Partnership per le infrastrutture e gli investimenti globali (Pgii) a margine del vertice dei leader del G20, in cui abbiamo ribadito il nostro impegno comune a rafforzare i partenariati globali per investimenti di alto livello in infrastrutture sostenibili, trasparenti e di qualità nei Paesi a basso e medio reddito», si legge in una nota congiunta. Non solo. Secondo un comunicato della Casa Bianca, «il presidente Biden, il presidente Widodo e la presidente von der Leyen hanno incontrato leader e ministri di Argentina, Canada, Francia, Germania, India, Giappone, Repubblica di Corea, Senegal e Regno Unito, per evidenziare collaborazione e supporto a favore della Pgii». Ricordiamo che, lanciata lo scorso giugno, la Pgii è una partnership promossa dai Paesi del G7 che, stanziando circa 600 miliardi di dollari, punta a contrastare la longa manus geopolitica, incarnata dalla Belt and road initiative cinese. Insomma, la Commissione europea sembra essere intenzionata a seguire la Casa Bianca su questo terreno. Una Casa Bianca che mira ad arginare evidentemente l’influenza internazionale che il Dragone sta esercitando attraverso il comparto infrastrutturale. Non è d’altronde un caso che, tra i Paesi coinvolti ieri, figurano anche Senegal, Corea del Sud e India. Tra l’altro, sempre ieri Biden ha avuto un incontro proprio con il premier indiano, Narendra Modi. Secondo il ministero degli Esteri di Nuova Delhi, i due leader «hanno esaminato il continuo approfondimento della partnership strategica tra India e Stati Uniti», occupandosi anche del Quad: quartetto di Paesi che, oltre a India e Usa, comprende anche Australia e Giappone e che costituisce notoriamente un pilastro della politica statunitense anticinese nell’Indo-Pacifico. Il fatto che Modi e Biden ne abbiano parlato evidenzia come, in questo summit di Bali, Pechino rappresenti una delle preoccupazioni principali nutrite dal presidente americano. Un presidente che, nei mesi scorsi, si era mostrato piuttosto irritato verso l’ambiguità dell’India sulla crisi ucraina. Xi Jinping, dal canto suo, non è rimasto con le mani in mano. E, anzi, ha cercato di portare avanti una linea di contrasto a quella americana. Ieri il presidente cinese si è incontrato con il premier spagnolo, Pedro Sánchez, con quest’ultimo che ha assicurato il proprio impegno per cercare di rafforzare le relazioni tra Bruxelles e Pechino. Xi ha tra l’altro avuto un meeting anche con il premier australiano, Anthony Albanese. Ricordiamo che i rapporti tra Pechino e Canberra sono tesi da tempo e che i cinesi sperano in un ammorbidimento delle relazioni rispetto ai tempi della linea dura promossa da Scott Morrison. Nel frattempo, ieri il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha avuto modo di incontrare il presidente francese, Emmanuel Macron, e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Nell’occasione, l’inquilino dell’Eliseo avrebbe «ribadito la sua intenzione di continuare i contatti» con Vladimir Putin «per individuare alcuni accordi che, come dice lui, aiuteranno a risolvere l’intera situazione». Una posizione, quella del presidente francese, che potrebbe essere letta come un parziale (e non certo inedito) disallineamento rispetto agli Stati Uniti. In tutto questo, sempre ieri, Lavrov è tornato a criticare pesantemente l’Occidente: «Per quanto riguarda l’argomento ucraino, sia gli Stati Uniti che tutti i suoi alleati sono stati piuttosto aggressivi durante le discussioni di oggi, accusando la Russia, come si suol dire, di aggressione non provocata contro l’Ucraina. Ma altri Paesi sono convinti che l’aggressione sia stata provocata da loro», ha affermato il ministro, che ha inoltre espresso ottimismo sul futuro delle relazioni tra Russia e Cina. Non dimentichiamo d’altronde che, nonostante la suddetta sponda con gli Stati Uniti sul fronte della minaccia nucleare, la Repubblica popolare ha votato contro una recentissima risoluzione Onu, che chiede a Mosca di sostenere i costi delle riparazioni ucraine. Inoltre, secondo il Washington Post, sia la Russia sia la Cina si sarebbero opposte all’uso della parola «guerra» nel documento finale del G20 in riferimento alla crisi ucraina. Pechino, insomma, non esce dall’ambiguità. E intanto la sua sfida all’Occidente prosegue.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-fermare-pechino-europa-e-stati-uniti-rilanciano-maxi-piano-da-600-miliardi-2658652061.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="l-occidente-niente-sanzioni-sui-fertilizzanti" data-post-id="2658652061" data-published-at="1668542642" data-use-pagination="False"> L'Occidente: «Niente sanzioni sui fertilizzanti» La sicurezza alimentare preoccupa l’Occidente: Usa, Ue e Regno Unito hanno emesso un comunicato congiunto sul tema. «L’Unione europea, gli Stati Uniti d’America e il Regno Unito, insieme ad altri membri del G7 e ai nostri partner internazionali, sono in prima linea negli sforzi globali per affrontare l’insicurezza alimentare, che sta colpendo milioni di persone vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, aumentando al contempo il livello dei costi nei nostri Paesi», recita la nota, «Siamo sempre stati chiari sul fatto che l’obiettivo delle nostre sanzioni è la macchina da guerra russa e non il settore alimentare o dei fertilizzanti. A tal fine, abbiamo fornito chiarezza al comparto e ai partner [...] Le nostre disposizioni chiariscono che banche, assicuratori, spedizionieri e altri attori possono continuare a portare cibo e fertilizzanti russi nel mondo», si legge ancora. «Ribadiamo il nostro appello a tutti i Paesi affinché dimostrino il loro sostegno alla Black sea grain initiative [...] E ribadiamo il nostro sostegno ad altri sforzi delle Nazioni unite per facilitare l’accesso al cibo e ai fertilizzanti nei mercati globali». Ricordiamo che, lo scorso marzo, fu sequestrato a Trieste uno yacht riconducibile al magnate russo Andrey Igorevich Melnichenko, principale azionista di Eurochem: gruppo specializzato proprio in fertilizzanti. Quei fertilizzanti che stanno ormai diventando una sorta di nuovo oro. Se l’anno scorso molti Paesi portavano avanti una diplomazia vaccinale, quest’anno sono invece proprio i fitofarmaci a rappresentare una leva geopolitica significativa. Era marzo scorso quando Cina e Algeria hanno firmato un accordo da 7 miliardi di dollari finalizzato a produrre 5,4 milioni di tonnellate di fertilizzanti all’anno. Pochi giorni fa, El Salvador ha reso noto che riceverà da Pechino più di 1.400 tonnellate di fertilizzanti e oltre 900 tonnellate di farina di frumento. Non solo: secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, altre 720 tonnellate di fertilizzante sono state donate, venerdì scorso, dalla Repubblica popolare alle Fiji «per aiutare a promuovere la crescita agricola della nazione insulare». Il Dragone sarebbe inoltre pronto a promuovere questo tipo di diplomazia anche con le Filippine. È dunque evidente come i fertilizzanti stiano progressivamente acquisendo peso in termini geopolitici. Un fattore, questo, che Pechino ha compreso assai presto e che sta non a caso sfruttando in varie aree strategiche (dal Nord Africa all’America Latina). L’Occidente finora sembra essersi mosso più lentamente e, se non accelererà su questo fronte, rischierà di perdere terreno nel suo scontro per l’influenza internazionale con il Dragone. Probabilmente il comunicato congiunto di Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito va letto anche in quest’ottica. La crisi alimentare rischia di avere effetti disastrosi su Medio Oriente, Africa e Sud America. E, oltre ai drammatici risvolti umanitari, Pechino potrebbe approfittarne. Ecco perché l’Occidente, sui fertilizzanti, dovrebbe approntare celermente una controstrategia.
Il Castello Mackenzie di Genova. A destra, il dettaglio della torre (Ansa)
Ewan Mackenzie, di padre scozzese, era toscano fin nel midollo. Da Firenze, la città che lo vide nascere nel 1852, assorbì la passione per l’arte e la letteratura del Rinascimento e dell’opera di Dante di cui fu collezionista delle edizioni più rare della Commedia.
Mackenzie si trasferì a Genova come agente dei Lloyds di Londra. Qui alla fine del secolo XIX fonderà un impero in campo assicurativo, l’Alleanza Assicurazioni. Il grande successo imprenditoriale gli permise di coronare il sogno di una vita: quello di dare nuova forma al Rinascimento toscano nella città della Lanterna con la costruzione di una dimora unica nella zona degli antichi bastioni di san Bartolomeo al Castelletto che dominano Genova ed il porto antico. Trovò nell’esordiente architetto fiorentino Gino Coppedè la professionalità giusta per realizzare la sua nuova dimora. Quest’ultimo era figlio d’arte di uno degli ebanisti più quotati dell’epoca, Mariano Coppedé. I lavori di costruzione del capolavoro dell’eclettismo tipico degli anni a cavallo tra i secoli XIX e XX iniziarono nel 1897 per concludersi 9 anni più tardi, nel 1906. Il castello, che cambiò la prospettiva dalla vicina piazza Manin, era un capolavoro di arte ispirata al Medioevo ed al Rinascimento. La torre principale ricordava quella di Palazzo Vecchio a Firenze, mentre mura, nicchie torrette e merletti, compresi i fossati e i ponti, facevano pensare ai manieri medievali. All’interno dominava la boiserie della bottega Coppedé, nelle oltre 80 stanze della dimora. Non mancava un tocco di modernità nell’impianto di riscaldamento centralizzato e nell’acqua calda disponibile in tutta la casa. Il palazzo ospitava anche una piscina riscaldata ed un ascensore di grande capienza. Nei sotterranei erano state ricavate grotte scenografiche, ispirate alla Grotta Azzurra di Capri, con statue mitologiche e giochi d’acqua, e non mancava un luogo dedicato alla preghiera, una cappella in stile neogotico con vetrate artistiche, ed una immensa biblioteca dove erano conservate le edizioni più preziose della Commedia dantesca. Il castello fu abitato dalla famiglia fino alla morte del proprietario avvenuta nel 1935. La figlia di Ewan, Isa Mackenzie, la cedette poco dopo ad una società immobiliare. Dopo l’8 settembre 1943 fu requisito dai tedeschi e scampò per miracolo ai pesantissimi bombardamenti sulla città. Nel dopoguerra fu brevemente occupato dagli Alleati prima di essere destinato a diventare una stazione dei Carabinieri, che rimasero fino al 1956 quando il castello fu dichiarato monumento nazionale. In seguito fu adibito a sede di una società sportiva, la Società Ginnastica Rubattino, e dagli anni Sessanta andò incontro ad un declino durato per tutto il decennio successivo. Solo negli anni seguenti la dimora da sogno di Mackenzie poté essere recuperata al suo splendore originario. Nel 1986 il magnate e collezionista d’arte americano Mitchell Wolfson Jr. rilevò il castello ed iniziò un complesso restauro a partire dal 1991 prima di cederlo a sua volta a Marcello Cambi, famoso restauratore toscano e patron dell’omonima casa d’aste della quale il castello divenne la sede, dopo un’ulteriore restauro da parte del grande architetto genovese Gianfranco Franchini, tra i progettisti assieme a Renzo Piano e Richard Rogers del Centro Georges Pompidou di Parigi.
Continua a leggere
Riduci