2018-10-24
«Per camminare sulla Luna non mi serviva il computer»
Per l'uscita del film biografico, pubblichiamo il dialogo inedito con l'astronauta morto nel 2012: «Ci allenavamo a fare calcoli a mente in modo da reagire in caso di guasto».First Man, con Ryan Gosling, racconta il lato privato del protagonista dell'allunaggio. Dopo la morte della figlia, riuscì a imporsi alla Nasa anche se aveva lasciato l'esercito.Lo speciale contiene due articoliLas Vegas, ottobre 2010, ultimo giorno del congresso sull'aviazione sperimentale. La moquette del centro congressi spegne il rumore dei passi, cammini per ore in un mondo ovattato e soltanto quando ne esci comprendi quanta strada hai fatto tra aule, corridoi e grandi padiglioni. Dopo aver ascoltato la conferenza dell'ottantenne Moonwalker 1 Neil Armstrong (morto due anni dopo, nel 2012) sull'opportunità di tornare sulla Luna - da pilota, Neil non era troppo d'accordo a un ritorno ai voli automatici per portare in orbita gli astronauti - lo attesi come un ragazzino fa con il suo campione, gli chiesi l'autografo senza riuscirci, ma poi , per una inaspettata combinazione, camminammo insieme fino al padiglione successivo distante 600 metri e, incredibilmente, nessun altro ci seguì.Gli feci i complimenti e chiesi di fare una foto con lui. Dissi quasi per giustificarmi: «Sono nato nel 1969». Lui sorrise e si mise in posa con il suo facciotto roseo e con pochissime rughe. Mi uscì un complimento su come portava la sua età e lui, sempre sorridendo, rispose che è l'ossigeno a ossidarci, e scherzandoci sopra disse che restare con poco ossigeno a disposizione per qualche tempo - riferendosi alla prima passeggiata spaziale - probabilmente ringiovaniva.Camminava lentamente ma senza incertezze questo figlio di contadini del Midwest, comunicava grande serenità e l'ottimismo di chi, nonostante il successo, sa che non è sempre solo una questione di bravura, qualche volta ci vogliono anche fortuna e intuizione. «Così fai prove di volo», mi chiese, «e di che quali aeroplani?». «Piccoli e d'affari, nulla di eccezionale...». «Poniti sempre dubbi per restare vivo, un dubbio più degli altri».Dalla camminato nacque un'intervista rimasta inedita, che oggi La Verità pubblica in occasione della prossima uscita del film sulla sua vita, First Man. Lei volò nella guerra di Corea, che ricordi ha? Quante missioni fece?«Avevo 20 anni, ho ottimi ricordi. Volavo nel Fighter squadron 51 della Marina e ho partecipato a 78 missioni. Ci volevano tenacia e risolutezza, ma anche giudizio e integrità, perché la guerra porta a far dimenticare di essere uomini».È vero che salvò un gruppo di soldati nemici?«Non proprio. In realtà era l'alba nebbiosa di un giorno del 1951, ero decollato al buio per una missione di bombardamento nell'entroterra, aspettavamo una colonna di mezzi, volavo basso per non essere inquadrato e non troppo veloce per manovrare con precisione senza eccessivo fragore. Oltre una collina vidi una radura nella quale alcune file di soldati nemici stavano facendo ginnastica. Erano disarmati e li avevo proprio nel collimatore delle mitragliatrici. Ma non sparai, tolsi il dito dal grilletto e passai oltre. Pensai che stessero già vivendo abbastanza difficoltà». Lei tra gli astronauti era davvero l'unico civile? «Sì. Dopo aver fatto il pilota militare andai all'università a fare il professore, e a tutto pensavo tranne che alla Nasa. Ma una volta entrato nel programma Gemini (che precedette l'Apollo, ndr), forse perché ascoltavo gli ingegneri più degli altri astronauti, mi affidarono crescenti responsabilità».Eravate sotto una grande pressione internazionale...«Sì, ma eravamo protetti da un cordone di sicurezza impenetrabile. Nessuno seppe per mesi che io sfuggii per un soffio a un disastro durante i collaudi del modulo lunare: me la cavai con qualche livido. Rimasi un civile anche nei modi. Il modo di porsi gentile, di ragionare senza il problema di far riconoscere la propria autorità, aiuta a far crescere l'autorevolezza. Prova a fare così: se ti trovi in una sala nella quale tutti alzano la voce, tu per attirare l'attenzione taci per un po' e poi fai l'opposto, sussurra. Alla Nasa il mio approccio era più elastico e alternativo rispetto a quello delle teste calde che l'organizzazione stava addestrando e che continuavano a fare errori».Quanto c'era di manuale, di non automatico nell'Apollo 11?«Molto. Il computer funzionava bene, ma noi avevamo imparato a usare rapidamente le schede plastificate con i grafici e le formule, in modo da ricavare i dati anche senza computer. C'era poco margine: se sbagliavamo, addio».Anche i corridoi dei grandi centri congressi prima o poi finiscono, e mentre realizzai di doverlo salutare mi resi conto che tra gli esploratori di tutti i tempi Neil Armstrong è stato l'ultimo ad arrivare per primo dove nessuno era mai stato. Come Ferdinando Magellano, David Livingstone e Cristoforo Colombo, questo nonno cortese che non avrei mai voluto lasciar andare via quasi mezzo secolo fa si diresse verso la sua meta, la prima extraterrestre.Un po' a tradimento estrassi il libro di Eugene Kranz, storico direttore di missione della Nasa dal programma Gemini all'Apollo, e gli chiesi un autografo porgendogli la penna.Neil mi guardò diventando serio e sorreggendo il libro citò e scrisse una frase di David Hornig, lo scienziato della Nasa che il 22 luglio 1969 dichiarò: «Andare sulla Luna equivale a pagare la prima rata di un'assicurazione per il futuro dell'umanità». «Grazie, cercherò anche libri di Hornig...». «Leggi anche sir Bernard Lowell, che non c'entra nulla con Jim (il collega di Neil e comandante di Apollo 8 e 13, ndr), ma fu lo storico direttore dell'osservatorio astronomico inglese di Jodrell Bank, il quale disse: “La storia ha dimostrato che solamente nei momenti in cui è stato necessario all'uomo di risolvere problemi apparentemente insormontabili, c'è stato un significativo passo avanti della civiltà umana"».Poi mi congedò: «Buona fortuna» e, strizzando un po' gli occhi sul badge che avevo al collo cercò il mio nome, ripetendo: «Buona fortuna».Ringraziai mister Armstrong, lui sorrise e ricominciò a camminare con i passi brevi di chi nella vita ne ha fatti molti. Sempre sulla moquette, senza fare alcun rumore, come senza rumore erano quelli sulla superficie della Luna. L'osservai fino a vederlo sparire tra la gente lanciandogli il saluto caro agli astronauti: «Godspeed, Undici»!Sergio Barlocchetti<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-camminare-sulla-luna-non-mi-serviva-il-computer-2614611037.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-civile-che-fece-le-scarpe-ai-militari" data-post-id="2614611037" data-published-at="1757940167" data-use-pagination="False"> Il civile che fece le scarpe ai militari È il buio, sono le lamiere piegate in un rombo assordante, il collaudo di un X 15 ad aprire First Man, al cinema dal 31 ottobre. Eppure il film, diretto dal premio Oscar Damien Chazelle, con la Luna e quel che è costato all'uomo metterci piedi non ha molto a che vedere. La pellicola racconta, piuttosto, l'eccezionalità di un uomo, Neil Armstrong, che dell'impossibile ha fatto la propria realtà. Adattamento della biografia omonima, scritta nel 2005 da James R. Hansen, First Man si muove «tra la Luna e il tinello degli Armstrong», simboli di un dualismo sul quale Chazelle ha costruito l'intero film. Il regista, che nei panni dell'astronauta ha voluto il proprio attore feticcio, Ryan Gosling, ha ricostruito minuziosamente il percorso umano, che, il 20 luglio 1969, ha portato Armstrong a essere protagonista del primo allunaggio. La pellicola, dunque, prende il via dieci anni prima dell'impresa eroica, quando Armstrong non è nulla più di un ingegnere, pilota e collaudatore all'aeronautica americana. Allora, quello che sarebbe diventato il primo astronauta civile della storia americana è diviso tra la carriera e i doveri di un padre di famiglia, disposto a sacrificare ogni suo respiro per la figlioletta, Karen, malata di tumore. La bimba ha appena 2 anni, e niente, né i medici, né la dedizione disperata dei genitori, riesce a strapparla al proprio destino. Karen muore nel 1962, segnando nell'esistenza di Armstrong un punto di non ritorno. L'uomo mite e schivo che Gosling interpreta magistralmente si chiude nel proprio dolore, costringendosi a usare la sofferenza come propulsore del cambiamento. Armstrong lascia l'aeronautica e, nove mesi dopo la scomparsa della figlia, entra a far parte del progetto Gemini, organizzato dalla Nasa perché astronauti scelti (anche) tra i civili potessero sviluppare tecniche avanzate al punto da portare l'uomo sulla Luna. È determinato, Armstrong, e dalla famiglia ha avuto il via libera. La moglie Janet, una Claire Foy eccezionale, capace di sostituire il proprio accento inglese con la parlata del Midwest, ha carezzato la mano del marito e gli ha promesso che il nuovo lavoro sarebbe stato «un'avventura». Ma alle tragedie che la sperimentazione si sarebbe portata appresso nessuno poteva essere preparato. Armstrong, che nel film si muove su un doppio binario, quello dell'uomo e quello del professionista, assiste alla morte di colleghi e amici. Impotente, arrabbiato, ma capace, altresì, di non farsi travolgere dell'emozione. È l'imperturbabilità la chiave del successo di Neil Armstrong, quella capacità, a tratti disturbante, di controllare ogni suo istinto, trattenendo le lacrime, imponendosi di non dar voce, mai, alla propria frustrazione. E questo Chazelle sembra averlo colto più di tutto il resto. Perché First Man, titolo con il quale, a settembre, è stata aperta la Mostra del cinema di Venezia, non è un film sulla sfida per la supremazia tecnologica che gli Stati Uniti hanno combattuto contro la potenza sovietica. Né è un film sull'allunaggio, sebbene nel finale si perda, un poco, nella retorica. First Man, nel quale non c'è patriottismo né bandiera americana a svettare sulla Luna (cosa, questa, sulla quale Donald Trump ha avuto di che lamentarsi), è un film capace di insegnare come l'eccezionalità, spesso, non stia nell'impresa ma nell'uomo. Nel genio individuale, non in quello collettivo. E, oltreoceano, c'è chi è pronto a giurare che questa lezione sia a prova di Oscar. Claudia Casiraghi
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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