2020-01-18
«Pennarelli in scatola per 12 ore al giorno. Noi africani siamo prigionieri dei cinesi»
Emanuele Cremaschi/Getty Images
La Procura di Torino indaga su denuncia di tre richiedenti asilo. Al lavoro 7 giorni su 7, sequestrati in ditta per 150 euro al mese.Costretti a impacchettare pennarelli anche per 12 ore al giorno 7 giorni su 7, chiusi a chiave in un magazzino senza mangiare, con uno stipendio di poche centinaia di euro al mese e con la falsa promessa di un permesso di soggiorno. È la storia che arriva da San Mauro Torinese, alle porte del capoluogo piemontese, accanto a Settimo, in quell'area che sin dall'Ottocento veniva chiamata il «distretto della penna», fiore all'occhiello delle imprese italiane nella produzione di penne a sfera, stilografiche o appunto pennarelli a colori. Il tempo è passato. Qualcosa è rimasto. Ma a un secolo di distanza in zona sono arrivati anche i cinesi che hanno manodopera a basso costo e hanno continuato a fornire anche ditte importanti del settore. Tra questi c'era Jin Shaouha, nato nel 1970 in Cina, titolare fino allo scorso anno della Pakiging srl, azienda di imballaggio e confezionamento di generi alimentari. È qui che da un po' di tempo il titolare cinese aveva deciso di arruolare ragazzi africani, in particolare da Gambia e Ghana, promettendo loro documenti in regola. Da tempo gli immigrati della zona cercano di trovare qualche lavoretto per mandare soldi a casa. In molti li trovano grazie al passaparola, sia nelle pizzerie o appunto in magazzini dove serve manodopera. In realtà spesso le paga sono bassissime. In più venivano schiavizzati, chiusi a chiave all'interno del magazzino senza poter uscire. «Per fortuna alcuni si portavano un panino da casa» spiega l'avvocato che li segue, Simone Bisacca, a La Verità. «Tre di loro poi hanno protestato e sono stati tutti licenziati». La società è stata poi liquidata ma Jin Shaouha ne ha subito aperta un'altra, questa volta una cooperativa, la Raimbow group, con altri connazionali, per continuare a lavorare nel settore come se nulla fosse successo. Nei giorni scorsi c'è stata la prima udienza di fronte al giudice del lavoro dove i titolari della Pakiging non si sono presentati. In totale si parla di 45 lavoratori sfruttati, con una paga media di 18 euro al giorno. Ma c'è di più. Anche la procura di Torino ha acceso un faro sulla vicenda. Bisacca ha presentato infatti un mese fa un esposto per sfruttamento del lavoro. C'è un'indagine penale in corso. Per di più il 10 gennaio l'ispettorato sul lavoro del capoluogo piemontese ha inviato una dettagliata relazione sulla vicenda proprio in Procura. I titolari dell'indagine sono Giovanni Caspani e Delia Boschetto. «In qualità di richiedenti asilo si trovavano in evidente stato di soggezione rispetto al datore di lavoro, data l'importanza per loro di poter provare di avere un'attività lavorativa utile al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari» si legge nell'esposto. «Il datore di lavoro non perdeva occasione di ricordare loro che se volevano continuare a lavorare e sperare di ottenere il permesso di soggiorno, dovevano accettare le condizioni di lavoro da lui dettate». Inoltre, «i ricorrenti hanno non solo osservato un orario full time, ma hanno altresì svolto quotidianamente 2/3 ore di straordinario, per una media di almeno 10 ore al giorno». Gli inquirenti stanno cercando di capire se la Pakiging lavorasse per aziende più note e più importanti. Del resto era una srl in regola. Il rischio è che questo tipo di manodopera a basso costo fosse un metodo ormai noto nel distretto della penna? A dirlo saranno i magistrati. Nel frattempo l'avvocato Bisacca sta portando davanti al giudice del lavoro le richieste dei lavoratori africani, con l'obiettivo di ottenere una giusta retribuzione. A pagare potrebbero essere anche i committenti, perché in caso di appalto, «il committente è obbligato con l'appaltatore a corrispondere ai lavoratori lo stipendio, comprese le quote di Tfr, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto». Drammatiche le testimonianze dei lavoratori. «Ci hanno ricattati con la scusa dei documenti", ha detto un ragazzo gambiano a La Stampa, “siamo stati ingaggiati attraverso il passaparola da altri nostri connazionali. A volte ci sequestravano, dovevamo portarci il cibo e l'acqua perché una volta entrati non si poteva più uscire. Un amico mi ha detto di questa azienda che ci avrebbe assunti con il contratto in modo da facilitare poi le pratiche per le richieste d'asilo. Solo dopo abbiamo poi scoperto quanto fossero miseri gli stipendi».
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