2020-05-05
«Pechino bloccava export di mascherine e taceva sul Covid»
Secondo Washington ritardare le informazioni sul virus è servito a far incetta di Dpi. Utilizzati da Xi Jinping per le «pressioni umanitarie».Sale ai livelli di guardia la temperatura tra Pechino e il mondo occidentale. Tanto che, come rivelano i report interni messi a disposizione di Xi Jinping, oggi il sentimento anti-cinese nel mondo si attesta ai livelli del periodo di Piazza Tienanmen. Non è certo una novità che l'amministrazione Trump ritenga il Dragone responsabile di aver diramato con colpevole ritardo l'allarme sui rischi legati al contagio da coronavirus. Ma ai già noti addebiti, all'indirizzo del regime cinese si aggiunge l'accusa di aver sfruttato il vantaggio temporale nell'epidemia per accumulare grandi quantità di materiale sanitario. Cioè le stesse mascherine oggi considerate merce rara sul mercato globale. È quanto emerge da un rapporto riservato diffuso venerdì dal Dipartimento della sicurezza interna, menzionato per la prima volta venerdì dall'agenzia di stampa Associated Press e successivamente ripreso da numerosi media americani. «Probabilmente la Cina ha tagliato le sue esportazioni di forniture mediche», recita il rapporto, «prima di aver notificato l'epidemia all'Organizzazione mondiale della sanità lo scorso gennaio». Eventualità confermata nel corso di un'intervista rilasciata all'emittente Abc da segretario di Stato, Mike Pompeo. Negli scorsi giorni sia il presidente Donald Trump che lo stesso Pompeo avevano avallato la teoria secondo la quale il virus provenga dai laboratori di Wuhan.A domanda precisa da parte della giornalista, il segretario di Stato non si è tirato indietro: «I fatti sono questi, possiamo confermare che il Partito comunista cinese ha fatto tutto il possibile per evitare che il mondo venisse a conoscenza (dei rischi, ndr) in modo tempestivo». Secondo gli autori del report, esiste il 95% di probabilità che le oscillazioni nel mercato estero dei dispositivi non rientrino in un intervallo considerato fisiologico. I funzionari di Pechino hanno però sempre negato pubblicamente di avere mai imposto un divieto alle esportazioni di mascherine e altre forniture mediche.Se verificate, le ultime accuse rischiano non solo di compromettere definitivamente i rapporti tra Cina e Stati Uniti, ma anche di creare un caso diplomatico a livello mondiale. Specie alla luce della narrazione, molto in voga in questi tempi, che dipinge il regime comunista in veste di munifico donatore di attrezzature sanitarie. Perché se da un lato risulta innegabile il fatto che negli ultimi mesi il Vecchio continente abbia ricevuto dalla Cina ingenti quantitativi di dispositivi di protezione, d'altro canto occorre fare i dovuti distinguo. Secondo l'Ispi, la cosiddetta «diplomazia delle mascherina» va inserita nell'ottica di un nuovo «soft power cinese», vale a dire «la capacità di ottenere ciò che si desidera per attrazione e persuasione piuttosto che per coercizione e pagamento». E visti i numeri ufficiali che danno i nuovi contagi quasi a quota zero ormai da diverse settimane, per la Cina è senza dubbio più facile riuscire ad esportare mascherine. Senza contare che Pechino già prima della pandemia sfornava la metà di questi dispositivi a livello mondiale, e da allora ha aumentato di 12 volte la loro produzione. Un'inchiesta del New York Times pubblicata il 13 marzo scorso puntava il dito contro il regime, accusato non solo di aver tenuto per sé la produzione interna, ma anche di aver assorbito gran parte del fabbisogno mondiale. Tanto per dare qualche cifra, basti sapere che nella prima settimana dopo il lockdown di Wuhan, lo scorso gennaio, la Cina importava ben 56 milioni tra respiratori e mascherine, 20 milioni dei quali nell'arco di un solo giorno. Oggi i magazzini cinesi sono pieni di attrezzature sanitarie, come documenta una recente inchiesta di Al Jazeera. Semplici intoppi burocratici oppure c'è di mezzo un preciso disegno geopolitico?Una cosa è certa: le rivelazioni dell'intelligence non lasciano indifferenti nemmeno i Paesi europei. Strizzano l'occhio a Washington, in questo senso, le dichiarazioni rilasciate venerdì scorso al network Cnbc da parte di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue. «Ci servono più dati e più trasparenza», ha affermato la von der Leyen, «la Cina deve collaborare per capire come è scoppiata la pandemia», appoggiando l'idea di un'indagine internazionale sull'origine del virus. E a fare eco a Bruxelles interviene anche Londra. «I cinesi devono rispondere a molte domande circa la velocità con cui hanno informato il mondo della crisi», ha dichiarato il segretario alla Difesa britannico Ben Wallace, «faremo un esame di quanto successo quando avremo tutto sotto controllo e le nostre economie saranno tornate alla normalità, ma la Cina deve essere trasparente sui propri successi come sui problemi».Tutto l'asse atlantico, insomma, risulta allineato contro Pechino. E l'Italia? Se l'opposizione con Matteo Salvini invita a «chiedere i danni alla Cina per la diffusione del coronavirus», il governo sembra incapace di decidere, incastrato com'è tra due fuochi. Con la fazione grillina di Alessandro Di Battista a spingere per schierarsi dalla parte del Dragone. Una scelta di campo che nel prossimo futuro rischia di costarci molto cara.
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)